sabato 21 gennaio 2012

Museo del fotogramma 7



Fantastic Mr. Fox

di Wes Anderson
USA, Regno Unito - 2009


Visto che è uscito in questi giorni, vi allego pure il trailer del prossimo film di Wes Anderson: Moonrise Kingdom, che parla della fuga d'amore di due ragazzini.


e pure uno dei brani (piuttosto morriconiano) della meravigliosa colonna sonora di Fantastic Mr. Fox del grande Alexandre Desplat.

venerdì 20 gennaio 2012

We take Care Of Our Own


We Take Care of Our Own è il primo singolo (rilasciato ieri giovedì 19 gennaio) di Wrecking Ball, il nuovo album di Bruce Springsteen, il diciassettesimo, in uscita il 6 marzo. Ne riparleremo ovviamente quando sarà il tempo, ma quel che si può sentire fa già ben sperare. Questo lavoro, il primo del Boss dopo la morte dello storico partner musicale, nonché anima della E Street Band, l'indimenticato Clarence Clemmons (ciao Clarence, ci manchi) si avvarrà della partecipazione di un nutrito gruppo di illustri collaboratori esterni, fra cui spicca il grande chitarrista Tom Morello.
QUI altre informazioni e il testo del brano.

giovedì 19 gennaio 2012

El Camino

Come promesso, eccoci qui a parlare dell'ultimo album dei Black Keys. Ma non state sulla porta, mettetevi comodi. No lì no, che mi rovinate i cuscini. Nemmeno lì perché i libri non li posso spostare. Vabbé state accanto alla porta.
Ehm... Allora, è bene premettere subito che questi Dan Auerbach e Patrick Carney non sono gli stessi di The Big Come Up e Thickfreakness, perché i due non registrano più nello scantinato di casa, non fanno più cover, e non hanno più inevitabilmente la stessa visione della musica; anche perché ridendo e scherzando sono passati dieci anni (per un nostalgico come me è dura ammetterlo. Figurarsi che oggi nel 2002 usciva La Compagnia dell'Anello... sigh).
Ordunque, che idea hanno della musica quest'oggi i ragazzotti cresciuti di Akron? Sicuramente meno grezza e più matura, e abbandonando il vero garage (o la fabbrica in disuso di Rubber Factory) se ne sono andati anche i toni più estremi di quel garage rock. Senza contare che dal 2008, anno di comunione con il grande produttore Danger Mouse (quello alto dei Gnarls Barkley), i due scoprono l'elettronica, che porta con sé tutto un ventaglio di possibilità sonore, ma soprattutto la radio, con la sua esigenza di singoli accattivanti. In sostanza i due si aprono un po' di più al mondo e alle sue logiche, abbandonando quell'isola felice di integerrimo rock, sferragliante come un vecchio treno che porta nel loro Ohio. Ne sono una riprova i tre (ben tre, peraltro bellissimi) videoclip ad altrettanti singoli estratti dal loro penultimo Brothers.


Beh, questo disco non è Brothers. All'inizio stavano quasi per sembrarmi paragonabili, poi sono andato a risentirmi Brothers, e beh, questo disco non è Borthers. Non lo è e non voleva nemmeno esserlo, in fondo. El Camino vorrebbe più essere un ritorno agli inizi succitati, allontanandosi da quel meraviglioso orizzonte blues-soul-funk (sì c'era un po' di tutto. Mi piacciono gli album dove c'è un po' di tutto. L'ho detto prima che sono un nostalgico) dell'album precedente, verso quel perduto garage o quel fantasma di fabbrica di gomma su cui ora girano gli scavatori (quello sulla copertina del singolo Lonely Boy di preciso).
Qui regna incontrastato un rock zeppelininiano fino alla citazione (Little Black Submarines, il brano più grande e ambizioso forse della loro intera carriera, certamente maestoso) ma che purtroppo, ahimé, ahinoi, ha irrimediabilmente perso quella carica genuina di, si diceva, dieci anni fa. Questo non è il gruppo, e il caso, di parlare di sovraproduzione, ma l'innocenza giovanile si vive una volta sola. Danger Mouse c'è e si sente, scrivendo anche qualcosa, come un ormai effettivo terzo membro della band. Affina, regola, rifinisce il progetto di un disco che ha comunque ancora e sempre l'energia per scuoterci.
Perché El Camino è un gran bel sentire, e se ci perde in struggenti ballatone, ci guadagna in pezzi scatenati e danzerecci, che giungono come pasciuti suini in tempo di vacche scheletriche. Ricordiamo Gold on the ceiling da amare e coccolare, Sister che poteva starci alla grande su Brothers, confermando quanto io poco capisca di ciò che dico, Mind Eraser che grida Quentin Tarantino a squarciagola, e l'ovvio singolo apripista Lonely Boy, che come molti altri pezzi, ha il motivo armonico più accattivante nelle tastiere del produttore tuttofare. Mentre Dead and Gone, Money Maker, la promettente ma smarrita Run Right Back, la dura Hell of a season, l'antica Stop Stop, e la modernissima Nova Baby, per quanto piacevoli e divertenti, hanno l'irremovibile aspetto confuso dei riempitivi, e comunque non reggono il confronto con le illustri sorelle sparse negli anni. D'altrone, se uno viene abituato bene, poi comincia a pretendere.
Ed è a questo punto che mi sono reso conto che tutto ciò non importa. Non ha davvero senso fare le pulci ad un gruppo che, si sente e si percepisce, fa la sua musica ancora con sincera passione. Auerbach e Carney (e Danger Mouse) hanno confezionato un album divertente e spumeggiante, che, garantito, infilato nell'autoradio farà ballare la macchina per tutto il viaggio. E molte volte questo è tutto ciò che uno può volere.
I vecchi tempi sono finiti, diamo il benvenuto a quelli nuovi. Che non sono poi malaccio.

