domenica 27 marzo 2016

Ave, Cesare!

Ormai si sa, questo blog si attiva solo quando c'è da parlare di Bob Dylan, fratelli Coen (o entrambi) o Woody Allen o qualche altro ebreo (ma giuro che è solo un caso)... E vista l'uscita dell'ultimo film diretto dai due amati fratelli, il blog si è naturalmente rimesso in moto, soprattutto per assolvere ad un compito: provare a dire qualcosa di diverso rispetto a quanto si è letto a proposito in giro per la rete, utilizzando il metodo dell'analisi più che della recensione.
Cominciando con un po' di storia, va detto che Hail, Caesar! arriva da molto lontano. Era infatti il 1999 quando i fratelli raccontano a George Clooney, sul set di Fratello, dove sei?, una loro bizzarra idea per un film, che in realtà non hanno neppure tutta questa voglia di realizzare. Loro fanno così, allo spuntare di un'idea ci giocano un po', la mettono in un cassetto, a distanza di tempo la tirano fuori, la spolverano, e a seconda di come vanno le cose in quel periodo la girano o la riseppelliscono nel cassetto.
Hail, Caesar! è dunque rimasto in panchina per un bel po' di anni, sorpassato (anche giustamente) da ispirazioni più urgenti, fino a che le insistenze dell'amico George e le condizioni favorevoli li hanno convinti a scrivere finalmente quella sceneggiatura. Una sceneggiatura che, come sempre, è un perfetto meccanismo a orologeria. Nessun buco, nessuna sbavatura tecnica. Puntuali ritornano anzi le tipiche caratteristiche dello script coeniano: trama fitta, insulso mcguffin a fare da motore, percorso circolare che fa iniziare e concludere il film allo stesso modo, voce narrante, la vigilia di una minaccia che incombe sopra tutto e tutti (qui sono gli esperimenti nucleari nel pacifico) e un cast di personaggi tonti e in larga parte spregevoli. Ne consegue l'ennesima negazione del classico racconto in tre atti e delle sue aspettative, in primis quella sull'evoluzione dei personaggi. Ma andiamo con ordine.
Di fatto, anche questo è il tour de force di un personaggio protagonista nell'arco di un ristretto arco di tempo (una giornata e mezzo), così come lo è stato per Llewyn Davies (per lui era qualche giorno) nel loro film precedente, ma i due protagonisti non potrebbero essere più diversi: tanto lento e inconcludente Llewyn, tanto pragmatico e risolutore Eddie Mannix, anche se, paradossalmente, il primo era quanto mai deciso e sicuro di sé, mentre il secondo è profondamente insicuro e tormentato. Eddie, tra l'altro, si dimostra un personaggio relativamente nuovo nella galleria di protagonisti coeniani, di solito sempre "falliti" o "idioti". Qui abbiamo a che fare con un vincente, un uomo rispettato, salutato e riverito, addirittura ambito per le sue capacità. Sarà che il personaggio di Josh Brolin è ispirato al vero Eddie Mannix, ma di solito questo tipo di personaggi sono relegati dai Coen al ruolo di antagonisti, ed è una piacevole sorpresa per una volta non avere al centro dell'azione un perdente.
La cosa non ci deve però fuorviare facendoci pensare che Mannix sia quindi un plausibile alter ego degli autori, poiché l'unico indiscutibile portavoce della filmografia coeniana è, e rimane Dude Lebowski. Basti vedere il fervore religioso di cui il personaggio Mannix viene investito per fugare ogni dubbio: Eddie per i Coen non è in realtà meno stupido degli altri, e la sua piccolezza si dimostra tutta nella devozione cieca e servile verso il capo della Capitol Pictures.
Come tutti gli altri protagonisti coeniani, Eddie si dimostra un personaggio che non cresce, ma che anzi al termine del suo "viaggio dell'eroe" ritorna esattamente al punto di partenza. Questa, da sempre sottovalutata, è in realtà una delle parti fondamentali della poetica dei registi di Minneapolis.
Le Storie comunemente ci insegnano che un protagonista inizia la sua avventura con qualche deficit, un problema umano/caratteriale da superare insieme con il resto dei problemi che dovrà affrontare nel corso del suo viaggio, e che nel finale, grazie alle esperienze fatte, avrà trovato il modo di affrontare. Solitamente, dunque, un protagonista cresce. Quello che i Coen ci dicono da trent'anni invece è che in realtà questa cosa non avviene.
