domenica 27 marzo 2016

Ave, Cesare!

Ormai si sa, questo blog si attiva solo quando c'è da parlare di Bob Dylan, fratelli Coen (o entrambi) o Woody Allen o qualche altro ebreo (ma giuro che è solo un caso)... E vista l'uscita dell'ultimo film diretto dai due amati fratelli, il blog si è naturalmente rimesso in moto, soprattutto per assolvere ad un compito: provare a dire qualcosa di diverso rispetto a quanto si è letto a proposito in giro per la rete, utilizzando il metodo dell'analisi più che della recensione.
Cominciando con un po' di storia, va detto che Hail, Caesar! arriva da molto lontano. Era infatti il 1999 quando i fratelli raccontano a George Clooney, sul set di Fratello, dove sei?, una loro bizzarra idea per un film, che in realtà non hanno neppure tutta questa voglia di realizzare. Loro fanno così, allo spuntare di un'idea ci giocano un po', la mettono in un cassetto, a distanza di tempo la tirano fuori, la spolverano, e a seconda di come vanno le cose in quel periodo la girano o la riseppelliscono nel cassetto.
Hail, Caesar! è dunque rimasto in panchina per un bel po' di anni, sorpassato (anche giustamente) da ispirazioni più urgenti, fino a che le insistenze dell'amico George e le condizioni favorevoli li hanno convinti a scrivere finalmente quella sceneggiatura. Una sceneggiatura che, come sempre, è un perfetto meccanismo a orologeria. Nessun buco, nessuna sbavatura tecnica. Puntuali ritornano anzi le tipiche caratteristiche dello script coeniano: trama fitta, insulso mcguffin a fare da motore, percorso circolare che fa iniziare e concludere il film allo stesso modo, voce narrante, la vigilia di una minaccia che incombe sopra tutto e tutti (qui sono gli esperimenti nucleari nel pacifico) e un cast di personaggi tonti e in larga parte spregevoli. Ne consegue l'ennesima negazione del classico racconto in tre atti e delle sue aspettative, in primis quella sull'evoluzione dei personaggi. Ma andiamo con ordine.
Di fatto, anche questo è il tour de force di un personaggio protagonista nell'arco di un ristretto arco di tempo (una giornata e mezzo), così come lo è stato per Llewyn Davies (per lui era qualche giorno) nel loro film precedente, ma i due protagonisti non potrebbero essere più diversi: tanto lento e inconcludente Llewyn, tanto pragmatico e risolutore Eddie Mannix, anche se, paradossalmente, il primo era quanto mai deciso e sicuro di sé, mentre il secondo è profondamente insicuro e tormentato. Eddie, tra l'altro, si dimostra un personaggio relativamente nuovo nella galleria di protagonisti coeniani, di solito sempre "falliti" o "idioti". Qui abbiamo a che fare con un vincente, un uomo rispettato, salutato e riverito, addirittura ambito per le sue capacità. Sarà che il personaggio di Josh Brolin è ispirato al vero Eddie Mannix, ma di solito questo tipo di personaggi sono relegati dai Coen al ruolo di antagonisti, ed è una piacevole sorpresa per una volta non avere al centro dell'azione un perdente.
La cosa non ci deve però fuorviare facendoci pensare che Mannix sia quindi un plausibile alter ego degli autori, poiché l'unico indiscutibile portavoce della filmografia coeniana è, e rimane Dude Lebowski. Basti vedere il fervore religioso di cui il personaggio Mannix viene investito per fugare ogni dubbio: Eddie per i Coen non è in realtà meno stupido degli altri, e la sua piccolezza si dimostra tutta nella devozione cieca e servile verso il capo della Capitol Pictures.
Come tutti gli altri protagonisti coeniani, Eddie si dimostra un personaggio che non cresce, ma che anzi al termine del suo "viaggio dell'eroe" ritorna esattamente al punto di partenza. Questa, da sempre sottovalutata, è in realtà una delle parti fondamentali della poetica dei registi di Minneapolis.
Le Storie comunemente ci insegnano che un protagonista inizia la sua avventura con qualche deficit, un problema umano/caratteriale da superare insieme con il resto dei problemi che dovrà affrontare nel corso del suo viaggio, e che nel finale, grazie alle esperienze fatte, avrà trovato il modo di affrontare. Solitamente, dunque, un protagonista cresce. Quello che i Coen ci dicono da trent'anni invece è che in realtà questa cosa non avviene.
