martedì 24 maggio 2011

Forever Young

Perché: oggi Bob Dylan compie 70 anni.
Il 24 maggio del 1941 nasceva in quel di Duluth, nel Minnesota, Robert Allen Zimmerman, il musicista più importante del Novecento. Non c'è aspetto che Bob non abbia toccato, influenzato, rivoluzionato nella realtà artistica e culturale di questo pianeta. Inutile fare un discorso approssimativo su di lui, ci vorrebbe un libro, ci vorrebbero i tanti libri che sono stati scritti sulla sua leggenda. Dire le solite due frasi erronee sul menestrello che attraversa l'America sarebbe inutile, e persino offensivo. Per lui parlano le sue canzoni. Metterne una che lo rispecchiasse non è semplicemente possibile, dato che la sua mano e la sua voce hanno dato vita ai più grandi capolavori musicali di tutto un secolo.
Forever Young è in realtà stata scritta per suo figlio Jakob quando nacque, e trova posto in Planet Waves del 1974. Da fan la voglio dedicare a te Bob, alla tua personalità inesauribile, al tuo genio, alla tua poesia, a tutto quello che ci hai dato. Che tu possa vivere per sempre.




domenica 22 maggio 2011

Helplessness Blues

Adesso sono più vecchio
di mia madre e mio padre
quando ebbero loro figlia,
che cosa dice questo di me.

Così cantano i Fleet Foxes in Montezuma, prima canzone del loro nuovo Helplessness Blues, il blues dell'impotenza. Una partenza quieta, tutto sommato dolce, che dentro di sé porta le sonorità del precedente album del 2008, debutto formidabile salutato da tutti come un capolavoro. Canzone che continuando su quella linea contiene nel DNA la caratteristica più interessante e singolare del gruppo, i cambi di ritmo. Le volpi agili amano mettere al mondo creature magmatiche, in evoluzione, crescita, sviluppo, o destinate ad implodere. E così Montezuma si concede una fine spirituale, abbandonando gli arrangiamenti folk per inseguire il flusso delle parole, per trovare la giusta dimensione di sé stessa. Sono tutte così le canzoni di questo disco, irrequiete, in viaggio fra le note, alla ricerca del giusto senso, perché non è detto che quello corretto sia l'iniziale, oppure il finale.
Diventa evidente questa ricerca nelle due tracce che ospitano quattro brani: The Plains/Bitter Dancer e The Shrine/An Argument, capolavori di sapiente combinazione cromatica e ritmica. I colori ecco, sembra di vederli, caldi, autunnali fuori stagione, la stessa gamma che domina la copertina illustrata da Toby Liebowitz e Christopher Anderson, artisti della Seattle natia del leader Robin Pecknold. Una sofisticatezza compositiva che risplende in Bedouin Dress, Sim Sala Bim, e nel bellissimo singolo Grown Ocean.


Ci sono anche altre tonalità, dalle più movimentate Battery Kinzie e Lorelai, alle più sottili Someone You'd Admire e Blue Spotted Tail, sussurrate dalla magnifica voce di Pecknold, con arrangiamenti ridotti all'arpeggio chitarristico. Musica per nostalgici degli anni '70, dove gli sconfinati panorami di folk, pop, rock e psichedelia si confondevano. Del resto l'ispirazione di Bob Dylan aleggia come un fantasma in chiunque si approcci alla forma canzone, avendola lui, di fatto, esplorata in lungo e in largo. Ma c'è una differenza fra l'antico Bob e tutti quelli della sua era, e questi giovani. L'ha scovata e descritta perfettamente Riccardo Bertoncelli nel suo articolo di Linus di questo mese, di cui qui trovate un estratto. Nel suo discorso il grande critico si chiede a chi appartenga questa musica, dove si collochi, e quando. Non è vissuta, è studiata, imitata, ricreata artificialmente in provetta. È musica sintetica che rifà musica analogica. Frutto di una generazione che ama troppo quei vecchi tempi, che cerca di riportarli in vita dopo accanito studio,e così facendo perde quell'elemento di immediatezza tipico del rock. Una bellissima riflessione, ancora una volta.
Ma per chi un disco gradisce viverlo con semplicità, prendendo ciò che ha da offrire senza scavare in profondità, questo disco è più che consigliato. C'è un pubblico per questa musica colta e sofisticata che non riesce a fingersi altro, c'è un pubblico alla ricerca di suoni efficaci e preziosi, e testi su cui soffermarsi. Oggi che l'originalità è merce rara, ci si può accontentare di questa elevata qualità che sgorga da ogni traccia. Quando un gruppo trova ancora il coraggio di inserire un brano strumentale come The Cascades merita tutto il rispetto e tutta l'attenzione che gli si può dare. Peccato solo che una meraviglia come Hellplessness Blues sia stato rilasciato in anticipo come singolo. Brani come questo dovrebbero essere nascosti fra le altre tracce, dovrebbe essere lasciato all'ascoltatore il piacere di trovarli, spolverarli e innamorarsi.
Qui un bellissimo fan video del regista Fred Paull.