Nel loro specchio del mondo, le persone rimangono quello che sono. Leewyn Davies non diventa un cantautore di successo, Larry Gopnik non comprende il senso della vita, i protagonisti ridicoli e disperati di Burn After Reading non trovano la loro felicità. Tutti rimangono immutabili, e a volte questo è tragico, per Barton Fink o Ed Crane ad esempio; altre volte è liberatorio e bellissimo, come per Dude, soavemente disinteressato al mondo al di fuori del bowling, o Marge Gunderson, immersa nel tepore della vita coniugale, o per Eddie Mannix appunto, altrettanto ripagato dal focolare domestico e dalle attenzioni di Dio, felicemente sollevato da terra dalla sua semplicità intellettuale. Una caratteristica questa, che i Coen si guardano sempre bene dal giudicare aspramente, anzi i loro giudizi più sferzanti li riservano solitamente a personaggi potenti, intellettuali e innatamente scaltri, spesso accompagnati anche da bassezze morali che i loro "semplici" eroi non contemplano.
Eddie Mannix è talmente convinto della necessità di rimanere se stesso da arrivare a schiaffeggiare la star Clooney (si vocifera che siano stati schiaffi veri tra l'altro) che sta provando invece a emanciparsi e a uscire dal proprio ruolo. "Comportati da star" è la sua raccomandazione al frastornato Baird Whitlock, in cui le idee comuniste hanno risvegliato il desiderio di pensare e cambiare. Questo messaggio che, in film più drammatici dei fratelli ha assunto un peso schiacciante sui propri personaggi, in questa divagazione più lieve assume invece un contorno edificante. Perché, per il confuso Eddie è bello e importante sapere di avere un ruolo all'interno di qualcosa, è rassicurante, e lottare per rimanere semplicemente se stesso è la cosa giusta da fare.
Tutto ciò che forse Eddie impara nel corso della vicenda è che molto spesso le situazioni non hanno bisogno del suo intervento per risolversi. I problemi di baseball del figlio, la questione dell'adozione che riguarda DeeAnna Moran, e soprattutto il rapimento di Baird Whitlock sono tutti problemi che trovano soluzione senza la sua opera. Anche se va detto che quest'ultima è in realtà una situazione tipica dei film coeniani. I rapimenti, scintilla ricorrente delle loro vicende, sono sempre innocui, sin dai tempi di Arizona Junior. Ne Il grande Lebowski, Bunny si riporta a casa da sola così come Whitlock riporta se stesso agli studios, e i soldi del riscatto in entrambi i casi non trovano mai di fatto una qualche forma di utilità. Le somiglianze fra i due film non finiscono però qui, e sebbene Ave, Cesare! per quanto riguarda lo stile ricordi le altre commedie Screwball che i Coen hanno messo in scena negli anni (Mr. Hula Hoop su tutti), a livello di trama è con il cult del 1998 che ha più affinità. In entrambi i casi, al centro del plot si ha un'indagine che si rivela essere soltanto un pretesto per portare il protagonista e lo spettatore, detective improvvisati, alla scoperta di un mondo fatto di situazioni e personaggi. Nel primo caso, il safari avviene all'interno della società americana tutta, fatta di reduci del vietnam, ricchi magnati e improbabili loser, mentre nel secondo caso avviene all'interno di un certo tipo di cinema Hollywoodiano, dei suoi generi, dei suoi cliché, delle sue dinamiche più ridicole. La struttura, anche in questo caso, lascia pochissimo spazio alle dinamiche investigative, preferendo concentrarsi sull'osservazione del mondo. Non è un caso che su ogni set in cui lo spettatore/Eddie capita, ci si soffermi ad osservare l'intero svolgimento delle riprese della scena che si sta girando, e che molto spesso si avverta la sensazione di stare "perdendo tempo". Il film in realtà è tutto lì, è il divertito andare a zonzo da un genere all'altro del cinema americano, parodiandolo e al contempo omaggiandolo, come sempre i fratelli fanno. Per loro infatti, dissacrare un tema non equivale a ridicolizzarlo, ma a interpretarlo nella loro chiave. Lo fanno da anni con il noir e l'hard boiled, e non c'è quindi dubbio che Ave, Cesare! sia il loro modo di omaggiare il mondo del cinema, perché anche se lo deridono e ne ridimensionano il mito, trascorrono gran parte del minutaggio del film a dipingerlo, senza nostalgia, ma con l'affetto di giovani spettatori che hanno visto quei film in televisione.