Nel loro specchio del mondo, le persone rimangono quello che sono. Leewyn Davies non diventa un cantautore di successo, Larry Gopnik non comprende il senso della vita, i protagonisti ridicoli e disperati di Burn After Reading non trovano la loro felicità. Tutti rimangono immutabili, e a volte questo è tragico, per Barton Fink o Ed Crane ad esempio; altre volte è liberatorio e bellissimo, come per Dude, soavemente disinteressato al mondo al di fuori del bowling, o Marge Gunderson, immersa nel tepore della vita coniugale, o per Eddie Mannix appunto, altrettanto ripagato dal focolare domestico e dalle attenzioni di Dio, felicemente sollevato da terra dalla sua semplicità intellettuale. Una caratteristica questa, che i Coen si guardano sempre bene dal giudicare aspramente, anzi i loro giudizi più sferzanti li riservano solitamente a personaggi potenti, intellettuali e innatamente scaltri, spesso accompagnati anche da bassezze morali che i loro "semplici" eroi non contemplano.
Eddie Mannix è talmente convinto della necessità di rimanere se stesso da arrivare a schiaffeggiare la star Clooney (si vocifera che siano stati schiaffi veri tra l'altro) che sta provando invece a emanciparsi e a uscire dal proprio ruolo. "Comportati da star" è la sua raccomandazione al frastornato Baird Whitlock, in cui le idee comuniste hanno risvegliato il desiderio di pensare e cambiare. Questo messaggio che, in film più drammatici dei fratelli ha assunto un peso schiacciante sui propri personaggi, in questa divagazione più lieve assume invece un contorno edificante. Perché, per il confuso Eddie è bello e importante sapere di avere un ruolo all'interno di qualcosa, è rassicurante, e lottare per rimanere semplicemente se stesso è la cosa giusta da fare.
Tutto ciò che forse Eddie impara nel corso della vicenda è che molto spesso le situazioni non hanno bisogno del suo intervento per risolversi. I problemi di baseball del figlio, la questione dell'adozione che riguarda DeeAnna Moran, e soprattutto il rapimento di Baird Whitlock sono tutti problemi che trovano soluzione senza la sua opera. Anche se va detto che quest'ultima è in realtà una situazione tipica dei film coeniani. I rapimenti, scintilla ricorrente delle loro vicende, sono sempre innocui, sin dai tempi di Arizona Junior. Ne Il grande Lebowski, Bunny si riporta a casa da sola così come Whitlock riporta se stesso agli studios, e i soldi del riscatto in entrambi i casi non trovano mai di fatto una qualche forma di utilità. Le somiglianze fra i due film non finiscono però qui, e sebbene Ave, Cesare! per quanto riguarda lo stile ricordi le altre commedie Screwball che i Coen hanno messo in scena negli anni (Mr. Hula Hoop su tutti), a livello di trama è con il cult del 1998 che ha più affinità. In entrambi i casi, al centro del plot si ha un'indagine che si rivela essere soltanto un pretesto per portare il protagonista e lo spettatore, detective improvvisati, alla scoperta di un mondo fatto di situazioni e personaggi. Nel primo caso, il safari avviene all'interno della società americana tutta, fatta di reduci del vietnam, ricchi magnati e improbabili loser, mentre nel secondo caso avviene all'interno di un certo tipo di cinema Hollywoodiano, dei suoi generi, dei suoi cliché, delle sue dinamiche più ridicole. La struttura, anche in questo caso, lascia pochissimo spazio alle dinamiche investigative, preferendo concentrarsi sull'osservazione del mondo. Non è un caso che su ogni set in cui lo spettatore/Eddie capita, ci si soffermi ad osservare l'intero svolgimento delle riprese della scena che si sta girando, e che molto spesso si avverta la sensazione di stare "perdendo tempo". Il film in realtà è tutto lì, è il divertito andare a zonzo da un genere all'altro del cinema americano, parodiandolo e al contempo omaggiandolo, come sempre i fratelli fanno. Per loro infatti, dissacrare un tema non equivale a ridicolizzarlo, ma a interpretarlo nella loro chiave. Lo fanno da anni con il noir e l'hard boiled, e non c'è quindi dubbio che Ave, Cesare! sia il loro modo di omaggiare il mondo del cinema, perché anche se lo deridono e ne ridimensionano il mito, trascorrono gran parte del minutaggio del film a dipingerlo, senza nostalgia, ma con l'affetto di giovani spettatori che hanno visto quei film in televisione.

Basti pensare che il loro attacco satirico non si limita alle dinamiche degli studios, ma investe tutto, in ogni direzione: giornalismo, politica e religione. Le discussioni teologiche fra rabbini, sacerdoti e pastori sono una divertente farsa, così come le altisonanti convinzioni dei comunisti, o le inutili rubriche gossippare della doppia giornalista Tilda Swinton. I Coen giocano con le contraddizioni: i comunisti appaiono particolarmente interessati al denaro e al guadagno personale, le fidanzatine d'America sono sboccate e sessualmente disinvolte, i registi più raffinati sono dediti alla sodomia, i musical sono permeati di sottotesti omosessuali, i rappresentanti delle religioni parlano di cavilli invece di sostanza, e come sempre non sanno dare risposte: il sacerdote con cui Eddie si confessa è completamente inutile, gli impartisce una manciata di Ave Maria per i suoi peccati, e i suoi consigli sono frasi cliché, che Mannix trova utili soltanto perché investe della sua propria innata fede, proprio quella fede (dimenticata da Whitlock nel finale) che rappresenta la sua personale gioia di vivere.
