
Come in ogni film dei Coen, luogo e tempo sono fondamentali. Siamo nel Greenwich Village, a New York, che visitano e dipingono per la prima volta nella sua crepuscolare atmosfera fatta di accoglienti bar fumosi, strade avvolte nella nebbia autunnale, pesanti case di cemento percorse da stretti corridoi che conducono in piccoli appartamenti, ricolmi di mucchi di libri e vinili, elemento distintivo della parte più culturalmente avanzata e progressista della città (cose come la cultura new age o il pacifismo di stampo hippie sono tutti giochi della stanza dei fratelli sopra cui ridere felicemente). Bruno Delbonnel sostituisce Roger Deakins in libera uscita sul set di Skyfall, ereditando da lui il modo di fotografare la realtà in colori pastello, sfumati, con toni scuri e improvvisi tagli di luce nell'oscurità. Non è inedita la sua collaborazione con i fratelli, essendoci il breve trascorso del cortometraggio Tuileries con Steve Buscemi.


Come in molti dei loro film, c'è un protagonista passivo, che subisce dalla vita e dal destino (anche fisicamente, perché l'uomo nel vicolo altri non è che l'ennesima manifestazione umana, ma forse sarebbe meglio limitarsi soltanto a definirla "concreta", del Destino e dei suoi tiri mancini). L'occhio su Llewyn è l'ennesimo che i fratelli gettano sugli esclusi, sui perdenti, sugli sfortunati che popolano il loro intero cinema, che sono allo stesso tempo i loro eroi e le loro prede preferiti.
Forse Llewyn è un po' meno stupido di tanti altri loro personaggi, è più determinato nel voler portare avanti le sue passioni, è un presuntuoso, uno che crede fermamente in un preciso tipo di musica (lui suona canzoni tristi e sofferte, tutti gli altri motivetti allegri e accattivanti). E almeno in questo si avvicina molto alla psicologia dei suoi creatori, che hanno palesato da tempo la loro assoluta credenza nel ruolo salvifico e superiore della musica (ma il discorso potrebbe contenere ovviamente anche il Cinema, e di conseguenza l'Arte tutta).

A conti fatti girano un musical alla Coen (così come lo era Fratello, dove sei?) lasciando che le canzoni (meravigliosamente preparate e riarrangiate da T-Bone Burnett) si espandano sullo schermo, prendano il sopravvento su tutto. È una lunga ballata folk (con conseguente struttura in strofe e ritornello) per Llewyn, gatto randagio del mondo che scappa dalle cose proprio come il gatto che porta con sé, quell'Ulysses che ritorna, proprio dopo Fratello, dove sei? ogni volta che i fratelli ci devono parlare di un viaggio. I gatti randagi sono anche capaci però di abbandonarsi a vicenda, di ferirsi l'un l'altro, di farsi del male lungo una strada deserta in una notte buia.
Inside Llewyn Davis è un film dove non contano i fatti ma le intenzioni, dove più delle immagini conta la musica (nel finale siamo fuori dal locale, invece di stare dentro, dove si sta facendo la storia, e di fatto è molto più importante la parte sonora di quella visiva). Dove si racconta un'altra apocalisse, non più sociale come in Non è un paese per vecchi e Burn After Reading, ma personale. Stavolta il mondo è l'arte, e l'apocalisse è il fallimento, l'evaporazione di qualsiasi sogno, speranza, fede.
Come in ogni film dei Coen, ci viene raccontata l'inesorabilità del Destino, e nel finale avviene la sua dolente, amara accettazione, con un sorriso sprezzante sulle labbra. Forse Llewyn si limiterà ad esistere, come suo padre, protagonista di una delle scene più struggenti, in cui dalle labbra del figlio si leva un elogio a quelle vite "sprecate" poiché condotte normalmente. Qui i Coen sembrano dirci che in fondo, anche quelli che verranno dimenticati, anche quelli che hanno sempre e solo inseguito i pesci dalle loro barche, hanno sempre sognato.
Assomiglia a tutti gli altri film dei Coen, Inside Llewyn Davis, ne è quasi una summa, ma nonostante questo il risultato è lo stesso qualcosa a cui non siamo preparati, e che ci lascia ancora una volta immobili sulla poltrona, invitati e spronati a riflettere, qualcosa di sempre più raro. E poi è puro cinema, che non deriva dal teatro o dalla letteratura, ma da un'idea ben precisa dell'uso di immagini e suoni.
Non esistono altri sguardi come quello dei Coen in circolazione, ed è vero che "non si fanno soldi con questa roba", ma non la baratterei con nient'altro al mondo.