Basti pensare che il loro attacco satirico non si limita alle dinamiche degli studios, ma investe tutto, in ogni direzione: giornalismo, politica e religione. Le discussioni teologiche fra rabbini, sacerdoti e pastori sono una divertente farsa, così come le altisonanti convinzioni dei comunisti, o le inutili rubriche gossippare della doppia giornalista Tilda Swinton. I Coen giocano con le contraddizioni: i comunisti appaiono particolarmente interessati al denaro e al guadagno personale, le fidanzatine d'America sono sboccate e sessualmente disinvolte, i registi più raffinati sono dediti alla sodomia, i musical sono permeati di sottotesti omosessuali, i rappresentanti delle religioni parlano di cavilli invece di sostanza, e come sempre non sanno dare risposte: il sacerdote con cui Eddie si confessa è completamente inutile, gli impartisce una manciata di Ave Maria per i suoi peccati, e i suoi consigli sono frasi cliché, che Mannix trova utili soltanto perché investe della sua propria innata fede, proprio quella fede (dimenticata da Whitlock nel finale) che rappresenta la sua personale gioia di vivere.
In tutto questo casino, ad emergere è la figura dell'Hobie Doyle di Alden Ehrenreich, attore scoperto e "allevato" da Francis Ford Coppola. È Hobie il personaggio più semplice del film, sballottato dai registi (Laurence Laurentz ma anche gli stessi Coen) e comandato a bacchetta dallo studios persino nelle sue frequentazioni. È lui il vero erede di Norville Barnes, lo sciocco dal cuore d'oro, l'eroe puro che arriva a concepire soltanto un modo di porsi al mondo, non ha sogni o speranze, e fa soltanto quel che gli chiedono di fare. Hobie risolve l'indagine, ed emerge come il vincente del film, a discapito di tutti quelli che l'hanno guardato dall'alto in basso.
Grazie a lui ogni cosa, ogni tassello, nel finale torna al proprio posto, nessuno è evoluto o cresciuto, tutti hanno invece capito l'importanza di rimanere sempre uguali. Ma i Coen provano tra le righe a instaurare anche un altro tipo di dialogo con lo spettatore, attraverso la parabola dell'indispensabile Josh Brolin.
Mannix si trova a dover scegliere fra il suo attuale impiego o un lavoro sicuro e migliore nell'aviazione americana. La sua scelta si sostanzia perciò fra mondo reale e di fantasia, fra "frivolezza" del circo del Cinema e concretezza della realtà che lo attende all'esterno. E la sua decisione finale corrisponde pienamente, in questo caso sì, a quella dei Coen. Nello scegliere di dedicare la propria vita al cinema, piuttosto che a religione, politica o anche solo semplicemente al "mondo reale", i Coen palesano la loro filosofia, il loro amore per il mondo dell'arte, già espresso in passato ma mai in modo così esplicito come in quest'ultima pellicola (termine che si può ancora usare perché effettivamente i fratelli hanno convinto Roger Deakins a usare la celluloide, seppur fra mille difficoltà). Non solo gli autori ribadiscono quanto il Cinema sia il loro senso della vita, ma arrivano anche a dichiararlo migliore (la cosa giusta da fare) rispetto a tutto il resto. Davanti all'immagine annichilente di una bomba che distrugge un'isola nel Pacifico, i Coen rispondono "grazie, ma no grazie", tornando a immergersi nelle più innocue follie e frivolezze del loro mondo di fantasia.