In tutto questo casino, ad emergere è la figura dell'Hobie Doyle di Alden Ehrenreich, attore scoperto e "allevato" da Francis Ford Coppola. È Hobie il personaggio più semplice del film, sballottato dai registi (Laurence Laurentz ma anche gli stessi Coen) e comandato a bacchetta dallo studios persino nelle sue frequentazioni. È lui il vero erede di Norville Barnes, lo sciocco dal cuore d'oro, l'eroe puro che arriva a concepire soltanto un modo di porsi al mondo, non ha sogni o speranze, e fa soltanto quel che gli chiedono di fare. Hobie risolve l'indagine, ed emerge come il vincente del film, a discapito di tutti quelli che l'hanno guardato dall'alto in basso.
Grazie a lui ogni cosa, ogni tassello, nel finale torna al proprio posto, nessuno è evoluto o cresciuto, tutti hanno invece capito l'importanza di rimanere sempre uguali. Ma i Coen provano tra le righe a instaurare anche un altro tipo di dialogo con lo spettatore, attraverso la parabola dell'indispensabile Josh Brolin.
Mannix si trova a dover scegliere fra il suo attuale impiego o un lavoro sicuro e migliore nell'aviazione americana. La sua scelta si sostanzia perciò fra mondo reale e di fantasia, fra "frivolezza" del circo del Cinema e concretezza della realtà che lo attende all'esterno. E la sua decisione finale corrisponde pienamente, in questo caso sì, a quella dei Coen. Nello scegliere di dedicare la propria vita al cinema, piuttosto che a religione, politica o anche solo semplicemente al "mondo reale", i Coen palesano la loro filosofia, il loro amore per il mondo dell'arte, già espresso in passato ma mai in modo così esplicito come in quest'ultima pellicola (termine che si può ancora usare perché effettivamente i fratelli hanno convinto Roger Deakins a usare la celluloide, seppur fra mille difficoltà). Non solo gli autori ribadiscono quanto il Cinema sia il loro senso della vita, ma arrivano anche a dichiararlo migliore (la cosa giusta da fare) rispetto a tutto il resto. Davanti all'immagine annichilente di una bomba che distrugge un'isola nel Pacifico, i Coen rispondono "grazie, ma no grazie", tornando a immergersi nelle più innocue follie e frivolezze del loro mondo di fantasia.


In conclusione, se proprio nel finale di questo discorso bisogna giungere ad un giudizio di valore, è piuttosto ovvio affermare che in ogni caso Ave, Cesare! sia un film minore nella filmografia coeniana. Ha molti difetti, in primis quello di non interessare ad un pubblico generalista e non cinefilo, ha alcune sequenze non propriamente riuscite, e una deriva talmente bizzarra da rischiare di respingere lo spettatore. Sicuro appartenente al filone più scanzonato della loro produzione, più vicino a Burn After Reading che a Barton Fink, sebbene sia ambientato nello stesso universo e ne citi esplicitamente un'inquadratura (quella delle onde che si infrangono sugli scogli). Fuor di dubbio che sia uno dei loro film "grandi, ricchi e pieni di star" utili a fare cassa in previsione di progetti più piccoli e personali, e soprattutto che sia un'opera votata al puro intrattenimento. Un'occupazione molto poco autoriale che però i fratelli non hanno mai rinnegato, specialmente perché ricercata attraverso i mezzi di una commedia sempre più rara, fatta di dialoghi frizzanti, ritmo frenetico, trame fitte e non banali, contenuti originali. Trattandosi Ave, Cesare! di una grande e unica farsa, priva di punti di riferimento, bizzarra e acidissima (una caratteristica che si fa sempre più presente in ogni nuovo film coeniano), mi pare assolutamente legittimo che possa non piacere, ma devo dire che se un regista deve "fallire" un film, personalmente preferisco che lo faccia provando a cambiare rotta e nel suo piccolo a sperimentare, piuttosto che continuando sullo stesso binario. Dopo un capolavoro e un tris di sceneggiature per altri (UnbrokenIl Ponte delle Spie Suburbicon, il prossimo film diretto da George Clooney), i Coen infilano una serie di gag memorabili e realizzano il loro sentito omaggio al mondo che più amano (prendere in giro), proponendo comunque ancora qualcosa di totalmente alieno nel panorama cinematografico contemporaneo. Già solo per questo, per quanto mi riguarda, avercene di film minori così.