sabato 28 settembre 2013

Sacro GRA

Una delle critiche fatte a "La Grande Bellezza" di Paolo Sorrentino era quella che le cose raccontate non fossero vere, che quei personaggi nella realtà non esistessero, e che quel ritratto così caricaturale del mondo non fosse uno spaccato fedele di società. Prescindendo dalla fondatezza di tali discorsi, se non altro a "Sacro GRA" di Gianfranco Rosi queste accuse non possono essere fatte, poiché, nella sua linea più caratterizzante, si tratta di un documentario. Un documentario nel senso che muove il suo racconto partendo da storie vere, che non rielabora, riadatta o narrativizza in fiction. Un documentario quindi nel suo progetto, ma forse più un film nel suo esito, almeno per chi non ha più seguito le derive e le innovazioni del documentario moderno, perché a dire la verità lo stile adottato da Rosi non è più inconsueto di tante altre opere che passano (poco) sul grande schermo o (più copiosamente) nei festival cinematografici. Non ci sono le classiche interviste, i momenti rubati, le riprese illustrative, perché questo film rifugge lo scopo primario del documentario classico che è presumibilmente sempre stato quello di illustrare, diffondere, o trasmettere contenuti come nel campo della letteratura farebbe un saggio. Invece "Sacro GRA" non insegna niente e si limita a mostrare, facendo fruttare al meglio l'unico strumento di decifrazione del reale in suo possesso: lo sguardo del suo autore.
Rosi posa un occhio poetico sulla celebre autostrada romana concentrandosi sulle persone. Si ferma fuori dalle finestre mettendosi a origliare discorsi privati che non veicolano precisi contenuti, ma che spargono scaglie di piccole vite. I personaggi sono come puntini sparsi nella periferia della Capitale, che la concreta penna dell'asfalto unisce (come nel classico gioco enigmistico) nel caotico e fatalista cerchio anulare. "Sacro GRA" fa sue e affina al massimo le tecniche del documentario moderno, imponendo una più precisa e studiata messa in scena del reale, per raccontarlo meglio e più efficacemente, senza per questo falsare (più di tanto) la visione. La fotografia si fa linguaggio e non semplice strumento, il suono diventa fondamentale e cancella qualsiasi necessità di una musica d'accompagnamento, in quella che potrebbe essere la storia di qualsiasi periferia del mondo, e che in questo caso è quella della caput mundi. Rosi racconta tutto e niente, divulga il fluire dell'esistenza umana, che procede senza scopo in cerchio, che scorre come il fiume di automobili in perpetuo movimento, ridotte a puntini sfuocati, a miniature sotto enormi cieli di nuvole o inghiottite in eterni campi lunghi. Il tempo scorre, le vite scadono, in una lentissima picchiata che perde di senso istante dopo istante; ma in tutta questa decadenza (di cui è esplicativo al massimo il personaggio del nobile) brillano alcune scintille di tenerezza, positività e calore: la canzone che fa tornare il sorriso alle prostitute, l'affetto verso una vecchia madre afflitta da demenza senile...
Il "Sacro" presente nel titolo non è solo un gioco di riferimenti, il film si muove anche su una precisa dimensione spirituale (e non, attenzione, religiosa) che viene perfettamente denunciata in una sequenza in particolare, quella della neve. Nell'osservare l'umanità colpita dalla calamità naturale, intrappolata nel gelo dell'insensato ingorgo sull'autostrada, Rosi sembra scolpire per immagini una Pietà dell'uomo, sembra voler dare una carezza a qualcosa d'incomprensibile come la nostra esistenza, proprio perché ineluttabile, proprio perché forse la colpa non è di nessuno.
La delicatezza con cui il regista osserva il particolare, per poi programmaticamente staccarsene in favore di una morbida visione dall'alto, dimostra quanto il suo lavoro non operi in una dimensione concreta (al contrario ad esempio di un autore come Matteo Garrone, i cui film, anche se scritti, sono in verità molto vicini a questo tipo di Cinema) ma piuttosto alta, spirituale appunto. L'impressione è quella che nei suoi momenti più felici il film di Rosi si trasformi in una preghiera, non per l'uomo, o per il caso particolare, ma per l'umanità tutta.
A credere nella sincronicità, non è un caso che due opere come "Sacro GRA" e "La Grande Bellezza", che nelle opinioni di molti sembrano quasi essere due facce della stessa medaglia, siano apparse nello stesso anno e abbiano avuto un così largo successo, chi di pubblico e chi di critica. Forse gli autori del nostro paese cominciano a riflette sul decennio appena passato e sul nostro presente, proponendo ritratti di questa nostra società in decadenza.
Forse, fra le pieghe del loro discorso, è comunque intravedibile un flebile spiraglio di speranza cui appigliarsi, ed è per questo che è positivo che "Sacro GRA" si sia portato a casa il Leone d'Oro. Perché forse altrimenti la nostra miope distribuzione non l'avrebbe distribuito, e noi, distratto pubblico, non l'avremmo visto. Perché forse era il film giusto al momento giusto anche per mostrare che un tipo di Cinema diverso è possibile, e che già da alcuni anni si sta facendo. Perché "Sacro GRA" è efficace come uno specchio puntato sulle nostre vite e sulle persone che ci circondano, mostrandoci quanto in fondo siamo identici ai parassiti delle palme, che infestano ciecamente la pianta fino ad ucciderla, scavando con rabbia e urlando. Così va il mondo.