In conclusione, se proprio nel finale di questo discorso bisogna giungere ad un giudizio di valore, è piuttosto ovvio affermare che in ogni caso Ave, Cesare! sia un film minore nella filmografia coeniana. Ha molti difetti, in primis quello di non interessare ad un pubblico generalista e non cinefilo, ha alcune sequenze non propriamente riuscite, e una deriva talmente bizzarra da rischiare di respingere lo spettatore. Sicuro appartenente al filone più scanzonato della loro produzione, più vicino a Burn After Reading che a Barton Fink, sebbene sia ambientato nello stesso universo e ne citi esplicitamente un'inquadratura (quella delle onde che si infrangono sugli scogli). Fuor di dubbio che sia uno dei loro film "grandi, ricchi e pieni di star" utili a fare cassa in previsione di progetti più piccoli e personali, e soprattutto che sia un'opera votata al puro intrattenimento. Un'occupazione molto poco autoriale che però i fratelli non hanno mai rinnegato, specialmente perché ricercata attraverso i mezzi di una commedia sempre più rara, fatta di dialoghi frizzanti, ritmo frenetico, trame fitte e non banali, contenuti originali. Trattandosi Ave, Cesare! di una grande e unica farsa, priva di punti di riferimento, bizzarra e acidissima (una caratteristica che si fa sempre più presente in ogni nuovo film coeniano), mi pare assolutamente legittimo che possa non piacere, ma devo dire che se un regista deve "fallire" un film, personalmente preferisco che lo faccia provando a cambiare rotta e nel suo piccolo a sperimentare, piuttosto che continuando sullo stesso binario. Dopo un capolavoro e un tris di sceneggiature per altri (UnbrokenIl Ponte delle Spie Suburbicon, il prossimo film diretto da George Clooney), i Coen infilano una serie di gag memorabili e realizzano il loro sentito omaggio al mondo che più amano (prendere in giro), proponendo comunque ancora qualcosa di totalmente alieno nel panorama cinematografico contemporaneo. Già solo per questo, per quanto mi riguarda, avercene di film minori così.

lunedì 23 giugno 2014

Io non sono qui: una lettura - 1° parte

Il quarto film di Todd Haynes non è materia facile fin dal titolo, che infatti in Italia è stato tradotto con uno strampalato ma interessante scarto di senso. In originale è I'm not there (Io non sono lì), e riprende un traditional americano che Bob Dylan e The Band incisero durante le famose session per The Basement Tapes nel 1967, e che, insieme a molte altre grandi canzoni, non venne poi inserita nell'album definitivo, rimanendo sepolta per anni fino alla pubblicazione del prezioso bootleg The Genuine Basement Tapes. In italiano è diventato Io non sono qui, ed è strano, sì, ma non più di tanto fastidioso, perché in qualche modo il senso, nei riguardi del film, si conserva.
Dylan non è presente come persona, ma in quanto mito. È come se lo stesso Haynes ammettesse che il fenomeno Dylan, di cui il film vorrebbe essere una sorta di poetica biografia, è impossibile da imbrigliare anche in un'opera come la sua. È impossibile analizzarlo o decostruirlo o anche solo comprenderlo fino in fondo. Dylan non è qui/lì. Haynes non sfiora quindi nemmeno il tentativo di spiegarlo, evitando di mettere in campo un personaggio con il suo nome, ma si adopera per raccontarlo nel modo più esaustivo possibile, stendendo una schiera di alter ego dai nomi-significati che, insieme a tutto il resto delle finissime citazioni sparse nei dialoghi o anche solo negli elementi di scenografia, contribuiscono ad alzare l'asticella della difficoltà di comprensione profonda della pellicola, che può anche diventare una divertente caccia al riferimento per i dylaniani più incalliti.



