domenica 30 ottobre 2011

Le avventure di Tintin - Il segreto dell'unicorno

Passeggiamo nervosamente fuori dalla stanza della maternità, fumando una sigaretta e guardando a terra. Siamo in tanti, tantissimi, di ogni nazionalità. Siamo i fan di Hergé e del suo Tintin, lo portiamo nel cuore sin da bambini, in una speciale teca, al riparo dalla polvere e dalle intemperie. Ma sono arrivati dei tizi, americani, danarosi, che dicono che adesso ne fanno un film. E basta.
Sono dentro da parecchio tempo, con strani macchinari, computer, tute... Oddio...
Poi d'un tratto si fermano, è finito. Ci chiamano dentro ed eccolo lì. E piangiamo, di gioia... perché è perfetto...

A dire il vero, io ci ho sempre creduto che venisse fuori questa meraviglia qua, mentre altri si preoccupavano, ed il perché è tanto facile: bastava guardare le persone coinvolte. Mentre il nostro Dylan Dog è finito in mano a gente che non sapeva nemmeno che roba fosse, come o perché, la storia dietro a Le Avventure di Tintin - Il segreto dell'unicorno è pressappoco questa:
Steven Spielberg gira I predatori dell'arca perduta nell'81 e legge una recensione che lo compara a Tintin. Incuriosito, si procura gli albi e li divora (leggenda vuole che li abbia letti in francese, da tanto che le immagini lo rapivano). Nel frattempo Hergé, che era un uomo complicato, dichiara di non aver gradito le trasposizioni filmiche e animate del suo personaggio, per di più, nella sua biografia, compare un passo in cui avrebbe detto che il solo Spielberg, che faceva questi popò di film, potesse essere in grado di rendergli giustizia.
Così, nel 1983, durante le riprese di Indiana Jones e il tempio maledetto, Steven insieme Kathleen Kennedy, capoccia della giovane Amblin, si incontrano a Londra. O meglio, avrebbero dovuto, perché Hergé muore quella settimana.
Spielberg ottiene comunque i diritti dalla moglie e si prepara a dirigerne un adattamento con Jack Nicholson nel ruolo di Haddock (slurp!) ma la sceneggiatura non lo convince, perciò non se ne fa nulla.
-CAPITO?? Quando la sceneggiatura è una merda, il film NON SI GIRA! Hollywood, ascolta il tuo maestro.-
I diritti rimbalzano da una parte all'altra, persino fra le psicanalitiche mani di Roman Polanski (no grazie). Finalmente, nel 2002, la DreamWorks li ricompra, e Spielberg ha le idee più chiare: una trilogia su degli episodi precisi, in live action, con il solo Milou artificiale. Ma nel frattempo nel mondo avvengono cose come la Pixar, la trilogia del Signore degli Anelli, la rivolta Motion Capture di Robert Zemeckis.
Peter Jackson gli dice: "Guarda Steve, che se lo fai recitare a Tizio e Caio non viene fuori una cosa fedele e pedissequa ad Hergé. Fallo in Motion Capture come il tuo amico Roby, ma fallo da noi, alla Weta, che siamo i più fighi"
Ma Spielberg non è convinto, lui non li fa i cartoni animati, li produce solo. Allora fanno delle prove, a cui partecipano lo stesso Zemeckis, Andy Serkis e James Cameron, che intanto sta girando Avatar con la Weta e può testimoniarne la figaggine.
E alla fine, dopo aver girato quella schifezzuola dell'ultimo Indiana Jones, sembra che Steven si convinca. E noi stiamo tutti qui a dire: no la motion capture no, è una cazzata!
Ah! La motion capture no e il 3D sì? E poi, l'avete visto per caso L'alba del pianeta delle scimmie? Io sì, e quando il solito Serkis, facendo la parte della scimmia, si dimostra una spanna sopra gli attori in carne e ossa, beh, benvenuta la motion capture.

Però alt, ALT!

