martedì 6 marzo 2012

Cesare deve Morire

Cesare Deve Morire è uno di quei film per i quali lo spettatore entra in sala con uno spaventoso carico di dubbi e pregiudizi, e per il quale invece poi, al termine, si ritrova svuotato, smarrito. Paolo Taviani, alla domanda su un eventuale prossimo progetto, ha risposto che era troppo presto per parlarne, perché per lui e suo fratello, in seguito al carico di attenzione e concentrazione necessari alla creazione di un film, la mente si sgombra, come se un vento spazzasse via tutto il resto. Ecco, è un po' la sensazione che si prova anche da loro spettatori.

Ma andiamo con ordine. Una sera i Taviani's vengono invitati a vedere uno spettacolo in un teatro del tutto particolare: una prigione. Il laboratorio teatrale del carcere di Rebibbia è una fra le varie pregevoli attività previste e organizzate per i detenuti. Quella sera, in particolare, era in programma una rappresentazione di alcuni canti scelti dell'Inferno di Dante, recitati da chi nell'inferno ci vive davvero.
I due brothers, da sempre attenti scrutatori della realtà, decisero immediatamente che quella fosse una di quelle cose da cristallizzare nel tempo con l'occhio del cinema. Perché, come ha detto Nanni Moretti: quando una cosa è bella, che sia un film, un dipinto o una sedia, merita di essere fatta vedere.
Così hanno fatto le telefonate del caso, e in breve si sono presentati con la loro troupe nella prigione capitolina, pronti a trascorrerci 4 settimane.
Ciak, azione, si gira: dopo un inizio semplicemente stupendo, che a raccontarlo si fa solo peccato, ecco subito l'arrivo del testo elisabettiano. Il film infatti, è per prima cosa militarmente asciutto. Fatte le audizioni ed assegnate le parti, le prove cominciano, ma in seguito la materia si amalgama e si sfilaccia. Quelli che dovrebbero essere i preparativi divengono la sostanza vera e propria, la storia non diventa mai teatro filmato, ma cominciamo a vivere contemporaneamente nell'oggi e nell'antica Roma. In un sontuoso bianco e nero, i muri di Rebibbia si nobilitano, e le comparse di un carcere assumono la statura di personaggi, protagonisti, icone. Ognuno recita nel proprio dialetto, ma tutti riescono mirabilmente a fondersi nella cornice dell'opera shakesperiana.
L'esito ricorda un po' l'operazione che fece Al Pacino con il suo pregevolissimo documentario sul Riccardo III, quando lui ed altri prestigiosi attori hollywoodiani proposero al contempo una rilettura e un'analisi della tragedia, recitandola in abiti comuni, ma con'intensità tale da trascinarvi completamente dentro lo spettatore, pur senza i trucchi e i fronzoli della tipica messa in scena teatrale. Anche qui, la rilettura dell'opera avviene in modi e luoghi alieni all'origine del testo scritto, con la stessa impressionante efficacia, ma i due esperimenti differiscono.
Al Pacino era sia creatore che fautore della ricerca sul testo, mentre qui l'analisi viene condotta dai soli attori/detenuti, in disparte, lontano dall'occhio dei fratelli Taviani, interessati soltanto alla sua modernissima rappresentazione cinematografica. Ovvero, la profondità e bellezza del Giulio Cesare interessa a loro, nelle loro celle, mentre a noi interessa il loro peculiare approccio ad essa.
È stato scritto che Shakespeare è entrato nel carcere di rebibbia, ma a me sembra più che siano i carcerati che siano usciti, evasi, per raggiungere Shakespeare in qualsiasi luogo astratto si trovi. Noi spettatori non veniamo però immersi quanto loro in quell'immaginario, in quelle fosche battute di peccati e tradimenti che tracciano dolori paralleli con le loro vite. Noi siamo qui, oggi, liberi, e assistiamo al flirt amoroso che delle persone violente, criminali, intrecciano con l'arte pura. E la visione, per quanto la si possa prevedere, è davvero stupefacente.
Oltre al valore sociale dell'operazione, ne spicca uno più prettamente artistico. I Taviani, tracciando paralleli umani in abissi insondabili di introspezione e immedesimazione nel cortocircuito attore-ruolo-parte-sentimento, propongono una rappresentazione di strabiliante efficacia dell'opera originaria. L'uso della musica, dei fuori campo strategici, degli ambienti geometrici e circoscritti dell'edificio, e soprattutto la staticità epica e implacabile delle inquadrature, concorrono a fornire una versione fremente e disturbante del testo di Shakespeare. Un thriller dagli intensissimi picchi emotivi.
Ci sarebbe però una nota dolente da sottolineare. Perché il film decade parecchio quando ci si separa dalla matrice teatrale per insinuarsi nel suo territorio di docu-fiction. L'occhio pietoso dei Taviani, quando si concentra sulle parti più strettamente legate alla tematica della prigionia degli uomini, pur con un lodevole intento umanitario, si tinge di falso e artefatto. Inaspettatamente, l'unico momento in cui i detenuti dimostrano effettivamente di recitare, è quando devono rappresentare la parte di loro stessi. Un pietismo di grana grossa e dalle mani pesanti. Un peccato, se si pensa alla grandezza del resto. E proprio in ragione di questa, al termine si tende a perdonare questo peccatuccio.


Durante la presentazione Nanni Moretti ha detto: "Una delle mie attività preferite nell'ambito del cinema è quella di spettatore." Una frase che nella sua profonda banalità ha espresso un'idea che non avevo mai considerato. Lo spettatore non è un ruolo passivo, ed è effettivamente quello di un privilegiato. Quello di chi viene messo in condizione di godere di un'opera d'arte. E Cesare Deve Morire è perfetto per esprimere questo concetto.

venerdì 2 marzo 2012

giovedì 1 marzo 2012

(Quasi) 4/3/1943

Addio a un grande musicista. Ora suonerà il clarinetto per gli angeli.




Addio a un grande paroliere. Ora bestemmierà forte addosso agli angeli.