In effetti, per godere al meglio della visione senza rimanerne del tutto sballottati, bisognerebbe aver fatto qualche compito a casa. Aver collezionato la gran parte dei dischi del musicista sarebbe l'ideale (già solo per farsi del bene), ma anche averne ascoltato uno per decennio della sua lunga carriera aiuterebbe a comprendere come ad Haynes sia venuta in mente una storia del genere. Dylan si è costantemente evoluto o involuto, cambiando radicalmente faccia anche da un disco all'altro. Ha veramente vissuto numerose vite (artistiche), ed il film è particolarmente abile nel renderne l'intensità e la diversità. Nonostante però abbia il merito di dipanarsi anche nella gioventù e nella vecchiaia dell'artista, pure il suo centro d'interesse continua ad essere lo stesso dell'imprenscindibile documentario del 2005 No Direction Home: Bob Dylan. Il film di Scorsese si concentrava sul periodo che va dal 1959 al 1966 della vita dell'artista, tracciando uno splendido ritratto di quei frenetici e mutevoli anni. Tutto ciò che è venuto prima o dopo la sua rivoluzione musicale ne è sempre in qualche modo legato, anche secondo Haynes.
Il film si apre sul backstage di un palco, una camminata che porta al sipario, come a rappresentare una sorta di nascita del performer, sul palco da più di 50 anni. Subito dopo avviene un primo richiamo alla successiva scena dell'incidente motociclistico, evento che rappresenta invece quasi una morte artistica del personaggio. Il primo vero e marcato stop della sua carriera.
Abbiamo poi l'iniziale incontro con il primo alter ego di Dylan, rappresentato dal giovane Woody. Il ragazzino fuoriesce da un tipico paesaggio americano, un grande prato adagiato lungo una ferrovia, come se fosse un'emanazione di quella terra. Ed in effetti è proprio ciò che è: dice di chiamarsi Woody in onore di Woody Guthrie, il mito dell'infanzia di Dylan, il cantante folk della protesta sociale per eccellenza, però è di colore, perché in quel periodo della sua vita Dylan era culturalmente più nero che bianco. Ascoltava continuamente il blues e il rock alla radio, assecondando il suo amore per la musica americana e alimentando il suo desiderio di entrare a farne parte. I suoi miti sono, appunto, Guthrie, ma anche Elvis (idolo assoluto del vero Dylan), il musicista che ce l'ha fatta, che si è emancipato dalle strade e ha raggiunto i pachi.
Il piccolo Woody è un viaggiatore avventuroso, un sognatore, un bugiardo giramondo che comincia già a cambiarsi di nome e ad alimentare leggende sul suo conto e le sue origini (dice di venire dall'impossibile città di Enigma), sembra abbia vissuto molto più di quanto i suoi anni dimostrino, tanto che in un circo viene scambiato per un nano piuttosto che per un bambino. Suona alla pari con i neri (nel film l'attore Marcus Carl Franklin duetta con il grande Richie Havens sulle note di una Tombstone Blues spogliata di elettricità e suonata anacronisticamente come un vecchio blues) ma viene ridotto a fenomeno da baraccone dai bianchi, che lo esibiscono incravattato in salotto per l'apprezzamento borghese degli amici in visita. Il fatto che risuonino le parole di When the ship comes in, brano fra i più duri e apocalittici del repertorio dylaniano, non sembra scuotere più di tanto i distratti osservatori. Ma il suo modesto e reale passato viene a cercarlo nel regno di fantasia che si è creato, Woody fugge, e come sottofondo al suo peregrinare Haynes sceglie di farci ascoltare Blind Willie McTell, uno dei capolavori assoluti di Dylan, destinato a finire su Infidels (1983) e poi inspiegabilmente scartato, in cui è tra l'altro presente la chitarra di Mark Knofpler, attivo in tutte le canzoni dell'album. Blind Willie McTell, l'uomo, il bluesman, è un'altro degli idoli dichiarati del giovane Woody, che va finalmente a trovare il vecchio Guthrie sul capezzale di morte, un'azione realmente compiuta dal vero Dylan (che scrisse anche una Song to Woody). Mentre Guthrie muore, il suo piccolo omonimo piange amaramente, come se si trattasse di suo padre.



Tutto, qui, sta a sottolineare come il Dylan delle origini fosse completamente rapito dalla musica e dalle persone che aveva intorno, non solo nel periodo dell'infanzia, ma anche negli anni di gioventù al Greenwich Village, dove conobbe figure carismatiche come Dave Van Ronk. Woody vive un'epoca mentale che non gli appartiene, ma a spazzare le nubi dalla sua via, nel film, è un illuminante dialogo con una massaia di colore, che lo invita a smettere di cantare le vecchie canzoni e interessandosi ai problemi del secolo precedente. "Vivi il tuo tempo, canta il tuo tempo" gli dice. Se fosse un album, questo personaggio sarebbe il primo, incerto e poco originale: Bob Dylan del marzo 1962.

Cantare il proprio tempo è quello che fa il Jack Rollins interpretato da Christian Bale. Questo personaggio è in realtà il Dylan a cui la maggior parte delle persone è rimasta ferma: il menestrello delle canzoni politicamente impegnate, quello di The Freewhelin' Bob Dylan, The times they are a-changin' e Another side of Bob Dylan del biennio magico 1963-1964. È l'evoluzione del tipico folksinger del Greenwich Village: non canta più traditionals, ma applica una forma classica a canzoni moderne, graffianti sul mondo, con testi ermetici e simbolisti. Canzoni d'impegno anche nella semplice fruizione. Nel film lo vediamo suonare in una campagna, in mezzo a contadini di colore, la triste The lonesome death of Hattie Carrol, un'invettiva contro il razzismo nata da un articolo di cronaca.


