martedì 30 novembre 2010

Ve l'avevano detto che si sentivano poco bene

Tenendo ben presente che non c'entrano niente l'uno con l'altro, che siamo su pianeti completamente differenti, e che l'unica cosa che li accomuna è il periodo di morte.
Ora, se delle persone passano tutta la vita cercando di farci ridere, forse il modo migliore di salutarle è con un sorriso.

Leslie William Nielsen, 11 febbraio 1962 - 28 novembre 2010




Mario Monicelli, 16 Maggio 1915 - 29 novembre 2010




Irvin Kershner, 29 aprile 1923 - 29 novembre 2010 (lui non cercava di farci ridere, però ha diretto l'episodio più bello)





venerdì 26 novembre 2010

Noi ci crediamo

Sarò breve. Incredibilmente, per un film di tre ore, non c'è molto da dire. Noi Credevamo è la storia (s) di tre ragazzi del sud, divisa in quattro capitoli, sullo sfondo del Risorgimento, usata come pretesto per raccontare la Storia (S). Domenico, Angelo e Salvatore si affiliano alla Giovane Italia e cominciano, ognuno a proprio modo, a combattere per l'unità d'Italia. I loro (tragici) destini li porteranno lontani, a vivere varie situazioni della lotta, e li metteranno in contatto con le grandi personalità rivoluzionarie: Mazzini, Garibaldi e Cavour (anche se il primo viene centellinato, e degli ultimi due si percepiscono soltanto la vaghe ombre).
Presentato a Venezia ma distribuito in pochissime sale, il film gode della buona recitazione dell'intero cast (fra gli altri Luigi Lo Cascio, Francesca Inaudi, Michele Riondino, Alfonso Santagata, Luca Zingaretti, Carlo Poerio, Anna Bonaiuto, Luca Barbareschi e... lo vogliamo dimenticare? Tony Servillo nel ruolo di Mazzini), di un'ottima fotografia, splendidi trucchi e costumi, e trova la sua dote migliore nella colonna sonora, consistente in musiche di Verdi, Puccini, Donizetti e altri compositori italiani, dirette dal maestro Abbado.
Allora è bello? No.
Purtroppo, le pecche stanno nelle cose più importanti, sceneggiatura e regia. La prima, ad opera di Mario Martone e Giancarlo De Cataldo, tratta dal libro di Anna Banti, manca di chiarezza ed equilibrio, peccando in dispersività. Anche e soprattutto per via della scelta dell'impianto narrativo, soltanto in rari casi ci si stacca dalla dimensione della fiction televisiva, per assaporare momenti distillati di cinema purissimo. Martone poi, pone la cinepresa con poca inventiva, poca dinamicità e voglia di stupire, anche nelle scene più spettacolari; il suo lavoro rimane così nel campo del funzionale, mancando di personalità, e sostanzialmente, di anima.
Allora fa schifo? Nemmeno.
La verità è che questo è un film importante, a prescindere da meriti e pecche. Un film ambizioso, il cui merito più grande sta nell'idea. Come i grandi sceneggiati Rai, tipo il Cristoforo Colombo di Lattuada, con attori veri, di teatro, e uno sforzo produttivo ingente. Non è perfetto, va bene, si dilunga e ha parecchie fasi di calo evidente, ok, e in più gli manca una mezz'ora tagliata, che verrà sicuramente ripresa nel passaggio in TV all'orizzonte, magari in due puntate. Ma bisogna trattarlo con l'indulgenza che si riserva ad una creatura delicata, un bambino appena nato. Il cinema italiano non è più abituato a queste cose, e ci sta l'imperfezione, l'errore, il fatto di mostrare Mazzini vecchio anche da giovane, o le strutture in cemento armato. C'è l'intensità, la passione, gli spunti al presente, tutte cose che contano di più, e che fanno ben sperare. Se non è venuto al meglio questo, sarà per il prossimo, o il prossimo ancora. Meglio cento tentativi sinceri, e sbagliati, di un film come quello qui sotto. Dall'errore si può sempre imparare, dall'orrore c'è solo da fuggire.
Se questa settimana avete intenzione di andare al cinema e di scaricare un film, andate a vedere questo, e scaricatene uno americano, che non ha bisogno dei vostri soldi. Perdonate l'impulso patriottico, forse scaturito proprio dalla visione chissà, ma: sosteniamo il buon cinema italiano!

Non sono stato breve...

Spirito Natalizio

Laddove con spirito si intende anche l'umorismo, e quindi quale miglior film?
Oggi esce A Natale mi sposo, la nuova spassosissima pellicola con Massimo Boldi, Er Cipolla, Massimo Ceccherini, Vincenzo Salemme e persino Elisabetta Canalis! Ovviamente è imperdibile (non come quella gran noia di Precious), quindi volevo farvi gustare il trailer. C'è un piccolo problema però, non riesco a riconoscerlo.




domenica 21 novembre 2010

Il mondo contro Scott Pilgrim
























PREMESSA

Allora, oggi sono andato a vedere questo film in Vietnam... no scusate, non era il confine cambogiano, era il torinese. Comunque, dopo tanta (ma tanta) acqua arrivo al cinema, dove trovo una coda infinita. Beh certo, è uscito Harry Potter... mica ciufole.
Tocca a me:
-Ciao, uno per Scott Pilgrim
-Per cosa??
-Scott...Pilgrim...versus...the world... (sguardo perplesso)
-Ma quando inizia? (pure lei)
-Ehm... adesso... (occhi che guardano da una parte all'altra, cercando aiuto)
Ok, ce la facciamo, mi dà il biglietto e mi dirigo trottando all'ingresso della sala in questione, ma ahimé, nessuno che possa strappare il biglietto. Disperazione, corro all'altra ala del multisala.
-Ciao, per la sala 5?
-Eh devi andare di là
-Eh ma... non c'è nessuno
-Ah
In quel momento un ominide spunta accanto al meccanismo che occlude l'ingresso dalla parte opposta, una seconda corsa mi riporta da lui.
-Posso aiutarti?
-Mah... dovrei entrare
-Dove?
-Lì
-Ah... ma è già iniziato eh
E invece no, perché quando entro c'è ancora la pubblicità, e la sala vuota, e mi siedo dove mi pare, e mi diverto a immaginare gli altri stipati nelle sale a fianco che non possono neanche appoggiare l'ombrello, ah ah! E che Dio benedica sempre il personale del multisala che non sa quello che accade nel proprio cinema.
Dopo un po' arrivano tre ragazzi che si comporteranno egregiamente, tre figliole che cincischieranno un pochino, lassù in cima, e un gruppetto di infanti balordi casinisti venuti soltanto a mangiare i pop-corn. Ma quel Dio di cui blateravo poc'anzi farà sì che lasceranno la sala dopo soltanto un quarto d'ora, delusi, ma già privati di ben otto euri. Sempre sia lodato.