Ci sono tutti, non manca più nessuno... solo non si vedono i due liocorni! (questa non potevo non farla). Ma sì amici, manca la sceneggiatura. Chi la scrive, Steven?
"Come chi? Il migliore" risponde lui.
Ah meno male, pensavo volessi metterti tu, che poi esce A. I. Intelligenza Artificiale, che era meglio se posavi il pennino. Ma chi è il migliore, Steven?
Il migliore è Steven Moffat, sceneggiatore inglese della BBC che ha passato gli anni '90 e '00 a incasellare un successo dopo l'altro, vincendo premi da tutte le parti per i suoi Jekyll, Doctor Who e soprattutto Sherlock.
E così lui la scrive, prendendo Il granchio d'oro, Il segreto del liocorno e Il tesoro di Rackam il rosso (nella prima esordisce il capitano Haddock, nelle altre due lui e Tintin si mettono sulle tracce di un antico tesoro) e fondendole in una sola grande avventura, che per alcuni passaggi narrativi e invenzioni, risulta ancora migliore delle spesso ingenue soluzioni originali di Hergé. La scrive, amato e coccolato da Steven, ma poi capita che deve tornare al suo lavoro e non la può finire. Che fare allora?
Semplice, Peter Jackson si ricorda di aver fatto una volta un cammeo in Hot Fuzz, uno dei sensazionali e divertentissimi film di Edgar Wright, e pensa a lui e al suo socio: Joe Cornish. Questi due, se possibile, sono ancora meglio di quell'altro, praticamente i migliori in circolazione.
Prendono la sceneggiatura e dicono ok, e la riscrivono. E c'è da scommettere che le più grandi scene d'azione del film sono opera loro.
Detto questo, il migliore dei registi possibili comincia a girare con la migliore delle sceneggiature possibili con il miglior cast possibile. Oddio, a dire il vero con il cast ci sono un paio di ripensamenti, però il fatto che Dupont e Dupond vengano interpretati da Simon Pegg e Nick Frost (inseparabili compari di Wright e Cornish) sollazza notevolmente. Jamie Bell interpreta un dignitoso Tintin, la cui fortuna è quella di essere sempre in movimento, come l'originale. Daniel Craig è un villain schiacciato dalla motion capture, un personaggio non lontano dagli esperimenti imperfetti di Zemeckis. Se ci fermassimo a loro due i detrattori di questa tecnica potrebbero tirare tutte le frecce al loro arco, dimostrando come renda infinitamente meno espressivi gli attori. Ma il film ha anche la fortuna di avere il massimo interprete della tecnica, quell'Andy Serkis troppo bravo in qualsiasi parte. Il suo Haddock è il SUO Haddock, pur rimanendo quello di Hergé. Riconoscibile eppure mimetico, come i grandi istrioni, come Al Pacino. Toh, non potevo dargli un più alto attestato di stima. Serkis è l'anima di questo film, un genio della sua arte, riportata ai tempi delle movenze sottolineate del muto, rimaneggiate per comunicare con i computer.
Peter Jackson predispone tutto, con la sua Weta, e si defila, lasciando mano al maestro, andando a mettersi alla regia della seconda unità. Uno che ha vinto 250mila oscar che fa il regista della seconda unità! MITO!!!
Il maestro pianifica, ragiona, dirige. La regia di Spielberg è da sempre una goduria, la trappola che ti cattura. Lui è uno che non smette mai di amare il cinema, anche se ti vuole solo intrattenere. Così finisce la sua parte e lo affida alla post produzione, che dura due anni, e infatti lui nel frattempo fa il suo nuovo filmone di Natale: War Horse.
In questi due anni la Weta fa un lavoro incredibile, costruendo i personaggi sull'esatto segno di Hergé, uguali, nei particolari, nelle movenze, perfino nei nasoni (come Warren Beatty in Dick Tracy, film avanti di un'epoca). Poi chiamano il solito Janusz Kaminski a fare il supervisore alla fotografia, perché c'è bisogno di ogni tipo di atmosfera: il buio del castello, il sovraesposto del deserto, la notte infuocata dei pirati. E anche perché è un film di Spielberg, e Kaminski deve esserci. Come c'è il montaggio di Michael Kann e la meravigliosa musica di John Williams, un po' sulle tracce di Prova a prendermi. E come in quel film, vieni accolto da dei titoli di testa stupendi e garbati, che ti presentano Tintin, lo stile della storia, la qualità dello spettacolo che tu, fortunato spettatore, ti accingi a godere.

