mercoledì 28 settembre 2011

Lo spirito con la scure...

... alla fine arriva per tutti. E non parlo di lui (non soltanto):


Se ci pensate, Sergio Bonelli è stato uno dei più grandi figli d'arte della storia del fumetto. Chissà quanto sentiva pesare da giovane l'ombra di papà Gian Luigi, che si era inventato quel personaggio eterno che è Tex Willer. Lui, Sergio, era soltanto il figlio di, e badava alla casa editrice. Per scrivere fumetti si era pure inventato uno pseudonimo, così da non dargli fastidio.
Eppure, negli anni, è diventato forse il più famoso e il più grande padre dell'arte sequenziale italiana. Pensare a quell'anziano signore faceva proprio venire in mente il concetto di padre, di mano autorevole e sicura nella quale rifugiarsi. Oggi, noi gente che ama il fumetto, siamo tutti orfani. Siamo tutti burattini confusi, sbandati, che vorticano senza più direzione. Oggi il fumetto italiano diventa adulto.

QUI tutto il resto.

domenica 25 settembre 2011

Carnage

Un film piccolo piccolo di cui si potrebbe parlare ore. Tratto dal testo teatrale di Yasmina Reza (si lo sappiamo - scusate, dovevo dirlo) parla del confronto fra due coppie di genitori che discutono a proposito di uno screzio che ha coinvolto i loro figlioli, ed è ambientato in casa di una delle due famiglie.
Sì ma dove andate? Ascoltatemi, che poi non lo sapete, entrate, vi annoiate, e uscite a metà rompendo i coglioni. Sì che lo fate, vi ho visti io.
È un film tutto dialogato ok? Un'esperienza di teatro filmato, teoricamente, ma non praticamente.
Io me lo immagino, Roman, che va a vedersi lo spettacolo e rimane folgorato, dai temi, dai ricordi, dalle possibilità che offre.
I ricordi sono quelli legati alla cinematografia del suo (e di noi tutti) maestro Hitchcock, nell'ennesimo omaggio dopo Frantic e il precedente L'uomo nell'ombra. Qui a venire in mente è Nodo alla gola, con i suoi personaggi rinchiusi in casa, con un cadavere da tenere nascosto, con le apparenze da salvare.
I temi, beh, sono tutti. La forza del testo sta appunto nel saper evadere dalla dimensione privata per farsi più complesso e generale, cavalcando dialoghi perfetti ed interpretazioni magistrali. I personaggi sono reali e concreti, ma sono anche simboli, ognuno di un profilo di uomini e donne che abitano il mondo. Il cinico avvocato attaccato al telefono, l'idealista attivista politica interessata all'arte (che fin dall'inizio non hanno infatti feeling), il tipico americano medio che finge di essere di più, e la donna in carriera attraente ma frustrata dall'inevitabile solitudine. Una lotta di classe fra middle e upper, un ritratto di due matrimoni in disfacimento, un confronto ideologico sulla società, e all'orizzonte temi assoluti come la vera natura delle persone, l'identità, verità e finzione nei rapporti, la psicologia, l'istinto selvaggio pronto ad emergere alla prima occasione. Basta un gesto, una parola, a far esplodere IL DIO DEL MASSACRO sepolto in ognuno di noi.
E come avrebbe potuto, Polanski, non vedere in queste persone prigioniere di una casa, prigioniere di uno sfogo, un ritratto allo specchio della sua condizione di regista in cattività, costretto a ricreare New York nel cuore dell'Europa, per non finire anche lui vittima (giusta o sbagliata) della sete di violenza del mondo...
Ciao Jodie, siamo su Skipe
Cinematograficamente parlando poi, il testo offriva l'occasione di esercitare veramente quella che è l'arte registica. Entrare in una rappresentazione teatrale per amplificarne i dettagli, per scandirla al ritmo di un montaggio frenetico, per frapporsi fra l'occhio e l'attore con precisi cambi di fuoco e inquadrature espressive, per inserirsi come generatore emozionale più che spettatore onniscente. Nel film è palpabile la presenza di Polanski, che sceglie quattro attori formidabili e li butta allo sbaraglio in un ambiente finemente controllato. Ogni cosa nell'appartamento dei Longstreet è delineato al dettaglio, così come i costumi di Milena Canonero sono fondamentali nella costruzione della psicologia. Michael ammette di essere stato costretto dalla moglie a vestirsi da intellettuale, ma tradisce fin dall'inizio la sua condizione con un paio di grossolane scarpe da ginnastica. L'equilibrio formale in cui la prima parte si regge, scompare con la simbolica (e spassosa) scena del vomito. Da lì in poi una barriera si abbatte, ed è solo la prima di tante. Il nervoso che pulsava sotterraneo fuoriuscirà a fiotti, insieme a rivelazioni e confessioni. Si formano e si disfano alleanze, alla fine è un tutti contro tutti dimostrato anche e soprattutto dalla posizione dei corpi, in una danza di fughe e spalle date al nemico.
A differenza di Hitch, Polanski vive nel nuovo millennio, e per raccontare una storia del genere la parola d'ordine dev'essere dinamismo. Così costruisce la sua opera con un'impressionante serie di stacchi e cambi di piano e prospettiva, avvalendosi di una raffinata fotografia naturalistica, in evoluzione verso il crepuscolo. Va in scena la rabbia, l'introversione degli adulti, la loro comica pretesa di essere determinanti. Ma tutte le loro parole saranno inutili, il mondo più semplice e immediato dei bambini rimetterà a posto le cose naturalmente, nelle due parentesi mute che offrono il commento ultimo del regista a questo massacro che ci circonda.