FINE PREMESSA

Ma veniamo alla pellicola in questione, che è una meraviglia (in ogni senso possibile della parola), sin dal rimaneggiamento del logo iniziale della Universal.
Ci sono film che richiedono uno sforzo allo spettatore, una partecipazione attiva all'opera, un'attenzione particolare ed un lavoro intellettuale su ciò che viene mostrato. Bene, questo è completamente all'opposto (ma in senso buono, non come per le robe di Boldi). Si tratta di un film che bisogna subire, e a cui bisogna approcciarsi facendo proprio in modo assoluto il concetto di sospensione dell'incredulità. Niente vi può preparare a quello che vedrete, non guardate il trailer per non rovinarvi la sorpresa, e lasciate perdere la trama, che tanto non vi direbbe nulla. Limitatevi a sapere che Scott Pilgrim, per poter stare con Ramona, deve prima sconfiggere la lega dei suoi sette ex fidanzati supermalvagi (sì, è un film di supereroi, non ve l'avevo detto?). Abbandonate il pensiero razionale e lasciatevi investire dal film più visionario dell'anno (con tanti saluti all'onirismo simmetrico di Inception e del suo regista-ragioniere). La fantasia, linguistica, narrativa, visiva e testuale, straborda dalle immagini in ogni scena, giocando sempre al rialzo. Vedrete lo schermo esplodere più volte ed espandersi sotto i vostri occhi, con buona pace del 3D e di quei cazzo di occhialini (scusate).
Edgar Wright, che è uno fra i più interessanti autori emergenti del momento, con all'attivo due titoli già di culto: L'alba dei morti dementi e Hot Fuzz, sfoga tutta la sua genuina visionarietà adattando per lo schermo un fumetto di Bryan Lee O'Malley che, parlandone, prende di mira il mondo indie e controcorrente dei giovani di Toronto. Crea un'opera fresca e originale, equilibrata nelle sue parti di sentimentalismo (sì, è un film romantico, non vi avevo avvertiti?) e di lotta violenta (no, scherzavo, è un film di azione), e scrive benissimo ad ogni livello (i dialoghi fra Scott e Ramona sono perfetti). La costituzione del film è comunque il puro divertimento, non solo nel senso ridanciano, ma nel vero significato dell'intrattenimento. Ci fa sorridere, ci appassiona, ci fa emozionare, ci trasporta in una dimensione ludica dove tutto è possibile. Attraverso un montaggio che elimina tutte le pause morte, e sfrutta ogni tipo di transizione per mantenere alto il ritmo, Wright (accodandosi all'intuizione del fumetto originale) sviluppa un vero e proprio videogioco in più livelli, dove l'obiettivo, come provano a fare in sala giochi Scott e Knives, è uccidere il boss finale, il ninja bianco. Gli effetti speciali sono semplicemente incredibili, e permeano ogni scena facendo entrare lo spettatore in un'esperienza pop senza precedenti.
Wright realizza un film difficilissimo, che uno come Terrence Malick ad esempio, avrebbe impiegato vent'anni a portare a termine (a proposito ci siamo quasi con Tree of Life), con una maestria unica e un'apparente facilità. Se non con questo, con il suo prossimo film, c'è da scommettere che entrerà prepotentemente nelle alte sfere del cinema mondiale.
Poi, se ancora non vi siete convinti ad andare a vederlo, sappiate che tutto il cast è eccellente (Brandon Routh che fa ancora superman soprattutto), e che le musiche sono di Nigel Godrich (il membro aggiunto dei Radiohead, sì) e questo dovrebbe bastarvi.
Ora, neanche a farlo apposta, scrivo queste mie righe subito dopo l'eccellente articolo del nostro membro più femminesco e aggraziato, sul rapporto fra letteratura e cinema. Ebbene, qui abbiamo il miglior tentativo di fusione fra fumetto, cinema e videogioco (occhio al titolo), sin qui mai visto. Il processo è iniziato con il tentativo di trasporre in modo fedele e pedissequo le meravigliose tavole originali di Frank Miller (ovvero Dio in terra) prima per Sin City (e non è un caso che Wright faccia capolino fra quelli che hanno contribuito a Grindhouse), poi per 300 (del secondo più grande regista visionario in circolazione, Zack Snyder), e infine per l'autografo Spirit, dove lo sperimentalismo visivo si spinge ancora un passo avanti. Ognuno di questi titoli meriterebbe (e chissà, forse avrà) un articolo per sé, ma la nostra veloce cavalcata ci porta fino ai fratelli Wachowski e al delizioso Speed Racer, che è un evidente modello per Scott Pilgrim vs. the world. Qui abbiamo per la prima volta le soluzioni narrative e di montaggio che caratterizzano anche questo film, il quale però abbandona il tono infantile (non è per bambini, è per giovani, di qualsiasi età) e si spinge ancora più in avanti nello spalmare un fumetto su uno schermo, riprendendo persino onomatopee e didascalie. Cinema del duemila, nuovo e originale, aperto agli stimoli di altre forme di comunicazione e media. Solido, colorato, vertiginoso e dinamico come un videoclip, sperimentale e folle. Cercate questo film e studiatelo godetevelo, perché fra tanti anni verrà ricordato come uno dei classici del cinema del futuro. Che vi piaccia o no.


giovedì 18 novembre 2010

I miei pregiudizi su:

LA NOIA


Secondo me, tra cinema e letteratura non c'è mai stata una vera lotta. Entrambe le arti convivono felicemente da più di un secolo, senza dare fastidio a nessuno (Brunetta escluso).
Eppure, ogni volta che esce un film tratto da un romanzo, novantanove spettatori su cento finiscono col paragonare le due opere. Il più delle volte escono dalla sala scontenti, dispiaciuti, adombrati e risentiti. (Ho trovato un dizionario di sinonimi straordinario, strepitoso, sensazionale)
In questi casi sembra che si vada al cinema soltanto per avere una conferma dei propri pregiudizi. Si spendono quei 5€  e quelle due ore di vita, solo per poter dire:  

Mi è piaciuto di più il libro.