sabato 14 gennaio 2012

Morire di venerdì 13

Caro Jack,
stamane non mi andava più di tanto di alzarmi. Sai, io non so come facciano i becchini, ma l'idea di doverti seppellire non mi allettava più di tanto. E vorrei invitare chiunque abbia voglia di lamentarsi per l'eccessivo studio, la riga sulla portiera della macchina, la risposta poco educata del partner, il fatto che quella bella sciarpa di cachemire costi troppo, e in generale chiunque ritenga queste sciocchezze dei veri problemi, a lamentarsene dopo aver provato a seppellire il proprio cane. Inteso come scavare una buca abbastanza profonda, prendere il proprio amato animale domestico in braccio, indurito dal rigor mortis e maleodorante, adagiarlo nel freddo terreno, e ributtarvi sopra, una palata dopo l'altra, tutta quella terra che lentamente lo ricopre, strappandolo alla vista. Per poche cose nella vita vale la pena piangere, e la morte è una di queste. Il resto sono parole al vento.

Sia ben chiaro, io e te ci siamo coccolati, siamo andati a spasso insieme, abbiamo anche litigato (poco, e mai davvero), ma ci siamo sempre trattati con rispetto. È di questo che un cane ha bisogno, prima di tutto. Rispetto e biscottini a forma di osso.
Comunque sia, te ne sei andato in una giornata proprio stronza. Crolli delle borse, gente che incidenta la macchina in manovra, scioperi, casini, Bossi, la più grande nave da crociera della storia mai coinvolta in una catastrofe. Mi verrebbe da sospettare che te ne sei andato per scappare. Invece, buono com'eri, a te sarebbe piaciuto restare qui ancora un po'. Ma del resto la paralisi, dopo le gambe, ti stava attaccando il cuore (grande). Nonostante venissi portato a fare i tuoi bisogni issato sulla carriola, le tue zampe erano ormai quasi completamente spelate. E mentre prima divoravi la ciotola col miglior appetito, adesso dovevi rifletterci un po' su, morendoci sopra. Si sta male, lo immagino. Specialmente quando prima eri uno che saltava da tutte le parti e non stava mai fermo, nemmeno nel bagagliaio, dove miagolavi ininterrottamente in ogni viaggio, rompendo il cazzo. Ah, bei tempi...



Perlomeno sei morto dolcemente, addormentandoti piano, fra lenti respiri. E poi nel sonno hai fluttuato, naufragando in tutto quel nero, fino a perderti. Un istante prima eri con noi, come noi, vivo, un istante dopo eri lontano, irraggiungibile. Ma almeno adesso tu sai cosa c'è là, cosa succede dopo. Per uno curioso come me, è già un motivo d'invidia.
Caro amico te lo confesso, rivederti lì, con gli occhi chiusi, fa molto male. Fa sempre male. Sei così immobile... tu che eri solito dormire con le zampe piegate a virgola, come un aristocratico. Bellissimo.