Sono cresciuto credendo di essere in qualche modo unico
come un fiocco di neve distinto fra fiocchi di neve unici in qualsiasi modo li si possa vedere
e ora dopo aver riflettuto direi che preferirei essere
un ingranaggio in funzione in qualche grande macchina che serva qualcosa al di là di me

sabato 21 maggio 2011

The Tree of Life

Lunghe attese, anni silenziosi. Terrence Malick si eclissa dal mondo e vive nell'ombra gettata dal suo nome in controluce. Emerge a distanza di anni per depositare un'opera, in punta di piedi, poi torna indietro. Passa la vita osservando la vita, scrutando gli elementi della natura, i colori, i movimenti, ascoltandone il suono e saggiandone gusti e profumi. Investe ogni cosa di un'anima, un senso, una particolare luce. Riprende le carezze del vento, i pellegrinaggi delle nuvole maestose, la pazienza infinita dell'erba. Abita l'infinito facendosi piccolo e umile, meravigliandosi ad ogni fenomeno. Rappresenta le passioni degli uomini, trascinanti, selvagge, primordiali, stupide ma mai inutili, sempre, sempre importanti.
Tree of life si costruisce ancora di scenari e voci fuori campo, si permea di filosofia, assolutismo, e in fin dei conti, elementare didascalismo. È Malick, è proprio lui, non ha perso il tocco negli anni. Ma è pure nuovo, riesce ad essere anche oltre.
Lancia Emmanuel Lubezki nella creazione della più splendida fotografia degli ultimi anni, alla ricerca di immagini potentissime, indimenticabili. Si potrebbe dire perfetta, se non fosse che Malick rifugge la perfezione quasi quanto la semplicità. Ed è così che nelle scene del passato abbiamo un'atmosfera moderna, una grana da Hollywood anni duemila, mentre nelle sequenze ambientate oggi, c'è un'invenzione, una fotografia futuristica. Proprio nei momenti in cui uno smarrito Sean Penn si muove davanti la cinepresa è presente l'innovazione nello stile di Malick, freddo, asettico, disturbante come non è mai stato. In trasferta dalla sua amata natura, il regista texano riprende i palazzi, le vie, le case geometriche e i grattacieli, tentando di specchiare almeno nelle immense distese di vetrate, un brandello di cielo. Scompaiono anche piani sequenza, campi sospirosi, quadri affrescati. Tree of Life è in perenne movimento, in ansia, in agitazione compulsiva. Steadycam in corsa, ascese o discese verticali, un montaggio serratissimo, febbrile, caotico. Un montaggio delle attrazioni, frutto di cinque diversi professionisti. 138 minuti in ipnotico movimento, tanto che il film lentamente scompare e si apre dinanzi a noi un'esperienza sensoriale.
Una storia in cui passato e futuro si (con)fondono, in cui viene passata in rassegna tutta la gamma di emozioni che un essere vivente può provare, dalla compassione in una specie primitiva, alla paura, al disagio, all'amore incerto e innocente. Il senso di colpa, la difficile ragnatela dei rapporti familiari, fino all'odio, l'incomprensione, che domina gran parte (troppa) della pellicola. Elementi forse biografici che emergono dalla misteriosa vita di Malick, che ha girato a Waco, città dov'è nato, forse non a caso.