Non vi fa venire i brividi lungo la schiena, questa frase? 
Io cado abitualmente in questa trappola, ma ora che ho compreso la gravità di quest'azione, posso finalmente fustigarmi/vi. 
Un romanzo non può (quasi) mai paragonarsi ad una sceneggiatura. Questo è il punto.

Non voglio dilungarmi sull'eterna questione - è meglio leggere prima il libro o la gallina?
perchè sarebbe inutile e dannoso. 
Il mio unico consiglio in proposito è quello di valutare le due opere singolarmente, lasciando da parte i paragoni insignificanti (nel libro il protagonista aveva un taglio di capelli diverso, il regista ha "dimenticato" di girare una scena fondamentale per me e mia sorella, non ci sono le note del testo a fondo schermo eccetera).

Guardando La Noia di Damiano Damiani mi è stato molto difficile non pensare alle parole di Moravia, agli ambienti, ai gesti e alle fisionomie che ormai avevo creato nella mia mente.
Senza queste creazioni mentali, il film potrebbe benissimo essere un'opera a sè, creata ex novo dal regista. A mio avviso manchevole, ma sicuramente diversa.

Il lettore che si appresta a leggere il romanzo probabilmente si aspetta di ricevere consigli per sconfiggere il grigiore quotidiano (io avevo preparato già le forbici dalla punta arrotondata e il cartoncino colorato), ed è per questo che fin dalle prime pagine viene precisato il significato che assume la parola noia per il protagonista. Un significato nuovo, che probabilmente non avevamo mai preso in considerazione.

«Per molti la noia è il contrario del divertimento; e divertimento è distrazione, dimenticanza. Per me, invece, la noia non è il contrario del divertimento; potrei dire, anzi, addirittura, che per certi aspetti essa rassomiglia al divertimento in quanto, appunto, provoca distrazione e dimenticanza, sia pure di un genere molto particolare. La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà»


Leggètelo, capre!





martedì 16 novembre 2010

Torino Best Soundtrack...

... è un bel concorso che si svolge a Torino (ma no!) in questo periodo. Questo sito e quest'altro possono dare informazioni dettagliate molto meglio di me. Mi limito qui a mostrarvi uno dei video che parteciperanno, e per il quale tifiamo.


Musica dei BpM
Montaggio di Michael Zuzzaro
Film di... beh... Tim Burton

venerdì 12 novembre 2010

Migrazioni



Oggi, fra gli altri, esce al cinema Stanno tutti bene, un film di Kirk Jones con Robert De Niro, Drew Barrymore, Kate Beckinsale e quel matto di Sam Rockwell. In America è già stato gustato e digerito, perché è uscito nel 2009, e probabilmente si trova già infilato in qualche collezione di DVD. Qua esce un anno dopo, perché non se lo volevano giocare come film di Natale, anche se siamo ancora a Novembre. Vabbè.
Il titolo originale è Everybody's Fine, e così lo chiameremo per non confonderci. Perché è il remake dello Stanno tutti bene di Peppuccio Tornatore, anno 1990, con Marcello Mastroianni (e gli altri non servono, che basta lui) e parleremo anche di questo.
In realtà io non parlerò di un bel niente, poiché stavolta sono solo un tramite. Ospito qui, nel mio modesto spazio, un intervento originale e certificato della nostra inviata in Inghilterra, Elena, che in quel di Salford ha compiuto un'analisi congiunta, intrecciata e sopraffina dei due titoli (se qualcosa non va è solamente colpa della mia asineria come traduttore).
Ok, silenzio in sala:

La storia di Stanno tutti bene è una buona rappresentazione dell'Italia di fine anni '80 e inizio '90, dove le differenze fra nord e sud sono piuttosto evidenti. Il film racconta il viaggio di un vecchio siciliano, Matteo Scuro, che va a trovare i figli sparsi in cinque diverse città: Napoli, Roma, Firenze, Milano e Torino. Purtroppo, ciò che scoprirà non era quello che si aspettava, ed il suo iniziale ottimismo svanirà lentamente lasciando il posto a delusione e scoramento.
Tornatore parla di un uomo semplice, di una volta, estraneo a molte delle dinamiche del mondo moderno, che tenta di combattere la solitudine in cui è piombato, facendo finta di vivere ancora con la defunta moglie. Uscendo dal mondo ristretto dove ha vissuto tutti gli anni nei quail ha lavorato, trova una società cambiata, dove le persone non comunicano più, tanto che per conversare è costretto a farsi fare delle domande che altrimenti non gli verrebbero poste. Le città sono popolate da pazzi, criminali e maleducati, e nessuno è disposto ad aiutare nessuno, in un mondo dove vige la legge del più forte. Anche i suoi figli non sono quelli che si aspettava, bugiardi, infelici, disinteressati, e anche con loro preferisce rivivere il passato, immaginandoli da piccoli, tutti assieme. L’unica persona con la quale stringe un legame positivo, è un’anziana signora che lo aiuta a riparare la foto di famiglia a cui tanto tiene, rovinata da un controllore. In lei trova uno spirito affine, che capisce lo spaesamento in cui si trova, e con la quale può condividere delle antiche abitudini. Il film è quindi anche un mezzo per comprendere il cambiamento dei tempi, ed il concetto di antico e moderno.
I luoghi sono molto significativi, più Matteo sale verso nord più accresce l’amarezza per ciò che il suo viaggio si sta rivelando. Un punto molto interessante, oltre alla storia principale, è la tematica della differenza fra nord e sud Italia, e come questo influenzi l'andamento del film e dei personaggi.  Le grandi metropoli si dimostrano affollate e inquinate, e le persone avvelenate dallo stress. La vita cui Matteo è abituato si trova completamente all'opposto, lui vive in un piccolo paesino periferico chiamato Castelvetrano, dove le poche anime si conoscono tutte. Gli abitanti delle città del nord sono più indaffarati, cinici, frenetici, e soprattutto indifferenti agli altri e ai loro problemi. In una scena Matteo viene derubato da un ragazzo, in una stazione, un luogo pubblico, ma nessuno interviene. Mastroianni rende in modo eccellente il modo in cui il personaggio rimane scioccato, non solo perché nessuno lo aiuta, ma soprattutto perché la persona che lo sta derubando è soltanto un ragazzino.
Alla fine emerge che i figli non gli hanno detto la verità riguardo l'andamento delle loro esistenze per non farlo stare in pensiero, cosa che lui disapprova. Però, una volta tornato a casa, facendo simbolicamente il resoconto all'anima di sua moglie, anche lui ometterà la verità, dicendo che stanno tutti bene, per l’assurdo motivo di non farla preoccupare.
Tornatore non offre una soluzione ai problemi che pone, e nemmeno un approdo sereno al suo personaggio, che in un finale amaro preferisce anche lui la menzogna, piuttosto che provocare dolore alla persona amata.
Anche in Everybody's Fine i figli del protagonista, che qui si chiama Frank Goode, vivono in città tutte diverse, ma il fatto che per raggiungerli viaggi in treno, e non in aereo, cosa che sarebbe molto più ovvia in spazi grandi come quelli dell’America, viene giustificata dalla malattia ai polmoni di Frank, la quale ci collega al suo lavoro: la creazione dei rivestimenti in pvc per le linee telefoniche. Simbolicamente quindi, mette in comunicazione tutte le persone lontane, proprio come lui e i suoi figli, e come le conversazioni telefoniche che questi ultimi fanno di nascosto.
Nella versione americana i personaggi perdono la loro valenza negativa, i figli non dicono la verità al padre non per cattiveria, ma perché neanche loro la conoscono.
Frank, come Matteo Scuro, ha fatto molti sacrifici per i suoi figli, e li ha sempre spinti a diventare il meglio, anche lui rimasto vedovo vive una vita sbilenca e nel passato, e si potrebbe dire che i due personaggi siano del tutto simili. Ma le similitudini fra i due film invece si fermano qui.
Anche Frank è un uomo di un altro tempo, ma si muove in modo meno impacciato di Matteo in quello che visita, forse anche perchè è migliore. Emblematica è la differenza nella scena della rapina in metropolitana. Mentre nell'opera di Tornatore ci sono un sacco di persone che ignorano il sopruso, qui avviene in solitudine, dove nessuno neanche volendo avrebbe potuto intervenire. È come se la stessa storia avesse una faccia diversa se ambientata in America o in Italia, tanto che qui riesce ad avere una fine positiva. Frank riuscirà ad appianare le divergenze e ad avere la famiglia al completo attorno a se, con i suoi problemi e le sue differenze. Forse anche per via dell’undici settembre, che ha avvicinato notevolmente gli americani, si è avuta una netta svolta nella concezione della nuova società. La vicenda trova una soluzione nella tolleranza, nel perdono e nella voglia di stare insieme.