Il video qui rappresenta i titoli di testa del film, fan made di un animatore di nome James Curran. Non sono quelli ufficiali del film, che sono diecimila volte più belli, ma Spielberg li ha visti e ha offerto un lavoro all'autore per il suo prossimo film. BEL COLPO JIM!

E così via, tutto scivola bellissimo una scena dopo l'altra, dal meraviglioso incipit-omaggio ad Hergé ai primi minuti d'indagine, dall'apparizione di Haddock ai momenti in cui lo senti strillare i suoi epiteti più coloriti (con la voce di Francesco Pannofino, tra l'altro). Ci sono alcune esatte riproposizioni delle medesime vignette e tavole del fumetto, ci sono le soluzioni narrative migliori (e migliorate), e soprattutto c'è la stessa profonda identità.
Basterebbe quel pazzesco, magico, stordente, lunghissimo pianosequenza dell'inseguimento a Beggar per dimostrarlo. Lì c'è tutta l'azione rocambolesca del Tintin fumetto, la sensazione di tour de force che trasmettono le sue avventure, il divertimento dei suoi colpi di scena. Ma c'è anche tutta l'arte dello Spielberg più puro, il suo amore per le sequenze impossibili, le sfide che il cinema ti pone e ti permette di superare, la voglia genuina di emozionare lo spettatore. Qui c'è il miracolo di avere tutto Hergé e tutto Spielberg, in un'unica armoniosa soluzione.
Uno Spielberg ai massimi livelli, che si fa perdonare Indiana Jones e il regno dei teschi di cristallo, proponendo il vero, nuovo Indiana Jones delle nuove generazioni, ripescandolo dal passato.
E chi ancora non crede della Motion Capture, si riguardi qualcuna di queste scene e provi a capire perché questo film non avrebbe potuto essere fatto in nessun altro modo, guadagnandoci molto e non perdendoci nulla.


 

In breve, dimenticate i pregiudizi, sospendetevi l'incredulità, e guardatevi Tintin.

lunedì 24 ottobre 2011

mercoledì 19 ottobre 2011

Tinker Taylor Solider Spy - anteprima



Tinker, Tailor,
Soldier, Sailor,
Rich Man, Poor Man,
Beggar Man, Thief.