                      Bob Dylan - The Lonesome Death Of Hattie Carroll di vicky7xthomas

Per il suo film, Haynes sceglie di cambiare stile visivo e narrativo ogni volta che muta il suo protagonista, anche in funzione del periodo storico-culturale e dell'umore complessivo della materia narrata, chiedendo un concreto sforzo all'abile direttore della fotografia Edward Lachman. Per il piccolo Woody lo stile cinematografico era sostanzialmente moderno e istituzionale, mentre trasforma la parte di Jack Rollins in un mockumentary, limitando le sue apparizioni a finti filmati di repertorio per lasciare che a parlare siano tutta una serie di comprimari intervistati, conferendo a quella simbolica figura di profeta ancora più risalto.
Fra questi spiccano un fantomatico T-Bone, probabile riferimento a T-Bone Burnett (che suonò con Dylan durante la Rolling Thunder Revue, nonché appartenente ai "born again christian"), e l'Alice Fabian interpretata da Julianne Moore, che non si fa molta fatica ad associare a Joan Baez, la grande cantante folk che fu collaboratrice e amica (e qualcosa di più) del Dylan menestrello di New York, e che a differenza sua non smise mai di fare musica politicamente impegnata.
Jack Rollins vive la fase di successo di pubblico e critica che investì Dylan in modo massiccio, e a cui lui era impreparato. Soprattutto, lo destabilizzò e spaventò il venire frainteso, l'essere considerato una guida spirituale/sociale invece di un semplice musicista. La reazione a tutto questo da parte del personaggio di Bale differisce dal mondo reale a quello della pellicola. Nella sofisticata sceneggiatura dello stesso Haynes e dello sceneggiatore israeliano Oren Moverman [recentemente passato alla regia con due film piuttosto apprezzati: The Messenger (2009) e Rampart (2011)], il mockumentary sulla vita di Jack Rollins prosegue mostrandolo diventare il Pastore John. Il riferimento è al periodo che va dal 1979 al 1981, quando Dylan si convertì al credo dei born again christian, sfornando una trilogia di dischi impregnati di fervore religioso: Slow train coming, Saved e Shot of love. Nonostante la singolarità di una scelta di vita così repentina (ma dal fiato corto: nel 1983 esce Infidels, il cui titolo è abbastanza eloquente), la musica contenuta in quegli album, caratterizzata da cori e accenti da black music, si situa nella fascia alta della produzione dylaniana. La trascinante versione di Pressing On (eseguita in realtà da John Doe) che il pastore John canta in chiesa, arriva dopo un convinto monologo da predicatore in cui vengono pronunciate parole importanti che sono soprattuto il titolo di un'altra famosa canzone: We Shall Overcome.


Saltuariamente, nel corso del film fa capolino la figura di Arthur Rimbaud, interpretato da un fosco e misterioso Ben Whishaw, che interrogato da una commissione d'inchiesta risponde a ogni accusa citando scritti e interviste di Dylan. Questo segmento è il meno narrativo, appare e scompare all'interno punteggiando alcuni momenti tramite "dichiarazioni" in macchina di Rimbaud, che chiunque abbia letto Chronicles vol. 1 sa bene essere una forte influenza per Dylan.


[...] someplace along the line Suze had also introduced me to the poetry of French Symbolist poet Arthur Rimbaud. That was a big deal, too. I came across one of his letters called “Je est un autre”, which translates into “I is someone else”. When I read those words the bells went off. It made perfect sense. I wished someone would have mentioned that to me earlier.