Sean Penn e Brad Pitt come tutti gli attori nelle sue mani diventano fantocci e maschere, veicoli d'informazioni, fra un deserto, una cascata, un campo di girasoli. Splendida Jessica Chastain, che incarna la donna-angelo contesa di ogni film malickiano. A tenere lo schermo sono però i più giovani membri del cast, con i loro occhi e i loro corpi agili. La forza selvaggia della giovane età emerge in una straordinaria sequenza su cui scorrono le note della Moldava di Smetana. Ma è indimenticabile soprattutto un altro frammento del film, quello in cui Malick si stacca dal microscopio e comincia a narrare la storia del nostro pianeta. Puro cinema che prende a espandersi, modellarsi, come la nebbia di molecole che ha dato vita a tutto. Una scena in cui scatta quasi automatico il rimando a 2011 Odissea Nello Spazio (senza dimenticare che ci ha lavorato Douglas Trumbull), anche se si tratta di un capolavoro ancora oggi, nonostante tutto, insuperato. Al contrario della perfezione Kubrickiana, del suo sguardo analitico e scientifico, Malick si interessa all'aspetto prettamente estetico e comunicativo delle inquadrature, facendo, come da sempre prova, della poesia. Poesia per immagini, in un film disordinato, come tutti i suoi, costruito come un sogno. In cui però per la prima volta emerge qualcosa di nuovo e indefinito, che forse verrà compreso del tutto soltanto fra parecchi anni.
Per ora ciò che si ha l'impressione di osservare è un film enorme, inestimabile, su cui si potrebbe dire tantissimo, ma che rende invece ogni parola vana. Un capolavoro del bene. Una delle rare volte in cui non si sente la mancanza di Kubrick.

