giovedì 24 gennaio 2013

Django Unchained

Premetto che questa non vuole essere una recensione ma una sorta di analisi, perché ormai credo sia molto più utile discutere di un'opera piuttosto che giudicarla o classificarla. E poi, anche perché su questo film è già stato scritto e detto tutto da chiunque, perciò l'unico modo di approcciarsi ora è quello di provare a farlo in modo diverso.
Quindi, il motivo per cui mi dedico a queste righe è per costruire un discorso che provi a essere utile in un senso più ampio e generale, e soprattutto per mettere in ordine qualche mia idea sul cinema.

Comunque sia, il testo che segue è pieno di spoiler.

Allora, io dico che nell'universo esistono due modi di organizzare il racconto: quello basato sul PERSONAGGIO e quello basato sulla STORIA. Tarantino è uno scrittore di personaggi (ed è in buona e nutrita compagnia, pure). Rincaro la dose affermando che è oltretutto un pessimo scrittore di SOGGETTI ma uno stratosferico scrittore di SCENEGGIATURE. Dopotutto, la stragrande maggioranza delle trame dei suoi film sono riassumibili in una manciate di parole, spesso in una sola: vendetta.
Tarantino non sa (o forse non vuole) esplorare forme complesse di narrazione, ed è costretto a dividere i suoi film in capitoli, segmenti, scene allungate e chiuse in camere stagne. D'altro canto padroneggia in modo straordinario e unico quelli che sono i suoi pochi strumenti: il dialogo, il flashback e la costruzione della suspense (hai detto cazzi). Più che un romanziere, è un drammaturgo teatrale.
In Tarantino nasce prima il personaggio, la sua caratterizzazione ed il suo passato, e sono questi elementi a determinare poi il mondo intorno ad esso.
Non esiste mai epica nelle sue storie (men che meno in Django) perché nella sua opera le storie non possiedono i personaggi e li trascinano via come accade nell'epica. Bastardi Senza Gloria è un film magnifico perché parla di guerra senza mai effettivamente mostrarla, ma mi spingo a dire che Tarantino non avrebbe saputo mostrarla neanche volendo. È sempre la sua grande intelligenza a fare di necessità virtù, scegliendo di piegare qualsiasi genere narrativo al terreno in cui esercitare i suoi strumenti (di cui sopra). Non fa eccezione Django Unchained, che è un western non più di quanto sia una commedia o uno scanzonato buddy film.
Dell'annunciato intento di essere uno spaghetti western mantiene la promessa soltanto nella cornice e nello spunto di base. I titoli di testa e di coda sono effettivamente figli di Corbucci, così come l'ultimissima scena, dove Django fa il califfo con il cavallo davanti alla sua principessa liberata, sancendo la sua definitiva incoronazione a "pistola più veloce del sud", come preannuncia il paterno Dr. Schulz nell'onirico flashback. Django Unchained racconta quindi, in definitiva, la nascita di una leggenda, ed in questo è assolutamente uno spaghetti western. Solo che nel raccontarla, il film si nutre di qualsiasi suggestione abbia sfiorato il suo autore. Ha così parte preponderante la componente di blaxpoitation, genere molto amato da Tarantino, che unendo quello stile alla tematica della schiavitù compie una commistione molto intelligente e azzeccata. Un matrimonio che trionfa anche nella scelta delle musiche hip-hop, ideale proseguimento di quella cultura nera di oppressione. 