Elena

giovedì 11 novembre 2010

Chissà che ci sto a fare...

Una piega sinistra sta prendendo questo Blog! Tutti scrivono quel che gli pare, si passa drasticamente da argmento ad argomento, non c'è religione, non esiste legge. Allora? Musica, montagna, cinema... più cinema che altro, ahimè, più cinema e musica che montagna. Fan tanto povero quegli articoletti alpinistici, sparsi quà e la in un mare d'altro.... ma vabè, questo non mi abbatte, anzi, inorgoglisce più che mai dando vero conto al club. Un vero cuore solitario, butumla parei! No! Con il titolo alludevo a ben altro, proviamo a distaccarci un poco dal quadro montano e gettiamoci nella mischia, senza però dimenticarlo, consentitemene. Di musica si parla sempre molto, chi non ama la musica. Poco si dice però, su quella espressa solo dalle voci, la musica chiamiamola, "vocale". Ed è un peccato. Essa è spesso tesoro d'un universo dal sapore antico, che di nota in nota, di voce in voce, si esprime in semplici storielle e allegre favolette, a volte anche acide, ma con sempre un velo di poesia quale una voce ben impostata difficilmente non concede. In questo campo si destreggia, ormai da più di 56 anni, uno dei più significativi gruppi coristici della regione Piemonte. La "Camerata Corale La Grangia", seguita dal suo attentissimo maestro Angelo Agazzani, ripropone qualcosa di più del semplice canto di montagna; scava nella cultura popolare, fa riemergere un patrimonio musicale che risale sino all'antichissimo, la vera storia d'una terra graffiata dall' inconfondibile dialetto neolatino, ma che nelle sue varianti riesce a trovare una dolcezza necessaria per il canto. A dare il giusto senso alla questione, sono le indimenticabili esibizioni, durante cui il maestro s'impegna a presentare ogni brano con una accurata, ma anche simpatica e a tratti scanzonata, spiegazione culturale. Da non dimenticare inoltre la grande dedizione dietro ad ogni album, veri scrigni di informazioni, riportate su chiarissimi libretti che finiscono con il compensare pienamente il contenuto del CD. Tuttavia, la dannazione di questi complessi, pare davvero sia quella di rimanere, non dico nell'ombra, ma destinata ad un pubblico sempre più di nicchia, perchè sempre meno sono quelli che l'apprezzano, che ne riconoscono il sapore antico. Perchè sempre meno sono gli antichi. E allora dai, su, noi che siamo giovani, il futuro, più che mai dovremmo apprezzare, conoscere, ma soprattutto portare alle orecchie di tutti chi s'impegna a non dimenticare il passato, le tradizioni che hanno fatto la nostra storia. Ed è proprio con una storia, una favola, ora provo a solleticare l'interesse di chi ancora non ce l'abbia (non mi banalizzo con un canto, troppo facile, anche perchè possono essere tranquillamente sentiti in anteprima sul sito). Leggenda d'avventura e amorosa, un anziano narra di "Gioanin sensa paura", un ragazzotto coraggioso e pronto ad affrontare, aiutato dalle sue bestie, un drago a sette teste per la mano d'una bela fija. Vi ho annunciato fin troppo, lasciamo voce a chi ne sa senz'altro di più... buon ascolto! PS. Il racconto è estratto dal terzo CD dell'album raccolta "Cantè Martina, Cantè j'euv Vije". Per la traduzione visionare a seguire.
CAMERATA CORALE LA GRANGIA "Giovannino senza paura" da (Cantè Martina, Cantè J'euv Vije)
C'erano un ragazzo e una ragazza, erano mancati il papà e la mamma, così il ragazzo ha detto «Tu sei una ragazza, in giro per il mondo trovi difficoltà... io ho meno problemi!» Avevano una casa e una cavalla, ciò che avevano lasciato loro in eredità. Ha trovato un accordo. Le ha detto « Io vado per il mondo, a cercare vibilità... mi prendo la cavalla. A te lascio la casa e gli appartamenti, un giorno troverai un ragazzo che ti sposi». Questi i contatti di divisione dell'eredità. E quest'uomo è partito... con la sua cavalla s'è diretto in paesi vicini. Si capisce era per strada, era un tempo secco... come c'è adesso e si è coricato sotto un albero... era insonnolito. S'è coricato lì, lui e la sua cavalla. Nella notte s'è accorto dell'arrivo di un ombra. Evidentemente c'era la luna chiara... ha visto giungere un ombra e... non è che abbia avuto paura, ma neanche tanto piacere eh!!! Come si usa dire. E' arrivato un cane, un grosso cane. Gli ha chiesto: « Oh! Cosa fai quì?» Gli ha risposto : «Io sono Giovannino, sono giovannino senza paura! « Io invece sono "Forte come la montagna!» un cane che si chiamava "Forte come una montagna « e ho anche dei fratelli...» che erano li presenti, erano andati per là, in giro... "uno si chiama "Forte come il vento!" cioè che corre veloce come il vento! E l'altro si chiama "Trincia ferro!" ovvero uno che trancia il ferro con una cesoia! «Ohh... vi siete mica imbattuti bene, io sono un povero mendicante e possiedo soltanto questa cavalla... ho problemi a togliermi la fame da solo, altro che curarmi anche di tre cani» «Per questo tu non ti devi preoccupare! Perchè ti manteniamo noi!» Si vede che allora, gli animali parlavano.Allora s'è lasciato convincere. «Si si, se volete associarvi, però vi dico fin da principio vi do tutto quel che rimane dopo me e la bestia che ho appresso, anche se la bestia mangerà l'erba». Comunque si sono associati, giungono in un paese- stavano