sabato 14 maggio 2011

You don't know Jack - Il dottor morte

La storia del dottor Jack Kevorkian è una di quelle che non si dimenticano. Una di quelle volte in cui leggendo Wikipedia si ha la sensazione di trovarsi di fronte alla trama di un romanzo, e ci si chiede se sia vera, e soprattutto perché non si sia mai sentito parlare di una vicenda di tale portata. In breve, è materia d'oro per il cinema.
Non a caso nel 2010 ne è stato tratto un film TV prodotto dalla HBO, mandato in onda il 24 aprile. Non sarà proprio cinema, ma quando a dirigere viene chiamato Barry Levinson, e nel cast figurano Al Pacino, John Goodman, Susan Sarandon, Brenda Vaccaro e Danny Houston, ci siamo molto vicini. Anzi, nei 134 minuti in cui il personaggio del dottor Kevorkian si insinua nelle nostre vite, c'è molto più cinema che in innumerevoli altre produzioni hollywoodiane di questi tempi.
Ora, se io avessi dovuto raccontare questa storia, l'avrei sicuramente intitolata con il soprannome guadagnatosi da Kevorkian negli anni, tanto curioso quanto implacabile, e assolutamente ad effetto: Il dottor morte. Scelta sposata dalla distribuzione italiana (tra l'altro, grande parentesi, piuttosto vergognosa. La pellicola si è vista nel nostro paese quasi un anno dopo, il 22 marzo 2011, e soltanto a pagamento, su Sky Cinema) che ha affiancato tale sottotitolo a quello ufficiale: You don't know Jack.
Devo dire che in realtà, anche se meno attraente, il titolo originale americano ha una sua grande utilità, nonché una maggiore responsabilità. La stupenda sceneggiatura di Adam Mazer infatti, che gli è valsa un Emmy Award, non si articola in un ritratto romanzato della figura di Kevorkian per smuovere emozioni elementari, non si costruisce su scene d'impatto, e di grandi trasporti etici. Prima di tutto è didattica, concreta, illustrativa. Barry Levinson lavora con il ritmo, incasellando una scena dopo l'altra con semplicità e metodo. Realizza qualcosa fra il documentario e il film europeo, calato però in una realtà profondamente americana.
Certo, per gran parte del tempo gli basta inquadrare Al Pacino, stando ben attento a non perdere nulla. Chi mi conosce sa come io la pensi su colui che per me è il più grande attore vivente, quindi forse il mio giudizio potrebbe essere di parte. Ma l'Emmy Award da lui vinto come miglior attore protagonista (il secondo conquistato dal film, sulle 15 candidature complessive), nonché uno Screen Actors Guild Award, e un Satellite Award, danno bene l'idea di quanto questa sua interpretazione sia piaciuta. Invecchiando (anche se non poi così tanto) il proprio corpo ed i propri gesti, Pacino si è ancora una volta calato completamente nella parte, diventando uno straordinario Jack Kevorkian. Il suo istrionismo gli ha permesso di rendere palpabile gli innumerevoli tratti che la sceneggiatura di Mazer ha così ben cesellato. Jack subisce, si rialza, porta avanti la sua lotta, perde, quasi tutto, si rialza ancora, con la sua impacciata umiltà, semina atti, parole di buonenso, lotta in tribunale, contro i mulini a vento che disperdono nell'aria le sue fatiche. Sino ad un finale crepuscolare, dove le parole vengono a mancare, dove persino lui rimane senza saper cosa dire di fronte ad un tale modello di società. Dopo il (doveroso, lo fa in ogni suo film) monologo da brividi, Pacino esprime tutto quello che vorrebbe con un silenzio dolorosissimo, che Levinson ha la capacità e l'intelligenza di proporre con spietato distacco.
Per il resto, la sua regia barocca movimenta la serie di dialoghi in cui è articolata la narrazione, rendendola dinamica, moderna, incalzante. Alterna toni da commedia a quelli più drammatici, momenti di profonda introspezione alla veridicità storica. Propone, nasconde, lascia intravedere, tutti gli aspetti della personalità di Kevorkian, che è anche un abile pittore ed un musicista. Affresca una figura complessa, incomprensibile del tutto, perennemente in bilico fra il fuoco e il fuori fuoco con il quale Levinson si approccia al confine con la vita. Sono temi, quelli del passaggio fra vita e morte, e delle vette di un dolore insopportabile, che in questo film rimangono ad una certa distanza. Subentra uno sguardo oggettivo sulle famiglie, sulle vittime delle malattie che spingono Pacino/Kevorkian ad offrire loro un suicidio assistito. Subentra un rispetto, il riconoscimento della libertà individuale, per la quale il dottore insiste a battersi. Al di là di suicidi, eutanasie e convinzioni religiose: l'estrema libertà di scelta sul proprio destino.
Non importa la fama di Dottor Morte, non importa quello che si pensa di sapere, o di aver sentito su di lui. You don't know Jack, non conoscete Jack, e alla fine di questo film, dopo l'ultima delle stupende inquadrature curate da Eigil Bryld, montate da Aaron Yanes, e musicate da Marcelo Zarvos... lo conoscerete. E non lo dimenticherete.



Dato che non esiste il DVD di questo film, e dato che Jack Kevorkian è stato un grande esempio del fatto che, quando una cosa è sbagliata, è giusto infrangerla, diciamo che qui potreste trovare una cosa interessante in italiano, e qui e qui in lingua originale sottotitolata.
Io sono un grande fan di Giannini nelle vesti di doppiatore, soprattutto di Al, ma in questo caso è un peccato non approfittarne.

lunedì 9 maggio 2011

Che aria tira a Darkwood?