John le Carré si era ispirato a questa filastrocca inglese per il titolo del suo romanzo del 1974. Per noi invece è sempre stato La Talpa.
Il libro ha goduto di un adattamento televisivo a puntate nel 1979, dove il protagonista George Smiley era interpretato dall'indimenticato Sir Alec Guinness, mentre questo, del 2011, è il primo adattamento cinematografico.
Bene, detto questo dobbiamo parlare della trama, giusto?
Ecco allora sappiate che all'interno del Circus, il più alto livello d'intelligence del MI6, pare esserci una talpa infiltrata dai russi.
L'incarico di trovarla viene affidato all'agente Smiley, il quale, proprio poco tempo prima, era stato allontanato dalle alte sfere, insieme con il suo superiore Control (John Hurt, ovvero l'uomo più straordinario del mondo), in seguito all'uccisione di uno dei loro uomini in missione. Il mite anti-eroe di Le Carré viene allora richiamato dalla pensione e fornito di un paio di collaboratori per portare avanti la sua pericolosa e segretissima indagine, a pochi giorni, peraltro, dalla morte del caro Control.
Basta, non aggiungo altro, 'che se lo faccio sarebbe un delitto, perché questo film gode di una maestria narrativa a dir poco sublime. Innanzitutto il progetto era inizialmente fra le sapienti mani di Peter Morgan, sceneggiatore a cui si vuole sempre un gran bene, poi lui ha dovuto defilarsi, mantenendo però il ruolo di produttore esecutivo, e lo script è stato affidato a Peter Straughan (Il Debito, L'uomo che fissa le capre) e la sua socia Bridget O' Connor. Che sono stati BRAVI! Un adattamento pazzesco, una sceneggiatura che la piazzi sul leggio e applaudi annuendo col capo. Bellissima.
Bona la cucina svedese!
Poi quei bravi figlioli di Studio Canal e della Working Title (Tim Bevan ed Eric Fellner, vi voglio bene) l'hanno prodotto sborsando 30 milioni di dollari, e la cosa magica è stata che la regia l'hanno affidata a Tomas Alfredson, che non era poi una cosa così scontata.
Cioè, lui è uno svedese che ha fatto tanta TV (però la TV svedese... dai, vabbè...) e che stava nella compagnia di commedianti Killinggänget (certo che lo so pronunciare, devo solo ubriacarmi), ok, è figlio di un regista, Hasse Alfredson, e fratello di un regista, Daniel Alfredson, ma non gli avrebbero dato in mano questa roba qui se non avesse fatto quella meraviglia di Lasciami Entrare (da poco remakerizzato dagli 'merigani con il titolo Blood Story, per la serie: guardatelo tu con i sottotitoli, io lo rigiro da capo).
E io qui mi sento di scoprire l'acqua calda e dire che questo è veramente uno dei più grandi registi in circolazione. Cioè, guardatelo, dietro quegli occhiali si nasconde uno del quale fino a poco tempo fa non consideravamo l'esistenza, e lui ti gira questo film (La Talpa, che esce a gennaio in Italia) che è una delle più convincenti pellicole di spionaggio mai viste, con uno stile da maestro, un rigore da veterano. Sembra un film di Altman, basta, ho detto tutto.
Cacchio! La talpa era Gianni Sperti!
A parte i grandi meriti che ha l'intero cast britannico, fra cui spiccano a mio parere il tormentato Tom Hardy (spicca sempre lui, un grande: Sam Rockwell nel corpo di Sylvester Stallone) e il granitico Benedict Cumberbatch (lo Sherlock televisivo, nonché uomo più bello del mondo, no? Ditemi donne...) ciò che rende grande il film è assolutamente la regia. Innanzitutto nella direzione di questi attori (ho dimenticato Mark Strong, la sua scena con la civetta che entra dal camino è folle almeno quanto il suo personaggio), rispettosa, delicata. Alfredson non è uno di quegli autori tronfi che schiacciano tutto e tutti, la cinepresa danza fra i volti raccolti nella stanza delle riunioni del Circus, coglie le più piccole sfumature, senza invadere mai, senza rubare la scena. Poi il lavoro che fa con Gary Oldman è veramente sensazionale, sembra che la storia gli interessasse fino a un certo punto, e che abbia visto nel suo personaggio il motivo per dirigerla. Lo studia, lo accompagna, gli ruba le parole dagli occhi senza che debba dirle. Lui sa che a noi di questa talpa può interessare fino a un certo punto, ma è a George Smiley, ai suoi tormenti silenziosi, i suoi più taciti segreti, che ci appassioneremo. Delicato e potente.
Alfredson è esattamente quel regista solido e non barocco che dà ancora un senso al linguaggio cinematografico, senza perdere un briciolo di modernità nel rispettarlo. Crede nel montaggio, lo usa per dare ritmo, per costruire la suspense, per farci un finale esaltante. Ma crede anche profondamente nell'inquadratura, in maniera espressiva, dando il giusto peso e la giusta impressione. Finalmente, usa a proposito il primo piano. Ce n'è solo uno di Smiley/Oldman, al punto giusto, te lo ricordi, ha senso, ti colpisce dritto in faccia. Oldman scompare, tu non sei più in una sala, stai guardando George Smiley e sei negli anni '70. Stupendo.
E poi lui sa quando il carico è troppo, ti stai per annoiare, e parte con la parentesi di Ricki Tarr e la sua travolgente avventura amorosa in Russia. Oppure con la storia parallela dell'agente divenuto professore, o ancora con quegli imprevedibili flashback durante la festa al Circus, quando c'erano tutti e si stava bene insieme, e invece lentamente emergono già lì le cose più oscure. Quel finale in cui Gary Oldman alza la voce per la prima, unica e ultima volta, e mostra i suoi sentimenti, lì e in quell'altra fugace inquadratura in cui la sua mano stritola un mancorrente per amore. Solo l'amore lo scuote, tutto il resto, la talpa, il pericolo, la filastrocca per bambini, non lo smuove. Solo l'amore conta in tutto quel grigio fumoso e desolato, ed è così per tutti, nessuno escluso. Soprattutto Alfredson.
Capolavoro.