sabato 17 settembre 2011

La Montagna



L'uomo chiese alla montagna
il vento
per posare il suo pensiero
sulle orme del tempo
perché qualcosa resti
del suo lungo viaggio
anche nel più lontano punto
del suo cammino.
L'uomo chiese alla montagna
di toccare il cielo,
la montagna realizzò
quel suo desiderio
e quando fu così
una nuvola lo sfiorò
in fondo al cuore che malato è
di nostalgia.

Scritta da PierGiorgio Benda.
Cantata da Mina.
Apparsa sull'album Uillalla del 14 ottobre 1989.

Dedicata alla figura indimenticabile di Walter Bonatti, l'ultimo dei piccoli uomini che hanno osato sfidare i giganti.


The Whole Love

Con TUTTO L'AMORE che sempre proverò per i Counting Crows, se fosse dipeso da loro e dalla loro lentezza compositiva, la mia fame di quella sorta di territorio di confine scoperto da Bob Dylan e addomesticato da Bruce Springsteen, non troverebbe sazietà dal lontano 2008, anno del loro ultimo Saturday Night e Sunday Morning. Perciò, se ho voluto ascoltare della musica originale, ho dovuto elargire un po' di tutta quella passione ai Wilco.
Loro, la band di Chicago, TUTTO IL LORO AMORE in questo momento lo stanno provando per la loro nuova etichetta (dBpm), nata dalla scelta di mettersi in proprio. C'era da aspettarselo, negli anni hanno salutato i sicuri confini dell'alt country ereditati dagli Uncle Tupelo, per lanciarsi nelle pieghe della musica moderna, talvolta navigando a vista, ma sempre con una grande immaginazione ed un genuino desiderio di scoperta. Troppo vulcanico Jeff Tweedy, troppo alieni loro a qualsiasi Major, troppo condizionati da TUTTO L'AMORE che provano per la musica.
E così in questo loro ottavo (ma primo) THE WHOLE LOVE, registrato fra le accoglienti mura del loro studio "The Loft" a Chicago, hanno prodotto un carico di 12 canzoni (risultato della scrematura di più di sessanta) che non si accontentato di scivolare sulle orecchie.
L'album è incorniciato da due brani lunghi che più diversi non si può, e come non se ne sentivano da tempo, nell'epoca dei tre minuti e via. The Art of Almost sembra il commento sonoro della splendida cover, ed è messo lì apposta per far infuriare i fan più intransigenti. Parte martellando fra strani rumori e disturbi di frequenza, sembra un pezzo dei Radiohead impreziosito però dalla drammatica voce di Tweedy, capace di trasformarlo in un pezzo struggente, prima che la coda strumentale sopraggiunga a spazzare via ogni cosa.