Mi son dato ad una ricerca mirata agli albi più fessi dell'eroe più irrequieto della storia dei fumetti, una grande spanciata fra varie vignette, titoli e disegni delle copertine del caro Gallieno Ferri. Presa così la decisione di condividere quelli che mi hanno più colpito, divertito, annichilito; sottolineando che questo non v'è che un piccolo assaggio, ve ne sono tanti altri che si perdono probabilmente nel tempo... scovateli!!
Buona sfogliata...

venerdì 6 maggio 2011

The meeting place

The Last Shadow Puppets è il side project dei britannici Alex Turner e Miles Kane, leader rispettivamente degli Arctic Monkey e dei Rascals. Su entrambe le band ci sarebbe parecchio da dire, ma in questo caso trovo sia importante e opportuno segnalare che, per la qualità della loro musica e il dinamismo con il quale si destreggiano nell'attuale panorama musicale, si tratta di due fra le formazioni giovanili più importanti di oggi. Sempre per non rimanere ancorati alla nostalgia dei bei gruppi di una volta, e pazienza se magari non tutti i loro dischi sono allo stesso altissimo livello.
Questa che segue è The meeting place, canzone tratta dal loro primo (e per ora unico) album del 2008: The Age of the Understatement. Qui un bellissimo live.
-Perché?
Perché senza nulla togliere alle doti canore di Alex e Miles, provate a immaginarla cantata da Frank Sinatra.

The Colder the night gets
The further she strains
And he doesn't like it
Being this way

And she tried so hard
To steer away
From the meeting place
But her heart had left her there

She clings to his consciousness
Wherever he layed
Struggles to sleep at night
And during the day

He's worried she's waiting in his dreams
To drag him back to the meeting place
His love had left in there
Where the voices still echoes

I'm sorry I met you darling
I'm sorry I met you
As she turned into the night
All he had was the words
"I'm sorry I met you darling
I'm sorry I left you"

Four weeks they had trolled around
Playing the fools
They knew the time would come
And time would be cruel

Because it is cruel to everyone
He is crying out from the meeting place
He stranded himself there
Where the voice still echo

I'm sorry I met you darling
I'm sorry I met you
As she turned into the night
All he had was the words
"I'm sorry I met you darling
I'm sorry I left you"

I'm sorry I met you darling
I'm sorry I've left you

domenica 1 maggio 2011

La messa

"Mi sono sempre chiesto come mai i miei rappresentanti sulla terra pensino che IO possa essere di vedute limitate esattamente come loro..."
Dio, da Archetipo di Ralf Konig

Tutto ciò in onore della beatificazione di Papa Giovanni Paolo II. Anche se non so quanto in effetti c'entri con la religione. Vabbé, è anche la Festa dei lavoratori, non è che si può aver pretese...

