lunedì 7 gennaio 2013

The Master



Com'è The Master?
Molto bello, ma un po' pesante. Ovvero...

Come in tutti i film di Anderson, l'inizio è di straordinaria bellezza, poi da quel picco il film ha la tendenza a discendere lentamente fino a smarrirsi un poco. La difficoltà nel girare con cineprese più grandi per poter utilizzare la pellicola di 70 mm lo rende un film più statico dei suoi precedenti, ma l'acquisita profondità di campo di tale tecnologia dona una forza ancora maggiore alle sue inquadrature.
L'autocompiacimento di Anderson nei confronti delle sue immagini può arrivare all'eccesso, ma ci sono alcuni punti (come l'importantissima scena delle motociclette o quella della fuga di Freddie nel campo coltivato) dotate di un impatto visivo veramente unico nel panorama del cinema contemporaneo.

C'è la forte possibilità che, intervistando la gente fuori da un cinema in cui hanno appena proiettato The Master, ci si possa imbattere in gente delusa e/ piuttosto irritata. Perché tutto ciò?
Principalmente perché The Master è un film diverso dagli altri. È un film d'autore, prima di tutto, e in questo caso di un autore ermetico, intransigente e che non ha molta considerazione dello spettatore e dei suoi desideri. Ad Anderson non importa darvi quello che vi aspettate o pensate o cercate fortemente in un film. Per lui il cinema è un veicolo, un modo di raccontarvi le cose che stanno nel suo cervello. Stop.
E nel suo cervello ci sono concetti, suoni, visioni e suggestioni in ordine sparso, che concorrono a formare l'esperienza sensoriale che lui chiama cinema. L'immersione e l'abbandono nell'unicità del suo sguardo è proprio il motivo del grande fascino delle sue opere. Anche qui, come ne Il Petroliere, Anderson si è disinteressato completamente della classica e confortevole struttura in tre atti in cui noi spettatori amiamo crogiolarci e sentirci al sicuro, ed è questa, ve l'assicuro, la ragione per la quale lo si percepisce così alieno ed ostico.
La struttura libera, ariosa, in cui si muovono i suoi personaggi (due giganti di carta e parole che diventano due giganti di carne ed ossa quando vengono indossati dai meravigliosi, estremi, Phoenix e Hoffman) è la cosa più spaventosa e indigesta per lo spettatore medio-non abituato.
Nel cinema di Anderson non c'è un approdo, non si parte da una situazione per affrontarne un'altra e infine giungere ad una terza, dove la parola FINE giunge a rispedirci belli soddisfatti alle nostre case. Qui, i personaggi non evolvono, non migliorano, non imparano dai loro errori, non muoiono e non tutto quel che dicono è interessante, furbo o importante.
Quello di Paul Thomas Anderson è un cinema libero. Libero nella narrazione, nei tempi, negli spazi, nel ritmo. Ed è la cosa migliore che possa capitare ad un pubblico addomesticato come quello che popola le nostre sale. Questo per dire che se The Master non vi è piaciuto, amen, de gustibus, ma se vi ha irritato, il problema è soltanto vostro.
Detto questo, la bellezza della costruzione di questo cammino vago e incerto pensato per il film, risiede proprio nell'apertura ad ogni possibile interpretazione del rapporto fra Freddie e Lancaster che domina la visione.
È certamente presente una certa critica alla religione, ai culti, alla necessità tutta umana del dover credere in qualcosa. La fragilità dell'uomo, bisognoso di doversi affidare a divinità, maestri, guide spirituali. Emblematico in questo senso tutto il dialogo finale, in cui una frase chiave di Lancaster sfida Freddie a cercare in tutto il mondo un uomo che non abbia bisogno di un Dio.
Proprio questa ricerca sembra essere il motore del comportamento del deviato Freddie, creatura animalesca, spinta soltanto dagli istinti più bassi dell'uomo, che trova nel Maestro... un Padrone. Freddie viene istruito e addomesticato (mi ripeto non a caso), ma la sua natura prevale sempre, ed il meraviglioso finale ciclico sta lì a dimostrarlo. La cura non ha funzionato, Freddie prosegue la sua ricerca di qualcosa che non è nient'altro che una piccola dose d'intimità, dolcezza, umanità. E l'ultima inquadratura è da sola un'incantevole emblema di un personaggio che rappresenta in modo sublime il volto dell'infinita sofferenza dell'uomo. Di ogni uomo.
Contemporaneamente, Anderson si dedica al Maestro, uomo opposto e speculare al suo selvaggio allievo. Lancaster Dodd mangia e beve in abbondanza, ha una bella famiglia e molta gente che lo ama, ma nel profondo sa che il suo insegnamento e la sua dottrina sono fasulli e posticci. Il suo stesso figlio sa che le sue parole sono invenzioni che gli garantiscono una vita agiata. Ma ogni oppositore è per lui frutto di sofferenza, ogni obiezione viene respinta a fatica. Per questo Freddie è così affascinante per lui, ed il loro rapporto è così vitale. Freddie non si può addomesticare, la prevalenza dell'istinto in lui lo rende inafferrabile, sfuggente agli occhi e all'abbraccio di Lancaster. I due hanno bisogno l'uno dell'altro, ed in qualche modo amano quello che rispettivamente vedono, ma le loro nature continuano a respingerli, e le loro strade sono destinate a non congiungersi mai. Ed è questo probabilmente il senso più intimo e profondo del film: la struggente storia d'amore fra due esseri umani su due pianeti diversi.
The Master sì, è un po' pesante quindi, ma probabilmente non poteva essere raccontato con la stessa efficacia in un altro modo.

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