sabato 8 ottobre 2011

IDRIS: l'ultimo elemento

(premessa: ci saranno un macello di errori, ho scritto come una bestia, così come mi avrebbe comandato il protagonista della storia... così perchè non ho voglia di rileggere tutto.)
Leggendo nessuno s'aspetti che tutto venga compreso. Questo perchè il protagonista non è spiegabile; è un'entità, qualcosa che più il tempo passa più sembra condannato ad un'esistenza ultra-naturale. In principio si crebbe fosse un cane, certo insolito; venne adottato ancora in fasce, alla tenera età di 3 mesi, anche se poco v'era di tenero: il suo volto era diverso, parte del suo corpo sproporzionato, le orecchie già formate e adulte, la coda mozzata (si dice sulla nascita), una protuberanza strana sul torace, come un neo ma molto meno definibile. Il distacco dalla madre cagna fu drammatico. Chi pensasse ora che ogni cucciolo strappato dalla maternità per viver con la nuova "famiglia umana" sia naturale, dirò che dopo poche ore dal distacco, innondò uno dei padroni con un flusso di stomaco denso e odoroso, una brodaglia che negli anni avvenire e nella storia contemporanea, diverrà parte integrale della sua essenza. Fin dai primi giorni ci fu l'intento di fargli vivere una vita dignitosa e posata che merita un qualunque cane; dunque passeggiate, uscite giornaliere e data la passione del padrone, gite in montagna. Il padrone tentò e ritentò nell'impresa, ma la bestia soffriva, tremava sulla vettura durante i spostamenti, terrorizzata alla vista delle sfuggenti figure proiettate dall'abbaino, trovando solo pace all'arrivo, dopo una o più corse nei verdi prati finalmente poteva dar sfogo a tutta la sua tensione e liberarsi con un abbondante ennesimo riflusso (molti ne fece già sulla macchina). La preoccupazione che suscitò questa sua patologia, fu ampiamente discussa dai dottori che non comprendevano l'origine, spiegabile quindi dal suo forte problema con l'ansia. Tuttavia, molti di questi medici dovettero mettere in discussione anche la propria tolleranza agli animali e alla professione scelta, dopo aver ripulito le varie tracce di urina per tutto il laboratorio. Non si creda che l'educazione non gli sia stata inflitta duramente, passato il primo arco d'età la disciplina divenne legge. Idris crebbe forte e robusto, fiero e finalmente composto. Tale compostezza ebbe modo di manifestarsi specialmente sulla brandina, suo trono sacro e insostituibile, unico suo vero amico e compagno di vita. Dopo anni di vani tentativi, si iniziò a escludere l'intenzione di farlo vivere come "essere cane". La passeggiata venne quasi abbandonata, la sola vista del guinzaglio lo terrorizzava. Il suo solo piacere era uscire nel giardino e scorrazzare quei secondi necessari per i bisogni principali , per poi tornare al trono prediletto. La monotonia delle sue giornate fu scossa una sera di settembre, quando il padrone rincasò con un nuovo amico animale; gatto. L'interesse si manifestò subito, ma a differenza degli altri cani non fu l'odio a prendere il sopravvento come vuole la tradizione, bensì il micio dovette passar la prima giornata nella nuova casa a ripulirsi dal fetido muco emesso dalle falangi del mostro. Tuttavia, fra i due nacque una solidale amicizia, per quanto il gatto continui ancor oggi a manifestare timore ad ogni suo passaggio e soprattutto ad ogni parvenza di alitata. Il colpo basso arrivò non più d'un paio d'anni or sono; ormai il bestio è anziano, porta sulla sua goffa groppa una quindicina d'anni canini, con le proporzioni fisiche perenni di un cucciolo. Durante la visita del finalmente accettato medico e amico, gli fu diagnosticato un malanno incombente fra i meandri del deretano. Si parla di noduli, tumore. Pian piano la vecchiaia si fa più presente, la vista diviene sempre più nebulosa, l'udito praticamente inesistente, la bocca colma di muffe e funghi che provocano la caduta anche di numerosi incisivi. Quel che non cambia però è l'appetito, la passegiata in giardino quotidiana e la solita vomitata digestiva. Oggi Idris sfiora la dozzina d'anni, il suo retto tumefatto da pretuberanze, ascessi ed eccrescenze violastre che ribollono costantemente lo costringono ad un'assunzione continua di innumerevoli medicinali. La vista quasi completamente estinta inducono la bestia ad orientarsi con l'ancor immutato fiuto, sbattacchiando qua e là, tra un riflusso e l'altro. Nel frastuono della sua esistenza, immerso nelle sue malattie più disperate, fra una parvenza di cedimento e l'altro tira avanti con un energia mai vista, con immutata noncuranza dell'andamento delle cose, come se nulla lo colpisse, come se a tenerlo attaccato alla vita sia qualcos'altro e non più la vita stessa, uno stato di esistenza sconosciuto faticosamente raggiunto, incompreso. Oggi Idris è vivo, a lui non sono sopravvissuti moltissimi esseri umani, anche famosi, alcuni ritenuti invincibili (come lui). L'unica ipotesi è credere che questa bestia venga da una realtà molto diversa da quella a noi nota, potrebbe essere la chiave per un altro emisfero, universo, un'altra realtà. In lui v'è raccolto l'essenza di cose ambigue e maldescritte, in lui v'è da estrarre la chiave per l'immortalità.... c'è da sperare che la chiave non si nasconda fra le eccrescenze del culo. Un affettuoso saluto, da tutti gli amici di Idris che sempre lo venereranno.