Ma la tua vita l'hai vissuta, dico bene? Non stupenda magari, certo, non sei stato il commissario Rex, ma meglio di tante altre, no? Senza contare che ciò che importa, come al solito, in questi casi, è quel che ci lasciamo dietro. Ecco, io ho dei rimpianti, vorrei averti fatto più fotografie per avere più ricordi, vorrei esserti stato più vicino, per tutta la vita, ma specialmente mentre soffrivi. Soprattutto mentre morivi.
Però devo dire che qualche bel ricordo ce l'abbiamo. Come il primo, vivido come fosse ieri, (e difatti per me sei rimasto sempre un cucciolo). Quando la signora, la tua padrona, stava male (quella che ha scelto il tuo nome yankee), e noi siamo venuti a prenderti perché non finissi chissà dove. Dopo qualche metro in macchina cominciammo a sentire una puzza terrificante. Ci fermammo e io, per primo, ti portai a passeggiare, e facesti una tale quantità di µ€®∂å che credo sia ancora là adesso. Ti piaceva venire a spasso con me, perché facevamo i giri più larghi, sperduti nella nostra bella zona industriale silenziosa. Già, piaceva anche a me.
Oppure ecco che riemerge il ricordo di quando avevo deciso di lanciarti un bastoncino sferrandogli un calcio, ma tu sei balzato in avanti e te lo sei preso sul naso. Che botta ragazzi. Oppure quando prendevo i ricci delle castagne attentamente, con due dita, per darteli, e tu, che ti fidavi di me, credevi fossero buoni da mangiare e li prendevi, e io ridevo mentre tu ci rimanevi fregato, con la lingua dolorante. Oppure ancora quando venivi a scroccare il cibo a tavola con gli occhi tristi. Quando volevi attirare l'attenzione, ti avvicinavi e agitavi la zampa come una persona.
Questo l'avevi fatto anche con Wolf, appena arrivato, ma lui ti assaliva sempre tentando di ucciderti. Te lo ricordi, vero, Wolf? Chissà se lo rincontrerai. Chissà se ti ricorderai di me. Chissà se giocherai a poker con gli altri cani. Chissà se ci rivedremo mai per giocare ancora un po' insieme, fregandocene del fatto che saremo entrambi troppo vecchi.
Un tempo, tu e Wolf eravate amici. Prima di diventarlo ci avete messo un po', lui non ti accettava come nuovo incomodo, ti mordeva anche quando volevi stargli vicino. Dopo quella fase, ti accettò semplicemente con freddezza, ma ogni tanto bisognava separarvi perché vi azzannavate feroci, ed è stato necessario rappezzarvi un bel po' di volte dopo le sanguinose battaglie. Ma alla fine siete diventati amici, io lo so. Correvate insieme nel campo dietro al bastone, odiavate il prossimo allo stesso modo, giocavate e dormivate insieme, e vi facevate caldo e compagnia di notte. Del resto eri un coccolone, e appena uno cominciava ad accarezzarti, ti giravi con la pancia all'insù e i complimenti non ti bastavano mai. Eri un cane semplice in fondo, chiedevi un po' d'amore per darne tanto.
Semplice e buono, come il tuo musetto sempre felice di vedermi.
, abbiamo tanti bei ricordi.
E mi mancherai, caro Jack, più di quanto mi mancheranno mai certe persone. Perché noi eravamo amici, e se c'è stata qualche mancanza, è solo da parte mia. Perché noi abbiamo passato un bel pezzo di vita insieme, anni che non si riavvolgono, e non torneranno. Come te, che non tornerai.
Qual è il legame che lega un cane al suo padrone? Come si chiama quel sentimento grande e segreto? Tentare di rispondere potrebbe essere un grave errore.
Intanto la terra ti ricopre poco alla volta e tu scompari. Cucciolo, adulto e (quasi) vecchio,  altra terra e tu scompari ancora un po'. La coda, le zampe, il musetto nero, le lunghe orecchie da asino, gli occhi serrati, e altra terra. Le mosche, i vermi, e altra, altra terra. Alla fine torniamo sempre alla terra, nei boschi, fra gli alberi, nell'umidità del mattino. Ma allora esistiamo o non siamo mai esistiti?
Per l'universo no, praticamente no, lui ci ignora. Ma per me sì. Per me non scompari, per me non sei svanito, per me rimani. E proverò a fare in modo che tu mi accompagni ancora un po', finché sarà possibile. Finché la mia fragile umanità mi permetterà di farlo.
Mi raccomando però, stavolta non tirare come al solito.

lunedì 9 gennaio 2012

Museo del fotogramma 6


Hunger

di Steve McQueen
Regno Unito, Irlanda - 2008


Stavolta dico qualcosa e metto un po' di immagini in più, perché c'è la considerevole possibilità che non l'abbiate visto, in quanto in Italia (unico paese in Europa) non è stato distribuito. Hunger  è l'esordio nel lungometraggio del videoartista inglese Steve McQueen (che uno dice: ma no! Proprio come l'attore! e poi si confonde) che ha un trascorso di una certa importanza in veste di scultore, videomaker, documentarista e artista a tutto tondo, suvvia. Questo suo primo film è stato scritto da lui e dalla grande drammaturga e sceneggiatrice Enda Walsh, ed è incentrato sull'esperienza degli attivisti nordirlandesi nel carcere di Long Kesh fra la fine degli anni '70 e l'inizio degli '80. In particolare, dopo un inizio straordinariamente suggestivo, viene raccontata l'atroce epopea di Bobby Sands, in una cronaca spietata dei suoi 66 giorni di sciopero della fame.