avvicinandosi quando si avvicina anche l'ora di far colazione- e Forte come il Vento, parte. Uno di quei cani parte. «Per la distanza che ancora c'è da queste paesi... andare a cercare colazione per voi animali così grossi e per me...» La cavalla aveva trovato l'erba. Mangiava ciò che trovava lì vicino. Forte come il Vento, parte ed è giunto dove c'era una compagnia o un battaglione... un raggimento di soldati che preparavano il pranzo... li c'era una marmitta di carne dentro che bolliva, il pranzo per questi soldati. Ho dato una zampa al cuoco che stava li vicino.... l'ha steso.... ha preso la marmitta con i denti. Quand'è giunto dove loro (Giovannino e i due cani) attendevano, sulla montagna, (il pranzo) bolliva ancora!! Era andato veloce! Proprio come si dice: "Veloce come il vento." Così la colazione è stata garantita. Giungono in un altro paese, cosa hanno combinato, chissà di cosa sospettano... l'hanno messo in prigione. Giovannino e la sua Cavalla. Nella prigione ci sono le porte di ferro!! Con i catenacci, i lucchetti e tutto ciò che ci deve essere... i cani non sono riusciti a prenderli... i cani sono andati sulla montagna. Quando ha ritenuto opportuno, Trancia Ferro è partito! «Va a liberare il nostro padrone- chiamiamolo così...».E' andato giù (nella prigione). Trancia ferro ha tranciato le sbarre e l'ha portato via. Passano in un paese... il paese era tutto tappezzato di nero! Lui a cavallo con i suoi tre cani. E chiede, s'informa dalla gente del paese, come mai tutto imbandierato di nero? «Ehh... dicono... oggi il drago deve diventare re di questo paese, di questa nazione. Il re deve dare sua figlia in sposa al drago altrimenti, il drago, mangerà tutto! Ammaza tutti...cioè farà massacri» « Ah si? Il drago delle sette teste!». Giovannino prende in considerazione questa cosa e dice «Voglio anche esserci io, quando arriva il drago! Si!» Quelli hanno detto il giorno e l'ora in cui doveva arrivare, e lui si è pure trovato li assieme alla folla. Ad un bel omento hanno sentito gran rumore... era il drago che arrivava...la ragazza l'hanno condotta sul suo passaggio, con gli occhi bendati da un fazzoletto doveva essere sacrificata al drago, insomma.. La gente, sentendo quel gran rumore, è fuggita temendo il drago... sai! Giovannino e i suoi cani si son messi lì, vicino, non molto distanti. Il drago, com'è giunto s'è seduto e ha detto «Oggi il re mi ha preparato cinque buoni bocconi, prima bisogna mangiarli!» Ma per il momento non li hai ancora mangiati, e son venuti dalla lite, giunti a una sfida e hanno attaccato battaglia. Lui (Giovannino) mi pare fosse armato di spada. Aveva dunque una spada! Come quella che ha una guardia del re.. quando aveva tentato altre volte a battagliare non era servita a nuolla contro il drago! Il drago faceva massacri! Ha iniziato a lottare (Giovannino) e gli ha tagliato tre teste! Anche ai cani ha detto «Veloce Come il Vento e Forte Come la Montagna, saltategli addosso!» In quel momento, lui, con la spada, gli tagliava tre teste. Il drago ha detto "Fermatevi un momento, fate un alt!" Ha chiesto una tregua... e poi han ripreso battaglia. Lo chiamavano "Il drago delle sette teste" e gli ha tagliato anche le altre... poi ha tolto la benda dagli occhi della ragazza, che naturalmente è stata contenta... Il re gli ha chiesto cosa poteva offrirgli... come ricompensa... adesso la sua nazuone, il suo dominio, non erano più sottomessi al drago e aveva solo da chiedere.Giovannino ha risposto «Io non chiedo altro che se lei la figlia) è d'accordo, fra un anno la prendo come sposa!» Cioè le lasciava tempo un anno per riflettere. Ha preso le sette lingue del drago, le ha messe nel fazzoletto che aveva bendato gli occhi della ragazza, ne ha fatto un pacchetto e se le è portati via. Questo fatto lo ritroveremo poi spiegato. Verrà poi... Ed è partito per continuare i suoi viaggi Ha avuto diverse avventure, cose diverse. Un anno dopo, puntualmente, si è ritrovato in quel paese. Il paese era tutto imbandierato a festa. Lui è tornato ad informare- non lo hanno riconosciuto su cosa stesse per accadere. «Eh già! Oggi si sposa la figlia del re. Sposa il guerriero che l'ha salvata un anno fa...» « Ah sì?!...» Giovannino ha ripetuto l'atteggiamento dell'anno prima « Bene, aspetto di vedere questo matrimonio e come andràn a finire» Ed è giunto il momento della cerimonia Giunto un guerriero tutto carico di decorazioni, di questo, di quello... e alora Giovannino s'è fatto avanti «Tu chi saresti?» « Io sono quello che ha ucciso il drago delle sette teste!» « Che cos'hai da far vedere, per dimostrarlo?» La ragazza- si vede che non lo riconosceva... l'aveva visto lì, solo una volta, comunque la cosa era stata combinata così (malamente) ed è andata a finire così «che cos'hai da far vedere?» «Eh... ho le sette teste del drago!» E aveva le sette teste del drago da far vedere... « Ah si? E le lingue?» «Ah, i draghi non hanno lingue!» Allora giovannino ha tirato fuori dalla tasca un fazzoletto. dentro c'erano le sette lingue! « tu hai preso le teste, ma le lingue le ho io! Che l'ho ucciso!» Poi si son fatte tante cerimonie, hanno celebrato le nozze e sfarzi e noi, che siamo quì dietro l'uscio non ci hanno offerto neanche una chiappa (spicchio) di pera.