Divertente poi spostarsi al singolo I Might, in fibrillazione su di un'organetto sixties e un ritmo insistente, prima avvisaglia della sostanziale allegria che permea tutto l'album. Anche se, come piace a me, siamo nella politica del fare del brano più debole il singolo. Sulle stesse coordinate anche Dawned On Me, brano danzereccio dal ritmo trascinante, che di sicuro non proviene da questo secolo, portatore di un'energia rara. Sunloath è l'intermezzo di quiete che li separa e introduce alla seconda dimensione dei Wilco, quella delle meditazioni per voce più band del Tweedy ispirato. Ma al contrario di questo singolare esemplare, rientrano perfettamente nella categoria Black Moon e Rising Red Lung, giocate sul filo degli accordi, appena accennati, carezzati da una morbida e sinuosa chitarra steel.
Con Born Alone facciamo un salto negli anni '90, a degli ipotetici Wilco boy band, brufolosi geni incompresi rinchiusi a suonare nel garage di casa. Sventagliate di chitarra vanno a delineare forme e voci che danzano con le parole di Tweedy, attorno ai suoi testi, da sempre la vera struttura di ogni brano della band. Standing O è certamente il pezzo più scatenato del disco, lontanissimo anni luce da qualsiasi cosa di Woody Guthrie i ragazzi di Chicago abbiano mai suonato. Voce effettata, elettronica, campionamenti: gli attrezzi per tornare ancora una volta indietro di qualche decennio, in cerca di luoghi mai praticati. Open Mind invece ha l'onere più delicato agli occhi dei fan, abituati a godere di almeno una grande ballata rock in ogni lavoro dei Wilco. Il pezzo fa molto bene il suo dovere, con delicata profondità, assumendo la statura di memorabile nel non facile campionario di tristi storie narrate da Tweedy. È come se per tutto il resto del tempo avesse giocato, e qui avesse deciso di fare le cose seriamente. Una canzone dai toni crepuscolari, da chi sa farne, a chi vuole ancora ascoltarne.



Whole Love non ha la pretesa di durare come le due cornici del lavoro a cui dà il nome, ma è probabilmente il pezzo più elaborato e armonicamente complicato. Le note dialogano, saltano insieme, superano indenni cambi di ritmo e si stendono al di sotto dell'insolito falsetto di Tweedy. In soli 3 minuti e 49 secondi un piccolo e ispirato ritratto della delicatezza.
Poi si arriva alla fine, senza aver ancora capito se si preferisca il disco precedente del 2009, e ci si trova al cospetto di One Sunday Morning (Song For Jane Smiley's Boyfriend), titolo chilometrico per questi infiniti 12 minuti. Il labirinto nel quale siamo stati nelle precedenti undici tracce ci porta all'uscita, non era un sogno, non era qualcun altro. Erano proprio loro. Questa è una canzone che ha il marchio Wilco stampato a fuoco nella sua anima delicata di note e parole sussurrate. Quando una band trova un suo, proprio suono, eccolo emergere già dal primo accenno. Canzone di Dylaniana maniera, dove frasi e pensieri sciolti scivolano su un tappeto sonoro sempre uguale e sempre vario. Quei lunghi sogni che accompagnavano anche i Counting Crows nei verdi pascoli della musica senza schemi e doveri, fondata soltanto su trasparenti nuvole di pianoforti e chitarre.
Eccolo qui, TUTTO L'AMORE dei Wilco, che più palese non si può: l'amore per la libertà, di cui la musica  è strumento e interprete.

lunedì 5 settembre 2011

Lanterna Verde

Il film Lanterna Verde è una merda.
La recensione potrebbe finire qui, e sarebbe un colpaccio, ma voglio almeno fare finta di fare le cose per bene. Il motivo per cui questo film, costato la bellezza di 150 milioni di dollari, fa così cagare, è che semplicemente non è cinema.
Diciamolo meglio (come ripete sempre il professor Alonge Senior): per fare un film (o qualsiasi altra cosa) serve un'idea. E l'idea non può essere: facciamo un film tratto da Lanterna Verde, dai! Le vicissitudini produttive parlano chiaro, prima doveva essere una commedia d'azione con Jack Black (!!!) poi hanno declinato l'offerta di dirigerlo centocinquantamila registi, poi un tizio ha scritto una trama che prevedeva la Justice League al completo (quegli stronzi della Marvel invece, per arrivare al film dei Vendicatori, ne hanno fatti 15 prima. Babbi, bastava chiamare Corey Reinolds (chi?) (appunto...)).