venerdì 29 novembre 2013

Inside Llewyn Davis

Come in ogni lavoro dei Coen, questo film è prima un personaggio e poi una storia. Non bisogna farsi ingannare da tutti i nomi in locandina, perché, come sempre, si tratta di un "solo act" per attore solista: un Oscar Isaac che i fratelli pescano laddove nessun altro avrebbe cercato (così come per il Michael Stuhlbarg di A Serious Man) e che brilla di una meravigliosa luce propria per tutti i 105 minuti di durata della pellicola. Il film è costruito attorno a lui, al suo corpo finalmente "normale" (in una Hollywood di corpi artefatti), ma soprattutto al suo volto e alla sua voce dolenti e penetranti.
Come in ogni film dei Coen, luogo e tempo sono fondamentali. Siamo nel Greenwich Village, a New York, che visitano e dipingono per la prima volta nella sua crepuscolare atmosfera fatta di accoglienti bar fumosi, strade avvolte nella nebbia autunnale, pesanti case di cemento percorse da stretti corridoi che conducono in piccoli appartamenti, ricolmi di mucchi di libri e vinili, elemento distintivo della parte più culturalmente avanzata e progressista della città (cose come la cultura new age o il pacifismo di stampo hippie sono tutti giochi della stanza dei fratelli sopra cui ridere felicemente). Bruno Delbonnel sostituisce Roger Deakins in libera uscita sul set di Skyfall, ereditando da lui il modo di fotografare la realtà in colori pastello, sfumati, con toni scuri e improvvisi tagli di luce nell'oscurità. Non è inedita la sua collaborazione con i fratelli, essendoci il breve trascorso del cortometraggio Tuileries con Steve Buscemi.
Come in ogni film dei Coen, la storia cui prendiamo parte non è qualcosa che la Storia ufficiale ricorderà, ma soltanto la sua vigilia, l'antefatto. In questo caso siamo nel 1961, anno di svolta per la musica (folk, ma non solo) perché è in quel novembre che iniziano le registrazioni del primo album di Bob Dylan (che uscirà soltanto l'anno successivo), un ragazzino che porterà una ventata di novità eclatanti nel modo stesso di concepire una canzone e la sua poetica. Ovviamente i fratelli di Minneapolis non potevano raccontare la sua vicenda, la storia di uno che ce l'ha fatta, e hanno puntato la loro penna in direzione di qualcuno che si è invece estinto provandoci. Per farlo hanno rispolverato la loro consueta attitudine a mischiare realtà e finzione in favore di un racconto più vicino alle loro esigenze. Si sono basati sul libro The Mayor of MacDougal Street, che racconta la biografia di Dave Van Ronk (pionieristico folk singer poco conosciuto anche in patria), e ne hanno tratto quegli elementi necessari a dare spessore al loro personaggio. In questo modo non hanno avuto vincoli storici e hanno potuto dedicarsi a una cosa che, come si diceva poco sopra, è per loro fondamentale: la creazione del contesto sociale dell'epoca.