mercoledì 10 novembre 2010

The Social Network -recensione in anteprima-


Dopo aver provato a fare lo Spielberg (e vincere l'oscar) con Il curioso caso di Benjamin Button, David Fincher torna a narrare nel modo moderno e dinamico che gli riesce meglio, e a raccontare una storia di giovani con difficili rapporti sociali, che ricorrono così all'aggregazione, non più in oscure cantine dove malmenarsi a vicenda, ma su eteree piattaforme digitali.
"Nel passato abbiamo vissuto nelle caverne, nel futuro vivremo su internet" dice (più o meno) Sean Parker, il creatore di Napster, qui interpretato da un Justin Timberlake perfetto nel ruolo del figaccione spaccone (ma scommetto che vent'anni fa la parte sarebbe andata all'amico Brad). Gli attori sono tutti magnifici, Jesse Eisenberg in testa, che rappresenta al meglio il genialoide Zucherberg, e a cui probabilmente spetterà almeno una candidatura ai prossimi Oscar. Con l'ampliamento a dieci delle candidature per miglior film, poi, sarebbe opportuno se almeno una spettasse a The Social Network (che comunque, c'è da scommetterci, farà degli incassi spropositati), perché è una pellicola meravigliosa in ogni sua parte: regia (ovvio), sceneggiatura (di Aaron Sorkin), fotografia (di Jeff Cronenweth), e musiche (di Atticus Ross e Trent Reznor, che il regista ha conosciuto negli anni in cui girava i videoclip, fra gli altri, dei Nine Inch Nails).
La trama, che deriva da questo illuminante libro, si concentra sull'ascesa del più grande genio informatico di questa generazione, sulla creazione di una delle più importanti e radicali invenzioni degli ultimi anni, e sulle beghe legali che hanno coinvolto entrambi. Oltre a questo, la parte puramente filmica è come sempre eccezionale. Il film è scandito per due ore da un ritmo sostenuto, e riesce a non annoiare mai. In una scena si evade dai dialoghi che lo dominano, e viene mostrata una gara di canottaggio dove le immagini, i suoni, i colori, e la musica, si liberano dalla gabbia del racconto, per offrire una pausa di grande piacevolezza visiva. Perché questo è anche e soprattutto un film divertente, che regala momenti d'ilarità in particolar modo con i due fratelli Winklevoss (il modo in cui l'attore Armie Hammer viene splendidamente sdoppiato nei due gemelli meriterebbe un capitolo a parte, e forse un altro Oscar).
Questo non è un thriller, genere per il quale Fincher è evidentemente nato, ma ne ha quasi le caratteristiche linguistiche. La creazione di Facebook viene inframezzata dalle cause milionarie che hanno coinvolto i suoi creatori, in un meccanismo sofisticatissimo (come le righe di codice che vediamo scrivere da Zucherberg), in cui l'inizio tarantiniano si proietta sulla fine, ribaltando la dichiarazione iniziale "io non voglio amici", e chiudendo un cerchio ideale (in cui la parola chiave è stronzo). Sì perché forse il social network più famoso del mondo, altro non è stato che il tentativo da parte di un ragazzo isolato, troppo brillante per i suoi simili, di stabilire un ponte con gli altri, di trovare un po' di amore.

"Non arrivi a 500 milioni di amici (e a un mucchio di soldi) senza farti qualche nemico"



PS: Fruirlo in una sala colma di studenti universitari, incredibilmente in religioso silenzio, è stata poi un'esperienza unica, che ha dato alla visione un sapore peculiare e memorabile, "generazionale".

martedì 9 novembre 2010

L'inutilità del cinema

Può sembrare uno che si è appena fumato una caccola di marocco, ma in realtà è Alberto Grifi che parla di Anna, e dice tutto quel che c'è da dire, rendendo QUASI secondaria la visione del film. Dopo aver preso in giro Hollywood con la Verifica Incerta, demolisce tutto il resto del cinema e della sua identità. Sarebbe bello poter trovare i suoi film in DVD, accanto a quelli di Pieraccioni, o magari un po' più in là, nello scaffale dei grandi registi.