La struttura portante è invece palesemente figlia dell'epica dei Nibelunghi, raccontata al regista dallo stesso Christoph Waltz in un modo che possiamo immaginare non dissimile a quello in cui il suo personaggio la racconta a Django nel film.
Su una cosa però mi sento di dire che Spike Lee aveva ragione, se non altro, nel dubitare: la delicatezza di Tarantino nel trattare un argomento come la schiavitù. Del resto la realtà del nazismo, nel suo film precedente, fra mazze da baseball in testa, esplosioni e corpi disintegrati, non era stato preso nel modo più delicato possibile. Tarantino ha le mani pesanti, e nonostante in entrambi i film, sia il nazismo che la schiavitù vengano descritti come due mali assoluti e bestiali, qualsiasi discorso morale scade terribilmente quando la violenza viene così estremizzata, spettacolarizzata e resa "cool" agli occhi del pubblico. Ed è un vero peccato che Tarantino non riesca mai a fermarsi un passo prima di esagerare nello scherzo, fino a renderlo di cattivo gusto, perché i suoi film lo meriterebbero. Come meriterebbero più attenzione sul lato emotivo.
A voler essere sinceri, quanta è l'emozione profonda che scaturisce da questo film? Possiamo dire di esserci veramente appassionati alla missione di Django o, financo, al suo personaggio? La mia impressione è che allo spettatore dispiaccia molto di più veder sparire ad un certo punto il Dr. Schultz venendo privati della sua simpatia.
A questo punto trovo molto più onesta ed originale un'operazione come Kill Bill, in cui qualsiasi pretesa narrativa viene dichiaratamente accantonata per proporre due film che sono un ininterrotto susseguirsi di combattimenti e dialoghi. Dove l'identificazione è impossibile e non richiesta, e dove lo spettatore è sapientemente ridotto ad osservatore della serie di colpi di scena con cui prosegue la storia. Kill Bill è insomma davvero un innovativo esperimento, un film fatto quasi esclusivamente di un immenso e stupefacente lavoro di regia.
Perché io sono assolutamente convinto che Tarantino sia decisamente migliore come regista che come sceneggiatore. Il motivo è semplice: ben pochi possono vantare la sua intelligenza e sapienza registica. Affidando il lavoro sull'immagine ad un direttore della fotografia come l'immenso Robert Richardson, Tarantino si occupa di finissime costruzioni di sequenze sempre più pirotecniche. Formidabile direttore d'attori, tutti quelli che sono passati nei suoi film hanno avuto la parte della vita. In Django la qualità recitativa tocca le stelle, e non soltanto il meritevole Waltz, ma sicuramente anche Leonardo DiCaprio e 
Samuel L. Jackson meritavano una candidatura agli oscar.
Quello che separa un film, che in definitiva è un semplice action movie (così come in passato abbiamo avuto un film di rapina, un film gangster, un film di guerra, ecc.), dagli altri del genere, è proprio la sua sopraffina regia, visionaria, solida, tecnicamente perfetta e "giusta" in ogni occasione. Perché tutti i discorsi fatti fin qui stanno a zero durante le tre ore circa di visione in cui non ci si stanca mai e non ci si annoia un secondo. Perché Django Unchained è puro cinema, da guardare con i pop-corn. Perché il finale ti strappa l'applauso dalle mani. Perché è bello e molto, molto divertente.
Ma diamo alle cose il giusto valore, e soprattutto non stravolgiamo il senso delle parole. Una volta il "capolavoro" era il film che ti cambiava la vita.