Settuagenario Cavaliere Offre Tenda Con Harem

S.C.O.T.C.H. è il titolo dell'ultimo disco di Daniele SIlvestri, un acronimo cui lo stesso cantautore ha invitato i suoi fan a dare un'interpretazione. Quella frase lassù è una delle sue preferite, ma ce ne sono molte altre nel libretto dell'album, che a dire la verità era atteso da più di quattro anni. Strana la carriera, anzi proprio l'intera figura, di Daniele Silvestri, che dal 1994 al 1996 ha sfornato un disco all'anno, per poi rallentare e lasciar gonfiare i tempi. Il risultato è che nell'olimpiade ci è mancato, e tutte le volte, quando ritorna, ci fa capire quanto. Quando si era presentato a San Remo con quella dolceamara genialata de La Paranza sembrava invecchiato e provato da questi tempi difficili, mentre adesso si è ripresentato ripulito, ringalluzzito, come se ci avesse ormai fatto l'abitudine (e avesse lavorato sulla sua immagine).
Dice che nei quattro anni (di lavoro) ha scritto più di trenta canzoni, e non si stenta a crederlo, dato che qui ne sono finite ben quindici, un vero evento nell'era delle nove tracce. L'impressione comunque, ascoltandolo, non è di sovraccarico o pesantezza, S.C.O.T.C.H. è un album importante nei temi ma agile nelle melodie, piuttosto vario, sebbene tenda verso una precisa direzione.
L'inizio con Le navi è fra i suoi momenti più poetici e ispirati, in cui parole dolenti camminano sopra un tappeto di note che scorre timidamente. Al di là della sua dolcezza formale, fa emergere il male di vivere questa società, che caratterizza anche il resto delle composizioni. È forse il momento più delicato di tutto il disco.
Sornione invece, scritta e cantata insieme a Niccolò Fabi, è una canzone sussurrata, che comunica in modo molto intimo. Il suo arrangiamento svolge funzione di accompagnamento e non brilla mai, mentre il testo, acuto e intelligente, è come sempre il punto forte del lavoro di Silvestri.
Cos'è sta storia qua e Fifty Fifty sono piccole e scattanti canzoni dal ritmo allegro e dalla strumentazione piuttosto varia, in cui il cantautore romano fa quello che gli riesce meglio: parlare della vita quotidiana. La prima è la cronaca di una giornata caotica in una grande città, raccontata con ironia e con quella verve che sta a metà fra pop e hip hop, e che è fin dagli inizi il suo marchio di fabbrica. Nella seconda torna a farsi cantore delle dinamiche di coppia, usando frasi, modi di dire e caratterizzazioni della moderna convivenza sentimentale.
Con Acqua Stagnante si apre la sequenza di capolavori del disco. Silvestri è riuscito ad inquadrare l'amore ancora da una prospettiva diversa, ed è riuscito a parlarne con una semplicità e profondità uniche. Rinnegare l'amore, rifiutare la propria natura, per non essere giudicati, significa non avere alcuna corrente dentro di sé, significa lasciare che la propria vita diventi una pozza stagnante. A tutto ciò aggiungete la sua voce sofferta, ed uno splendido arrangiamento che mescola sonorità elettriche alla calda carezza dei violini. Stupenda, una canzone per qualsiasi tipo di amore.
Precario il mondo, presentato in anteprima a Vieni via con me, è il brano attorno al quale si è formato tutto il disco, il perno stilistico e tematico di S.C.O.T.C.H. È una canzone al 100% Daniele Silvestri, ha la sua impronta, i suoi giochi di parole, la sua ironia, ma anche i risvolti più lirici. È un manifesto di questo paese e non solo, come indica il titolo, di tutto un mondo. Sarebbe stato difficile dirlo meglio.
Ad un certo punto compare Raiz per un fulminante intermezzo in cui canta una versione napoletana e furiosa di Che bella faccia, risalente al precedente Il Latitante.