sabato 6 novembre 2010

La nuova frontiera

Eccoci arrivati, del resto era prevedibile. Mi scusino altre pertiche dell'alpinismo per averle bruscamente scavalcate, ma credetemi ho buoni motivi! Per chi non l'avesse ancora intuito, si parla di Reinhold Messner. Massì, inutile presentarlo. Il barbuto altoatesino è tutt'oggi il più celebre dei galeotti ad aver affrontato i più svariati monti della terra. Profondo conoscitore della filosofia e della sua vocazione, ha scritto alcune delle pagine più importanti dell'alpinismo: nella collezione spiccano ovviamente le insuperate imprese himalayane (fu il primo a conquistarne più di quattordici vette), la terribile tragedia vissuta durante la spedizione del Nanga Parbat, la stupefacente prima ascesa del monte Everest senza l'uso delle bombole d'ossigeno. Bene, breve ripasso effettuato.
Dal lato narrativo, Messner ci delizia con una serie prodigiosa di libri; incolla a se l'interesse dei molti, sia con la penna che come oratore di numerose interviste e conferenze.
Uno in particolare, però, rintengo sia la sua gemma. Reinhold Messner opera il suo mestiere in un punto cruciale della storia alpinistica. E' la fine d'un era, le Alpi sono state, diciamo, tutte vinte. Non c'è pendio, sentiero o parete che non abbia attirato a se l'attenzione dei temerari, l'alpinista si ritrova mendicante d'impresa, privo del motivo principale che lo sprona all'avventura. Siamo agli inizi degli anni '70 quando un nuovo spirito d'intesa dei valori sconvolge gli animi della gente, dei giovani. Il cruciale '68. Accade infatti, che anchel'alpinismo viene rivoluzionato da una nuova arrampicata, il free-climbing. Parliamo di quello che tutti oggi intendono "arrampicata libera", un nuovo modo di vivere il verticale, introdotto direttamente dai grandi scalatori americani che esercitano sul granito dello Yosemite. E' una tecnica affinata, arriva un nuovo tipo di materiale, che comporta un incremento incredibile delle possibilità di affrontare "l'impossibile". Quello che fino a ieri era insuperabile, oggi viene giocato sulla sicurezza dei chiodi ad espansione, ma anche sui piedi poggiati su "comodissime" staffe, quando la roccia si fa troppo scivolosa. E' questione di poco tempo che venga riconosciuto il settimo grado, la nuova frontiera che chude finalmente quello che troppi anni era stato la massima difficoltà raggiunta sulla scala Welzembach (classificazione delle difficoltà alpinistiche su roccia che va dal 1° grado "facile" in poi, idealizzata dal tedesco Willy Welzembach). le polemiche non mancano, Messner è ancora agli inizi di una grande carriera, molto giovane e protetto dalle sue Dolomiti, inizia un magnifico approcio che lo renderà un arrampicatore eccellente. Ispirato dai grandi del passato, quali Paul Preuss e Hermann Bhul, Messner sposa la nuova arrampicata sportiva, rammentandosi però delle antiche filosofie volte a non invadere la montagna con ogni diavoleria metallica che ne permetta il superamento. Il ripudio agli artefatti umani, viene ampliamente argomentizzato nello storico articolo pubbliato nel 1968 sulla Rivista Mensile del Cai, sotto lo spietato titolo:" L'assassinio dell'impossibile". La carriera da climber, tuttavia, doveva essere stroncata dalle amputazioni avvenute in seguito alle losche esperienze in Himalaya; ciò non lo fermò, tuttavia, dal prendere posizione definitiva su quella che doveva diventare il futuro dell'arrampicata libera. Nasce così il libro. Settimo Grado, è un resoconto personale, scrive l'autore: « le mie esperienze, così come man mano le ho trascritte, completate da articoli di giovani arrampicatori, danno vita a questo libro e cercano di trasmettere la gioia di vivere dell'arrampicatore estremo». Oggi, tutti coloro che vivono la montagna, sono favorevoli al settimo grado, così come all' VIII, al IX e ormai al decimo. Ma se tanto giustamente i numeri avanzano, è bene ricordarsi dell'essenza per cui oggi vivono. Questo libro ne tiene conto.
Buona lettura!!
Settimo Grado di Reinhold Messner De Agostini editori pubblicato il 1979

L'arte della fuga


"Quando non può lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l'andatura di cappa che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all'orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l'illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione. Forse conoscete quella barca che si  chiama desiderio."
(Henri Laborit, Elogio della Fuga)


L'arte della fuga è un'opera incompiuta e postuma di Johann Sebastian Bach. Si tratta di un insieme di brani musicali in stile contrappuntistico, la cui composizione inizia intorno al 1740 circa, per protrarsi fino al 1750, anno della sua morte. Dier Kunst der Fuge raggruppa una serie di sperimentazioni sul contrappunto, che contengono alcune delle fughe più complesse ed articolate mai scritte. Una delle vette della musica mondiale di ogni tempo.
L'arte della fuga è anche ciò che contraddistingue lo spirito dei nomadi (non il gruppo musicale, proprio la categoria), ciò che li differenzia dal resto dell'umanità, la loro sola realtà. Il nomadismo è l'arte della fuga all'estremo, che spinge ad abbandonare persino il concetto di casa, per favorire il perenne movimento, in una fetta di esistenza dai confini vaghi e indefiniti. Se passate per piazza San Carlo fermatevi a vedere questa piccola mostra, è gratis.
Ma l'arte della fuga è anche una capacità, un dono che hanno nell'animo soltanto alcune persone. O forse è in realtà una maledizione, perché li rende capaci di sfuggire a qualsiasi cosa, anche la più importante, e rende così facile defilarsi che alla fine quella diviene la strada prediletta, obbligata, di fronte a qualsiasi problema. Colui che fugge lo farà sempre, perché è assai più sicuro allontanarsi dalle cose invece che immergervisi. L'arte della fuga viene intesa come qualità, ma è soltanto vigliaccheria. La si sconfigge dall'interno, costringendosi a restare. Altrimenti la fuga porterà tanto lontani da costringere poi a fermarsi, guardarsi attorno, e scoprire di essere soli. E lì sarà impossibile tornare indietro, perché non si può fuggire da una fuga.
Per lasciare delle impronte più profonde nel nostro cammino, ed evitare che vengano spazzate dal vento, è necessario fermarsi ad un certo punto, o non resterà traccia del nostro passaggio. Come sempre, è una scelta.

Playtime


 Jacques Tati  (1967)

 
Nonostante la corrente sembri andare in direzione opposta, vorrei cercare di scrivere una recensione comprensibile ai più, evitando se possibile i tanti aggettivi e neologismi cari alla maggior parte dei Ghezzi de'noantri. Eviterei anche la solita premessa riguardo alle mie competenze limitat(issim)e in merito, altrimenti smetto di scrivere seduta stante e vado a cercare un po' di autostima in giardino. 

Ho visto PlayTime anche se non ne sentivo il bisogno impellente, senza avere molta familiarità con il regista, Jacques Tati, ma con la giusta dose di curiosità.
  
L'interminabile avventura di Monsieur Hulot, protagonista a tratti trascurato del film, si svolge tra gli edifici di una Parigi che si lascia scorgere appena. 
A dominare la scena troviamo edifici immensi, sproporzionati, continuamente affollati ma stranamente vuoti, indecifrabili ed incompleti.
Nonostante questo, i  personaggi che vediamo affannarsi tra gli infiniti corridoi di questo paesaggio urbano, fatta eccezione per Hulot, sembrano decisamente a proprio agio; forse perchè ignari e ciechi dinnanzi al mondo asettico ed impersonale che li ospita.
In questa realtà dove nulla sembra veramente distinguersi, la bellezza della città e dei suoi monumenti-simbolo passa totalmente inosservata, persino agli occhi di quei turisti avidi di sapere e vedere.
Uno spettatore medio, interessato più alla salatura dei pop corn che a queste precisazioni, troverebbe sicuramente qualche difficoltà a riconoscere il paesaggio Parigino. Ma ecco che finalmente Tati offre allo spettatore più attento (cioè quello che ha lo sguardo rivolto verso lo schermo) una prova inequivocabile. Forse non è un caso che questo indizio decisivo ci sia offerto proprio da uno dei tanti vetri/specchi che vedremo nel corso del film. Una porta vetrata viene aperta fino a rivelare il riflesso della Tour Eiffel prima e dell'Arc De Triomphe dopo. Se non sbaglio... perchè in quel momento stavo guardando il mio vicino di posto. 
La modernità e la tecnologia ci svelano quindi una realtà antica, forse sorpassata ed invisibile ai più, ma ancora presente e viva. Senza necessariamente plagiare Leopardi.