Un paio di interessanti articoli su regista e film sono qui e qui. Io, francamente, lo ritengo talmente potente da non riuscire a farne un'analisi seria in poche righe. Come succede solo per certe grandi opere, si può solo elencare quello che vedi. Qui si inizia con una serie di inquadrature di straordinario impatto, elaborate al millesimo (ed ecco che emerge l'occhio dell'artista) in funzione sia della narrazione sia di una certa sfera di sensazioni. Il regista sta dicendoci delle cose che capiremo solo più avanti, ma lo fa con una forza da lasciarle ben impresse. Dopo il pedinamento del primo personaggio si passa al secondo, che diventano "i secondi"; il contesto e le motivazioni si fanno più chiari, e nel modo più naturale possibile ci spostiamo ancora una volta su quello che sarà il protagonista, senza mai lasciare indietro i primi.
Tutto questo avviene in larga parte senza un grosso dispendio di parole, McQueen parla per immagini entrando a fondo nel linguaggio del cinema, alla sua base e nei suoi strumenti.
La terza parte del film sarà, come detto, il calvario perfettamente ritmato della fame di Bobby Sands, di nuovo senza parole e con la musica ridotta a elemento sonoro.
Ma fra queste due cornici di enorme silenzio e spaventosa brutalità, si inserisce un dialogo ininterrotto di 22 minuti, con i due interlocutori tenuti perennemente in figura intera. L'intenso fraseggio, vero tour de force attoriale, rimane sempre in equilibrio fra la sensazione di invadenza dello spettatore, quella di disagio, e quella opposta di partecipazione attenta, quasi ipnotica, che i dialoghi suscitano. Appena il fraseggio finisce e Bobby Sands inizia a raccontare un ricordo, la cinepresa si dispone sul suo primo piano per non lasciarlo più, aggrappandosi ai suoi occhi sofferenti e alle ferite del suo (non a caso) bellissimo volto martoriato.
McQueen si rende capace di finezze come quella di questa scena qui accanto, in cui nella parte destra dello schermo il tempo scorre naturalmente, mentre nella sinistra, il momento della violenza viene amplificato, rendeno evidente la sensazione emotiva del personaggio.
Un esempio per il tutto, perché questo film si divide abilmente fra rigore ed emotività. All'interno della cornice di controllo delle immagini, esplodono le passioni, talvolta feroci, talvolta di sofferenza, degli uomini.
Un film dove la morte si fa metafora, dove lo sporco (piscio e merda, in sostanza) diventano rappresentazioni metafisiche, e dove il nemico (la Tatcher) aleggia invisibile come un male superiore, sovrastante e senza pietà. Dove la cinepresa diventa un corvo irrequieto su di un corpo scheletrico, e il malessere dei silenzi può farsi più forte che nelle agghiaccianti scene di lotta.
Io sono dell'idea che bisogna sapere il meno possibile della trama di Hunger, perché quando si trova finalmente qualcuno che sa narrare così bene, è un peccato rovinarsi il viaggio. Mi limito solo a consigliare più che caldamente il suo recupero, perché raramente ho visto pellicole del genere. Per l'intelligenza delle inquadrature, la versatilità del montaggio, e la potenza del suo messaggio, va molto oltre lo stato di sorprendente opera prima, rivelandosi come il grande capolavoro che è.
Inoltre ho finalmente capito perché Fassbender è l'attore più richiesto del momento. Tutti i premi che lui e il film hanno vinto sono pochi. Qui il cinema si fa arte, e avrebbe dovuto essere il caso dell'anno 2009, mentre invece lo fu Avatar.
Uno di quei film che non ti dimentichi (come questa immagine), e che entrano come bulldozer nella tua top ten.

PS: La prossima settimana esce l'opera seconda di McQueen: Shame, ancora in coppia con Fassbender che intrerpreta un prigioniero del sesso. Chevvelodicoaffà.

giovedì 5 gennaio 2012

La canzone: Gold On The Ceiling


Ebbene sì, l'anno musicale inizia piuttosto bene con il nuovo album dei Black Keys: El Camino. Non vi metto link vari perché a breve dovrebbe arrivarvi fra i denti una succosa recensione del disco (se mi ricordo). Per intanto passatevi una bella epifania rockettara.

Down in the waves
She screams again
Roar at the door
My mind can’t take much more
I could never drown

They wanna get my…
They wanna get my
Gold on the ceiling
I ain’t blind
Just a matter of time
Before you steal it
It’s alright
Ain’t no blood in my eye

Clouds covered love's
Barbed-wire fence
Strung up, strung out
I just can’t go without
I could never drown

They wanna get my…
They wanna get my
Gold on the ceiling
I ain’t blind
Just a matter of time
Before you steal it
It’s alright
Ain’t no blood in my eye