domenica 20 gennaio 2013

Museo del fotogramma 31


South Park: il film - Più grosso, più lungo & tutto intero (South Park: Bigger, Longer & Uncut)

di Trey Parker
USA, 1999

lunedì 7 gennaio 2013

The Master



Com'è The Master?
Molto bello, ma un po' pesante. Ovvero...

Come in tutti i film di Anderson, l'inizio è di straordinaria bellezza, poi da quel picco il film ha la tendenza a discendere lentamente fino a smarrirsi un poco. La difficoltà nel girare con cineprese più grandi per poter utilizzare la pellicola di 70 mm lo rende un film più statico dei suoi precedenti, ma l'acquisita profondità di campo di tale tecnologia dona una forza ancora maggiore alle sue inquadrature.
L'autocompiacimento di Anderson nei confronti delle sue immagini può arrivare all'eccesso, ma ci sono alcuni punti (come l'importantissima scena delle motociclette o quella della fuga di Freddie nel campo coltivato) dotate di un impatto visivo veramente unico nel panorama del cinema contemporaneo.

C'è la forte possibilità che, intervistando la gente fuori da un cinema in cui hanno appena proiettato The Master, ci si possa imbattere in gente delusa e/ piuttosto irritata. Perché tutto ciò?
Principalmente perché The Master è un film diverso dagli altri. È un film d'autore, prima di tutto, e in questo caso di un autore ermetico, intransigente e che non ha molta considerazione dello spettatore e dei suoi desideri. Ad Anderson non importa darvi quello che vi aspettate o pensate o cercate fortemente in un film. Per lui il cinema è un veicolo, un modo di raccontarvi le cose che stanno nel suo cervello. Stop.
E nel suo cervello ci sono concetti, suoni, visioni e suggestioni in ordine sparso, che concorrono a formare l'esperienza sensoriale che lui chiama cinema. L'immersione e l'abbandono nell'unicità del suo sguardo è proprio il motivo del grande fascino delle sue opere. Anche qui, come ne Il Petroliere, Anderson si è disinteressato completamente della classica e confortevole struttura in tre atti in cui noi spettatori amiamo crogiolarci e sentirci al sicuro, ed è questa, ve l'assicuro, la ragione per la quale lo si percepisce così alieno ed ostico.
La struttura libera, ariosa, in cui si muovono i suoi personaggi (due giganti di carta e parole che diventano due giganti di carne ed ossa quando vengono indossati dai meravigliosi, estremi, Phoenix e Hoffman) è la cosa più spaventosa e indigesta per lo spettatore medio-non abituato.
Nel cinema di Anderson non c'è un approdo, non si parte da una situazione per affrontarne un'altra e infine giungere ad una terza, dove la parola FINE giunge a rispedirci belli soddisfatti alle nostre case. Qui, i personaggi non evolvono, non migliorano, non imparano dai loro errori, non muoiono e non tutto quel che dicono è interessante, furbo o importante.
Quello di Paul Thomas Anderson è un cinema libero. Libero nella narrazione, nei tempi, negli spazi, nel ritmo. Ed è la cosa migliore che possa capitare ad un pubblico addomesticato come quello che popola le nostre sale. Questo per dire che se The Master non vi è piaciuto, amen, de gustibus, ma se vi ha irritato, il problema è soltanto vostro.
Detto questo, la bellezza della costruzione di questo cammino vago e incerto pensato per il film, risiede proprio nell'apertura ad ogni possibile interpretazione del rapporto fra Freddie e Lancaster che domina la visione.
È certamente presente una certa critica alla religione, ai culti, alla necessità tutta umana del dover credere in qualcosa. La fragilità dell'uomo, bisognoso di doversi affidare a divinità, maestri, guide spirituali. Emblematico in questo senso tutto il dialogo finale, in cui una frase chiave di Lancaster sfida Freddie a cercare in tutto il mondo un uomo che non abbia bisogno di un Dio.
Proprio questa ricerca sembra essere il motore del comportamento del deviato Freddie, creatura animalesca, spinta soltanto dagli istinti più bassi dell'uomo, che trova nel Maestro... un Padrone. Freddie viene istruito e addomesticato (mi ripeto non a caso), ma la sua natura prevale sempre, ed il meraviglioso finale ciclico sta lì a dimostrarlo. La cura non ha funzionato, Freddie prosegue la sua ricerca di qualcosa che non è nient'altro che una piccola dose d'intimità, dolcezza, umanità. E l'ultima inquadratura è da sola un'incantevole emblema di un personaggio che rappresenta in modo sublime il volto dell'infinita sofferenza dell'uomo. Di ogni uomo.
Contemporaneamente, Anderson si dedica al Maestro, uomo opposto e speculare al suo selvaggio allievo. Lancaster Dodd mangia e beve in abbondanza, ha una bella famiglia e molta gente che lo ama, ma nel profondo sa che il suo insegnamento e la sua dottrina sono fasulli e posticci. Il suo stesso figlio sa che le sue parole sono invenzioni che gli garantiscono una vita agiata. Ma ogni oppositore è per lui frutto di sofferenza, ogni obiezione viene respinta a fatica. Per questo Freddie è così affascinante per lui, ed il loro rapporto è così vitale. Freddie non si può addomesticare, la prevalenza dell'istinto in lui lo rende inafferrabile, sfuggente agli occhi e all'abbraccio di Lancaster. I due hanno bisogno l'uno dell'altro, ed in qualche modo amano quello che rispettivamente vedono, ma le loro nature continuano a respingerli, e le loro strade sono destinate a non congiungersi mai. Ed è questo probabilmente il senso più intimo e profondo del film: la struggente storia d'amore fra due esseri umani su due pianeti diversi.
The Master sì, è un po' pesante quindi, ma probabilmente non poteva essere raccontato con la stessa efficacia in un altro modo.