Blake Lively, l'unica cosa bella
del film
Finalmente una bella pensata, affidare la sceneggiatura a Greg Berlanti, Micheal Green, Marc Guggenheim e Micheal Goldenberg. Si sa che più si è più viene bello vero? Peccato che Omero sia morto, sennò... Comunque, il primo è uno che ha sempre scritto delle serie televisive una più melensa e patetica dell'altra, come Everwood, Brothers & Sisters, Eli Stone (e poi, rimanga fra noi, è pure gay!!!); il secondo è compare di vecchia data del primo, per cui oltre a quella bella sfilza di titoli aggiungete pure il vomitevole Heroes e lo stucchevole Smallville. Yum... cominciate a sentire il profumino? Goldenberg ha scritto il Peter Pan del 2003 e uno degli Harry Potter (quale? non sono tutti uguali?) e Guggenheim, oltre ad essere un famoso museo, è un altro dei collaboratori televisivi di Berlanti che da alcuni anni ha deciso di portare la sua insipienza nel mondo dei fumetti, scrivendo (male) Wolverine, Flash, Spider-man e Superman.
Geoff Johns invece, uno dei più dotati sceneggiatori di fumetti in circolazione, è stato invece limitato ad un ridicolo ruolo di produttore per questo film, vale a dire: leggete i titoli di coda, c'era anche lui, contenti?
Per farla breve, i quattro hanno scritto un'enorme cazzata, che un regista come Spielberg avrebbe bruciato ordinando di rifarla da capo, magari a uno capace. Invece a Martin Campbell, da onesto mestierante qual'è, è andata bene così. Perciò hanno preso il figo Reynolds e l'hanno buttato in un marasma di effetti digitali neanche tanto da buttare. E così sfumano 150 milioni di dollari (roba che in Italia ci giravano centocinquanta film) in un pastrocchio che sta floppando e che non sta piacendo a nessuno (nessuno che abbia i neuroni intendo, forse sollazzerebbe la vostra collezione di minerali).
Perciò, riassumendo, Lanterna Verde non è un esemplare di ciò che amiamo chiamare cinema. È un giocattolo stupido e rumoroso, irrispettoso del personaggio e degli spettatori. Rifugge a ciò, che da quando il Cinema esiste gli artisti provano a fare: veicolare qualcosa. Nella sua mediocrità rifugge alla peculiarità primaria che il Cinema si prefigge, che non è stupire con i pianisequenza, ma emozionare.

Così, vediamo cosa potreste fare invece di andare a vedere Lanterna Verde:
-dormire
-comprare un fumetto di Lanterna Verde e leggerlo. Vi assicuro che non è pericoloso. Magari questo.
-leggere tutti gli articoli di questo blog e farlo conoscere a tutti gli amici e ai parenti, compresa la zia concetta
-potreste smetterla di votare Berlusconi
e (ma solo per i residenti a Torino) potreste andare a vedere le retrospettive di Jarmusch e Almodovar, oppure, beneficiando del fatto che in Piemonte è presente una delle tre (-3-) sale che lo trasmettono, intercettare Singolarità di una ragazza bionda. Il penultimo film dell'ultracentenario Manoel De Oliveira.

Ora, se volete davvero leggere una buona recensione di Green Lantern, eccola qui.

domenica 4 settembre 2011

Good Song

Continuiamo con i Blur? (Sì, farò finta di niente del fatto che per tutto agosto il blog non è stato aggiornato)
Ok. Continuiamo con i Blur.


Good Song (no non è un giudizio) (ahah!) è stato l'ultimo singolo dell'ultimo album della band, nell'anno del Signore 2003, precisamente il 6 ottobre. L'ultima impronta lasciata dalla formazione di Damon Albarn in un periodo di incomprensioni e confusione, tanto che l'intero Think Thank (l'album con la famosa copertina di Banksy) ha visto la partecipazione dell'indimenticato Graham Coxon soltanto nell'ultima (questa sì, dimenticabile) canzone: Battery in your leg.
Ma dato che sono cose di cui abbiamo già parlato, io direi di concentrarci sul video. Probabilmente l'avete detestato. Oppure l'avete adorato. Beh in ogni caso sappiate che dovete prendervela/ringraziare il britannico artista visuale David Shringley e l'altrettanto britannico collettivo denominato Shynola.

Il primo è un estroso illustratore, cartoonist, scrittore, musicista, attivo (come del resto risulta evidente) in molteplici campi, piuttosto noto e apprezzato in patria; mentre i secondi sono ex studenti del Kent Institute of Art & Design che hanno scoperto l'amore per il videoclip e lo short video in generale, lavorando per musicisti come Radiohead, Morcheeba, Beck, Queens of the stone age, Coldplay, ma anche per Nike, Footlocker e Play Station 2. L'ultima loro opera in ordine di tempo è stata la stupenda sequenza dei titoli di testa di Scott Pilgrim vs. the world del genio Edgar Wright. Film che qui, come ben ricorderete, è stato adorato.



Waiting, I got no town to hide in
The country's got a hold of my soul
TV's dead and there ain't no war in my head
And you seem very beautiful to me

Sleeping but my works not done
I could be lying on an atom bomb
I'll take care
Cause I know you'll be there
You seem very beautiful to me

It is the rest of your life keeps a rolling and rolling
Picture in my pocket looks like you
It is the rest of your life keeps a rolling, rolling, rolling along