Credo che la curiosità di cui parlavo qualche riga più in su, sia indispensabile per cogliere a fondo ogni sfumatura di questo film. I primi piani vengono eliminati, dando assoluta priorità agli spazi ampi, così da poter mostrare più azioni contemporaneamente. Sta poi allo spettatore avvedersene.
Alcune scene, per la loro complessità, richiedono un grado di attenzione e minuziosità che solitamente si ha solo sfogliando La Settimana Enigmistica. Lo spettatore non viene portato dal regista ad osservare lo svolgersi di un'azione, ma è lo spettatore stesso a costruire il suo spazio, a seconda delle capacità.
 
Girovagando nel www ho avuto la fortuna di imbattermi in un commento di Alberto Moravia, un autore che mi Affascina e che consiglio a tutti i puritani in ascolto.

Moravia si sofferma soprattutto sul contrasto tra soggetto e massa. Il primo sembra identificarsi esclusivamente nella figura di Hulot, l'ultimo superstite. L'unico a differenziarsi, non solo per l'aspetto fisico o l'abbigliamento, ma anche per il suo rapportarsi con gli oggetti che lo circondano. Oggetti che solo ai suoi occhi rivelano la loro stranezza e comicità.

La modernità però sembra non risparmiare niente e nessuno, si impone con prepotenza sul mondo plasmando le menti, abituandole ad un'efficienza effimera e vuota di contenuto, come rivela soprattutto la seconda parte del film.
Forse anche la figura di Hulot è destinata a cedere di fronte all'arrivo inesorabile della tecnologia. Nel corso del film alcuni sosia del protagonista si intravvedono tra le strade caotiche di Parigi, una specie di produzione seriale di personaggi che potrebbe suggerirci la futura scomparsa di ogni diversità.








,,Il mondo moderno è ormai organizzato in modo che le cose le fanno soltanto i gruppi, le masse, le collettività (quando le fanno). L’individuo, nel mondo di massa, è impotente."
 (Alberto Moravia)





E facciamo tanti auguri a Bruno, và.

giovedì 4 novembre 2010

Processi alle verità Oblique

Noto con un certo piacere che i ritmi di aggiornamento da queste parti si susseguono a ritmi sostenuti. Sarà meglio darsi da fare; si rischia d'esser sopraffatti dalle recensioni cinematogragiche e dagli ottimi consigli musicali. Non vorrei mai! Mi accingo dunque ad argomentare ancora sulla montagna, nello scorsa pubblicazione rendevo conto ad uno dei più grandi alpinisti italiani. Troppo spesso si tende ad identificarla attraverso gli uomini che l'hanno affrontata e vinta, ma peggio ancora, ci si rammenta sempre più di loro e sempre meno degli spazi in cui hanno operato. E' un argomento complesso,rileva in qual modo la natura storta dell'uomo, il suo continuo prevalere. Ma questo discorso lo abbiamo già accennato, per noia non lo approfondirò ora. Mi preme invece menzionare l'ultimo libro pubblicato dalla coppia vincente Alessandro Gogna, Italo Zandonella Callagen nel 14 giugno del 2009. Forse per mea culpa, forse no, l'ho scoperto soltanto ora, ma vabè, bando alle ciance. il titolo ne racconta la trama: "La verità obliqua di Saverino Casara". Gogna, alpinista d'eccezione e ottimo giornalista, questa volta si concentra a dar un quadro preciso sulla dubbia ascesione dello scalatore veneto su una delle più belle guglie delle dolomiti friulane. Il Campanlie di Val Montanaia. Processi, contraddizioni, illustrazioni del percorso e chi più ne ha più ne metta, il libro ripercorre tutte le angherie del protagonista in seguito al suo "impossibile" superamento d' un tratto del passaggio chiave della via normale e principale, vinta poco prima dagli austriaci Wolf von Glanvell e Karl von Saar. Cosa aspettarsi da questo lungo racconto? Innanzitutto un reperto storico, condito da un' ottima stesura dei fatti, ben descritti, ripercorsi e ben studiati, vivacizzato da una lettura pimpante, firma del resto sempre ben nota dell'autore. Letto da un punto di vista meno fiscale, v'invito a riflettere, trovando interessante quanto la vicenda s'evolva in un lento ed inesorabile discorso dell'inutile. Infine abbiamo solamente una serie di nuovi dubbi sulle capacità atletiche dell'uomo, un sacco di persone che l'hanno calunniato, alcuni che l'hanno difeso, una montagna che non azzarda dar giudizio. Forse ride, però. La penna astuta degli autori, tuttavia, considera il ragionamento in un conclusivo discorso aperto con una simpatica battuta ( "Al lettore che ci ha seguito fin quì e non ha ancora esclamato: ghe ne go do maroni di sto Casara... chiediamo la pazienza di leggere queste ultime note conclusive" pag.280). Infine, per tutti gli amanti della strampalata narratività di Mauro Corona, tengo a segnalare il visionario intervento inserito sotto il titoletto de "Dialogo con il Campanile"(pag 303). Non mi resta che mostrare i dettagli finali, e natualmente augurare:
Buona lettura!!
La Verità Obliqua di Saverino Casara di Alessandro Gogna, Italo Zanolla Callagher Campo/Quattro Editori pubblicato il 14 giugno 2009 cod ISBN 978-88-8068-433-6

Stanno arrivando...

PORCO ROSSO
Del maestro Miyazaki, direttamente dal 1992, in leggero ritardo.


12 novembre


THE KILLER INSIDE ME
Di Michael Winterbottom, da un romanzo di Jim Thompson.


26 novembre


THE TOURIST
DI Florian Henckel von Donnersmarck, remake del francese Anthony Zimmer, con Angelina Jolie e Nino Frassica.


17 dicembre


BLACK SWAN
Di Darren Aronofsky (dove le tipe si baciano e succedono tante altre cose strane)



11 marzo 2011


TRUE GRIT
Dei fratelli Coen, dal romanzo di Charles Portis, dal quale era tratto anche il precedente Il Grinta di Henry Hathaway, con John Wayne.


Febbraio 2011