giovedì 19 gennaio 2012

El Camino

Come promesso, eccoci qui a parlare dell'ultimo album dei Black Keys. Ma non state sulla porta, mettetevi comodi. No lì no, che mi rovinate i cuscini. Nemmeno lì perché i libri non li posso spostare. Vabbé state accanto alla porta.
Ehm... Allora, è bene premettere subito che questi Dan Auerbach e Patrick Carney non sono gli stessi di The Big Come Up e Thickfreakness, perché i due non registrano più nello scantinato di casa, non fanno più cover, e non hanno più inevitabilmente la stessa visione della musica; anche perché ridendo e scherzando sono passati dieci anni (per un nostalgico come me è dura ammetterlo. Figurarsi che oggi nel 2002 usciva La Compagnia dell'Anello... sigh).
Ordunque, che idea hanno della musica quest'oggi i ragazzotti cresciuti di Akron? Sicuramente meno grezza e più matura, e abbandonando il vero garage (o la fabbrica in disuso di Rubber Factory) se ne sono andati anche i toni più estremi di quel garage rock. Senza contare che dal 2008, anno di comunione con il grande produttore Danger Mouse (quello alto dei Gnarls Barkley), i due scoprono l'elettronica, che porta con sé tutto un ventaglio di possibilità sonore, ma soprattutto la radio, con la sua esigenza di singoli accattivanti. In sostanza i due si aprono un po' di più al mondo e alle sue logiche, abbandonando quell'isola felice di integerrimo rock, sferragliante come un vecchio treno che porta nel loro Ohio. Ne sono una riprova i tre (ben tre, peraltro bellissimi) videoclip ad altrettanti singoli estratti dal loro penultimo Brothers.


Beh, questo disco non è Brothers. All'inizio stavano quasi per sembrarmi paragonabili, poi sono andato a risentirmi Brothers, e beh, questo disco non è Borthers. Non lo è e non voleva nemmeno esserlo, in fondo. El Camino vorrebbe più essere un ritorno agli inizi succitati, allontanandosi da quel meraviglioso orizzonte blues-soul-funk (sì c'era un po' di tutto. Mi piacciono gli album dove c'è un po' di tutto. L'ho detto prima che sono un nostalgico) dell'album precedente, verso quel perduto garage o quel fantasma di fabbrica di gomma su cui ora girano gli scavatori (quello sulla copertina del singolo Lonely Boy di preciso).
Qui regna incontrastato un rock zeppelininiano fino alla citazione (Little Black Submarines, il brano più grande e ambizioso forse della loro intera carriera, certamente maestoso) ma che purtroppo, ahimé, ahinoi, ha irrimediabilmente perso quella carica genuina di, si diceva, dieci anni fa. Questo non è il gruppo, e il caso, di parlare di sovraproduzione, ma l'innocenza giovanile si vive una volta sola. Danger Mouse c'è e si sente, scrivendo anche qualcosa, come un ormai effettivo terzo membro della band. Affina, regola, rifinisce il progetto di un disco che ha comunque ancora e sempre l'energia per scuoterci.
Perché El Camino è un gran bel sentire, e se ci perde in struggenti ballatone, ci guadagna in pezzi scatenati e danzerecci, che giungono come pasciuti suini in tempo di vacche scheletriche. Ricordiamo Gold on the ceiling da amare e coccolare, Sister che poteva starci alla grande su Brothers, confermando quanto io poco capisca di ciò che dico, Mind Eraser che grida Quentin Tarantino a squarciagola, e l'ovvio singolo apripista Lonely Boy, che come molti altri pezzi, ha il motivo armonico più accattivante nelle tastiere del produttore tuttofare. Mentre Dead and Gone, Money Maker, la promettente ma smarrita Run Right Back, la dura Hell of a season, l'antica Stop Stop, e la modernissima Nova Baby, per quanto piacevoli e divertenti, hanno l'irremovibile aspetto confuso dei riempitivi, e comunque non reggono il confronto con le illustri sorelle sparse negli anni. D'altrone, se uno viene abituato bene, poi comincia a pretendere.
Ed è a questo punto che mi sono reso conto che tutto ciò non importa. Non ha davvero senso fare le pulci ad un gruppo che, si sente e si percepisce, fa la sua musica ancora con sincera passione. Auerbach e Carney (e Danger Mouse) hanno confezionato un album divertente e spumeggiante, che, garantito, infilato nell'autoradio farà ballare la macchina per tutto il viaggio. E molte volte questo è tutto ciò che uno può volere.
I vecchi tempi sono finiti, diamo il benvenuto a quelli nuovi. Che non sono poi malaccio.

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