La chatta è il gioiellino comico che Silvestri infila in ogni suo lavoro. La rilettura della canzone di Gino Paoli gli è venuta straordinariamente, e riesce anche ad essere intelligente e utile. Una canzone sulla realtà delle chat, dei profili online, della nostalgia verso i primi passi della rete internet, così come colma di nostalgia era l'originale. Geniale, e sublime l'apporto del cantautore friulano.
Io non mi sento italiano invece era troppo seria e troppo importante da storpiare. Attualissima oggi come nell'ormai lontano 2003, i suoi versi sono ipnotici e granitici, e serviva un grande cantautore per interpretarla degnamente. Silvestri ne ha realizzato un'importante aggiornamento, in una versione per questa e le future generazioni, e per farlo ha puntato su un arrangiamento fine, sofisticato, esuberante, dato che il testo era già perfetto. Qui bisogna fermarsi a fare i complimenti alla sua band: Piero Monterisi (batteria) Maurizio Filardo (chitarre), Gianluca Misiti (tastiere), Gabriele Lazzarotti (basso) e Ramon Josè Caraballo (tromba e percussioni).
Anche questa è una canzone nata dal programma di Fazio, ma insieme alla precedente spinge a fare una riflessione. Nel modo in cui si approccia ai classici, nel modo in cui lo diventa, nel modo in cui gioca con la lingua e la usa per parlare a tutti noi, Daniele Silvestri è l'ultimo cantautore assimilabile alla nostra grande tradizione. Il suo sguardo è personale, come per tutti i migliori, ma appartiene alla scuola dei vari Gaber, De André, Dalla, o lo stesso Paoli, per il modo in cui riesce ad essere (per fortuna) italiano.
Monito® è la sferzata elettrica che a Silvestri piace fare ogni tanto. Come sempre serve a dare energia all'ascolto, ma il suo rock riesce ogni volta a non essere mai vuoto. Il suo ritratto di un Presidente della Repubblica impotente è una delle immagini più forti e interessanti dell'album, uno dei pezzi da salvare.
Ma che discorsi è il secondo singolo rilasciato in contemporanea al precedente. Accontenta gli altri palati del cantautore romano, e si rivolge ad un pubblico più ampio possibile, essendo la traccia più abbordabile. Ancora una volta la sua analisi delle parole che gli amanti si rivolgono si rivela precisa, ed è anche per questo che lui continua a piacere molto. Ogni volta, dopo che la musica finisce, ci si rende conto che quella canzone ci stava parlando.
In Acqua che scorre, come per un simmetrico rimando alla quinta canzone, Silvestri e  Diego Mancino (reduce da anni di gavetta nel sottobosco italico), scrivono e intonano un brano che parla dei sogni, dei desideri che vengono ad arricchire il grigiore della nostra quotidianità. Ispirato e lieve, dolce come rare volte.
Lo scotch è il pezzo più difficile e complicato, se ne potrebbe parlare a lungo. Parte come racconto di un trasloco in salsa reggae, si prende i suoi tempi raccontando di come una vita non possa stare costretta dentro a delle scatole, vede l'arrivo di Bunna degli Africa Unite, sperimenta un Silvestri che canta in inglese, diventa teatro canzone con la parte di Peppe Servillo degli Avion Travel, si perde, si sfilaccia e si ritrova sino ad una fine che si spegne lentamente, in cui Andrea Camilleri racconta una storia con la sua voce antica. Un esperimento difficile, un brano che racchiude tutto un disco.
L'appello è un altro gioiellino nascosto, una frizzante canzonetta in disimpegno che, al contrario, ha forse il testo più drammatico di tutti. Racconta di Paolo Borsellino mettendosi nei panni di suo fratello Salvatore. È una di quelle cose che avrebbe potuto fare solo Silvestri, certo, con l'arrangiamento strepitoso della sua band.



In un ora soltanto non è, come la precedente, una canzone che salta addosso all'ascoltatore. Per questa è necessario un ascolto attento, è un sussurro flebile, notturno, è della musica fluida, senza schemi o ritornelli precisi, è più qualcosa di sensazioni. Una di quelle canzoni d'amore sottili e sognanti, che accompagnano i pensieri degli amanti nel limbo in cui scompaiono.
Il finale di un disco così vario e dinamico non dev'essere stato facile da decidere, ma la scelta di Questo paese è stata perfetta. Il pianoforte di Stefano Bollani affresca una melodia semplice, da inno acustico, mentre il ritratto dell'Italia di Silvestri, articolandosi in piccoli versi, arriva ad una conclusione da applausi. Ma prima che il sipario cali definitivamente, c'è ancora una traccia fantasma, tutta da ascoltare.


Le foto che hanno correlato queste righe sono state scattate (con un iPhone!) durante l'incontro Il suono della democrazia tenutosi al Teatro Carignano di Torino il 14 aprile 2011, per la Biennale Democrazia. Qui Giovanna Zucconi ha chiesto a Daniele Silvestri quali, secondo lui, potessero essere i collegamenti fra musica e democrazia. Lui ha fatto questo elenco:

-Le Mantellate - Gabriella Ferri (qui in una cover di Claudio Villa)
Queste ultime due però, ha ammesso di averle messe non perché c'entrassero particolarmente con la democrazia, ma solo perché gli andava di ascoltarle.
Sì, Daniele Silvestri ci era mancato.