venerdì 7 ottobre 2011

Drive



Questa recensione è talmente in ritardo che ormai potrebbe non fottervene più un beneamato, però oh, eh, non stressate...


Nicolas Winding Refn è uno forte. Uno di quelli che indubbiamente il cinema lo respira e ce l'ha nel sangue. Quando esci dalla visione di Bronson pensi "Beh ma allora Sorrentino non è l'unico virtuoso visionario in circolazione, c'è pure Nick!" In più lui è interessato a queste storie di violenza, un po' noir un po' malsane... Così, normale che Hollywood pensasse "perché no?" e lo reclutasse. E allora ecco il nuovo film di Refn: Drive, con la star in ascesa Ryan Gosling. Ed è stata proprio la suddetta star in ascesa ad allungargli il copione scritto da Hossein Amini (sceneggiatore in ascesa) tratto dal romanzo di James Sallis.
Ora, se ne possono dire tantissime su Drive. Lo stesso Refn ha dichiarato che è un omaggio a Jodorowsky, che si è ispirato a questo e quel film, Steve McQueen, il noir degli anni '70, eccetera eccetera.
Io dico che sì, ci siamo, però è solo un mezzo centro, e pure abbastanza preoccupante. In primis perché Refn si porta dietro la fama di autorone e invece ha subito accettato questo lavoro su commissione, che non ci sarebbe poi niente di male, solo che QUESTO lavoro su commissione, era praticamente quello che i francesi chiamano "una merda".
Un film per soli uomini
La sceneggiatura fa pena, amici, senza tirare fuori la banalità delle situazioni (robe che abbiamo già visto, rivisto e stravisto, tutte su Italia Uno, tra l'altro), il modo in cui l'ambiente mafioso è rappresentato è semplicemente ebete. Una volta, quando qualcuno scriveva di criminalità si informava un minimo, invece ora tutti quelli che hanno visto una puntata dei Soprano sono in grado di popolarvi qualsivoglia film schierando dei pizzaioli in tuta da ginnastica, dotati di un'aura simpatica e goffamente italiana, ma capaci di grandi efferatezze. Cioè, se uno si dà la briga di costruire un protagonista che è un vero duro, un figo, che parla poco e tutto il resto, dovrebbe considerare di non mettergli contro pulcinella, oppure l'intero sistema crolla.
È ancora da capire se Ron Perlman sia un bravo attore, oltre un tizio dalla corporatura interessante, Albert Brooks lo è abbastanza, ma è proprio il loro ruolo che viene a mancare, come già accadeva in Ghost Dog di Jarmusch, anche se in misura minore. È come se per tutto il film aleggiasse una sorta di umorismo tarantiniano, cosa che Refn ha bellamente ignorato (giustamente) per fare un film noir che non fosse finalmente tarantiniano. E infatti bravo, qui te lo dico, bravo Nicolas. Perché hai preso in mano questa roba disastrata e ne hai tirato fuori un bel film, non straordinario eh, ma carino sì, toh, prendi 'sti dieci euro e portaci a cena la simpatia...
Voglia di tenerezza
Il caro Refn merita il premio della regia di Cannes che ha sul camino, perché fino a un certo punto dici veramente "wow". La prima scena è un grande lavoro di montaggio, musica, ritmo e inquadrature, tutto volto a creare una solida suspense senza giocarsi troppe carte. Poi il film sale, cresce, c'è quell'altra scena della rapina che ti fa saltare, ti copri la bocca e ti preoccupi come una mamma. Poi sali ancora e ancora, fino alla scena dell'ascensore, bellissima, un po' strana ma suggestiva. Da lì il film finisce in stallo, Refn crede di poter continuare come nella prima parte in eterno, non ha l'arte della seconda parte, non ce l'aveva nemmeno Bronson. Tira lunga ogni scena, tu ti stanchi di non vedere niente a parte un inutile rallenti, cominci a odiare i maledetti intermezzi videoclippari che costruisce con le sue amate musiche. Dici "Sì, bello un sacco, però finiamola magari"