Come in tutti i film dei Coen, non si viene buttati nella mischia senza passare da un ingresso. In passato sono state voci narranti o dialoghi simbolici ad accoglierci, qui invece l'inizio viene preceduto da un'ipnotica esibizione canora. Ancora una volta si parte da un oggetto iconico, un microfono, nella sua importanza di strumento, per poi passare a contemplare Llewyn in tutta la sua intensità. Nemmeno una spiegazione di due ore riuscirebbe a caratterizzare meglio un personaggio di quanto facciano questi pochi minuti, le parole e il tono di questa canzone, queste immagini. La presentazione di Llewyn è tutta qui, questo è ciò che è, ciò che gli piace e vorrebbe fare, e tutto quello in cui crede. Per il resto del film lui non fa altro che ribadire il concetto, tentando di spiegare con le parole agli altri, scettici, ciò che i Coen hanno potuto fortunatamente mostrarci con la loro regia. Al di fuori di questo, della bellezza del momento e del sentimento dell'arte, la vita non è che una folle corsa per la città e le strade d'America (che è come sempre sineddoche del mondo intero), si litiga e si fa pace, si cerca di fare soldi, si fanno bambini, si viaggia senza veramente mai allontanarsi, si vortica sempre in cerchio, secondo la tipica e ineludibile circolarità narrativa dei Coen.
Come in molti dei loro film, c'è un protagonista passivo, che subisce dalla vita e dal destino (anche fisicamente, perché l'uomo nel vicolo altri non è che l'ennesima manifestazione umana, ma forse sarebbe meglio limitarsi soltanto a definirla "concreta", del Destino e dei suoi tiri mancini). L'occhio su Llewyn è l'ennesimo che i fratelli gettano sugli esclusi, sui perdenti, sugli sfortunati che popolano il loro intero cinema, che sono allo stesso tempo i loro eroi e le loro prede preferiti.
Forse Llewyn è un po' meno stupido di tanti altri loro personaggi, è più determinato nel voler portare avanti le sue passioni, è un presuntuoso, uno che crede fermamente in un preciso tipo di musica (lui suona canzoni tristi e sofferte, tutti gli altri motivetti allegri e accattivanti). E almeno in questo si avvicina molto alla psicologia dei suoi creatori, che hanno palesato da tempo la loro assoluta credenza nel ruolo salvifico e superiore della musica (ma il discorso potrebbe contenere ovviamente anche il Cinema, e di conseguenza l'Arte tutta).
Llewyn va idealmente a situarsi accanto a Barton Fink in quanto artista intransigente, convinto nei propri ideali, irremovibile dalle sue posizioni, costretto dalla mancanza di soldi e dalle circostanze della vita a piegarsi, mentre la sua anima va in pezzi. I Coen stessi sono negli anni diventati registi più intransigenti, sempre meno interessati al gusto del pubblico e alle sue esigenze (vedi i loro finali), meno comunicativi in senso stretto, meno accattivanti riguardo le ultime tendenze. Le loro opere continuano lungo un percorso personale che non cede di fronte a nulla, il loro stile si asciuga allontanandosi dai giochi che facevano in gioventù con la macchina da presa. Non c'è un dialogo o un'inquadratura che non siano stati calcolati, non c'è l'ombra di velleità come virtuosistici piani sequenza, anzi il loro cinema tende sempre di più verso l'idea costruttiva del montaggio, che curano come al solito in prima persona. È invece nelle storie, in fase di sceneggiatura, che diventano più sperimentali. Polverizzano la struttura in tre atti, negano qualsiasi punto di riferimento allo spettatore, capovolgono gli equilibri, azzerano il climax e chiudono con il botto, ricordando a tutti che il finale di un film non è la sua ultima inquadratura, ma l'ultima scena.
A conti fatti girano un musical alla Coen (così come lo era Fratello, dove sei?) lasciando che le canzoni (meravigliosamente preparate e riarrangiate da T-Bone Burnett) si espandano sullo schermo, prendano il sopravvento su tutto. È una lunga ballata folk (con conseguente struttura in strofe e ritornello) per Llewyn, gatto randagio del mondo che scappa dalle cose proprio come il gatto che porta con sé, quell'Ulysses che ritorna, proprio dopo Fratello, dove sei? ogni volta che i fratelli ci devono parlare di un viaggio. I gatti randagi sono anche capaci però di abbandonarsi a vicenda, di ferirsi l'un l'altro, di farsi del male lungo una strada deserta in una notte buia.
Inside Llewyn Davis è un film dove non contano i fatti ma le intenzioni, dove più delle immagini conta la musica (nel finale siamo fuori dal locale, invece di stare dentro, dove si sta facendo la storia, e di fatto è molto più importante la parte sonora di quella visiva). Dove si racconta un'altra apocalisse, non più sociale come in Non è un paese per vecchi e Burn After Reading, ma personale. Stavolta il mondo è l'arte, e l'apocalisse è il fallimento, l'evaporazione di qualsiasi sogno, speranza, fede.
Come in ogni film dei Coen, ci viene raccontata l'inesorabilità del Destino, e nel finale avviene la sua dolente, amara accettazione, con un sorriso sprezzante sulle labbra. Forse Llewyn si limiterà ad esistere, come suo padre, protagonista di una delle scene più struggenti, in cui dalle labbra del figlio si leva un elogio a quelle vite "sprecate" poiché condotte normalmente. Qui i Coen sembrano dirci che in fondo, anche quelli che verranno dimenticati, anche quelli che hanno sempre e solo inseguito i pesci dalle loro barche, hanno sempre sognato.
Assomiglia a tutti gli altri film dei Coen, Inside Llewyn Davis, ne è quasi una summa, ma nonostante questo il risultato è lo stesso qualcosa a cui non siamo preparati, e che ci lascia ancora una volta immobili sulla poltrona, invitati e spronati a riflettere, qualcosa di sempre più raro. E poi è puro cinema, che non deriva dal teatro o dalla letteratura, ma da un'idea ben precisa dell'uso di immagini e suoni.
Non esistono altri sguardi come quello dei Coen in circolazione, ed è vero che "non si fanno soldi con questa roba", ma non la baratterei con nient'altro al mondo.