E allora lui, lentamente, ti porta alla fine, e scopri che non è un granché, perché la sua grande regia deve comunque piegarsi alla sceneggiatura.
Poi cos'altro? Ah sì, il film si chiama Drive ma in generale guida di più un milanese imbottigliato nel traffico rispetto all'attore in ascesa Ryan Gosling. Lui fa il meccanico, il pilota in pista, lo stuntman e l'autista per rapinatori, ma ognuna di queste sue attività si vede per una o due brevissime scene. Inseguimenti, dite? Uno. Scene madri legate alle automobili? No.
Allora WTF?
Ryan, dovresti baciare Carey Mulligan, sai...
Refn, fai l'autorone quanto ti pare, ma se è un film d'azione magari qualche azione devono compierla. C'è il sangue sì, ma chissene a un certo punto. Fai la filosofia sulla violenza ma non sei capace, te lo dico io. Ed è un vero peccato, perché c'erano delle cose belle. Carey Mulligan ad esempio, sempre carina e a modino, e il personaggio dell'attore in ascesa Gosling era interessante. C'era questo sentore di follia che aleggiava in lui, nei suoi scoppi d'ira, nel suo modo di approcciarsi agli altri, soprattutto nel suo giubbotto (e stavolta non scherzo). C'era la musica di Cliff Martinez che era buona e giusta, mentre tu (Refn) riproponi sempre le tue canzoni anni '80 che connotavano molto bene Bronson, e facevano pensare a una scelta geniale, mentre poi si scopre che le infili a prescindere in ogni film, tanto per. C'erano tante cose che si potevano fare, invece è venuta fuori una roba vecchia, che, stringendo, non ha nulla da dire.
Insomma, alcuni in giro vedono un capolavoro in Drive, ma io sospetto che la gente oggi si gasi (e si sgasi) per molto poco. Io ci vedo piuttosto una casa costruita male, con le fondamenta storte, uscita sbilenca ma con un tetto bellissimo.


Ryan? Ryan? Ry...

giovedì 6 ottobre 2011

Preghiera di Settembre

In questo triste momento d'inizio autunno, ormai saturo di caduti storici e reso ancor più inconsolabile dai doveri che incombono continui e giornalieri e soprattutto dalle cantine sempre più sprovviste della rossa bevanda più amata dagli infami... ci si riunisca. Questo è un appello all'Iddio: "Nostro Signore, tu che dall'alto dei tuoi imperi hai fama di suprema saggezza, noi tapini dell'umana stirpe quest'oggi ti invochiamo. Chiediamo di accogliere quei disgraziati da noi tanto amati che in questi giorni ci hai strappato; non voler male a chi di loro vuol convincerti all'acquisto d'un computer, perdona la spocchia del più atletico che troverai intento a scalare le vertigini della tua barba, abbi la pazienza di narrare l'ultimo episodio di Cassady al suo editore, prematuramente richiamato ai cieli proprio prima di quell'ultimo.... quel dannato ultimo.. . Infine ti chiediamo Signore, ora che il tuo regno sembra saturo, lascia a noi i rimasti, ancora un poco, ormai sono pochi e meritano ancora le stagioni più nobili che ci hai destinato nei prossimi mesi. Amen."