sabato 23 aprile 2011

Steamroller

Dei Bruce Peninsula avevo parlato in relazione a Small Town Murder Songs, uno dei film più belli del passato Torino Film Festival. Sono una band canadese che mescola sonorità gospel al rock, e il loro nome deriva dalla Penisola di Bruce, un lembo di terra che si allunga nel lago Huron, nella provincia dell'Ontario. Il loro primo album, A mountain is a Mouth è uscito nel 2009, ed è una delle cose più interessanti che si possano ascoltare in giro ultimamente. Sono capaci di una rara potenza.
Mi è sembrata buona cosa festeggiare questa Pasqua con una loro canzone (anzi due, che c'è anche pasquetta).


Oh my oh, I'll go for what you know
Who I own I know, I owe who knows who
I own my home or owe who knows who I owe
Why own when you can just

Sell it

Oh my oh, I'll go for what you know

Buy the city sell the farm
Either or / Either or
Either or / Either or not

Cause I could throw a rock
And put a hole
In the yard behind the beehive rows
Set along my road
Straighter than the treeline grows

We'll see this country in a car
Dinner in dining halls
Give to the grind and haul out
And let 'em tear the barn down
And let 'em put up
A new line of beehive rows
Well, I just couldn't call it my own any more
When they blocked up the road
W here the first would go

So let's die out

I know not to meddle
To keep off the path this steamroller runs
Been all set and settled
Since day one they've wanted

What I own I know, I owe who knows
Who I owe I know, I own who knows

Those gloves just take 'em off
Move before the city moves to us
And sucks the simple parts of living out from under us
Move before the city moves to us, to us, to us

So let's die out.

The greatest forest fire burned our forest down

giovedì 21 aprile 2011

Habemus Papam

Già di per sé il Cinema è l'arte più discussa e commentata, ma l'analisi e il giudizio dei film di Nanni Moretti è negli anni divenuto uno sport nazionale. Potevo dunque io mancare nel dire la mia? Giammai, poiché tengo troppo ai due fedeli lettori di queste righe. Ordunque, eccola qui...
Habemus Papam è un grandissimo film, e non esagero in iperbole solo perché Boris è uscito da poco, e lo era anch'esso. Questo di Moretti me lo ha in parte ricordato, come mi ha ricordato Rango. E con questa affermazione devo essermi giocato uno dei due lettori, ma sento che l'altro resiste.
Quando si esce dalla visione di Habemus Papam si è assistito ad un doppio film, una commedia e uno estremamente drammatico. Quello drammatico racconta la storia di un uomo che si sente inadeguato, non importa davvero il suo ruolo o il perché. Moretti ha scelto il papa per il suo valore assoluto, per il suo essere un'esatta metafora. Si tratta di una persona che svolge forse il lavoro più importante del mondo, e che nel suo diventarne esecutore non ha voce in capitolo. Scelto da Dio, scelto da Dio, scelto da Dio.
Allo stesso tempo, nella parabola (!) di quest'uomo, Moretti ha certamente colto l'opportunità di infilare una presa in giro della Chiesa e del Vaticano, nonché della psichiatria. Tutta la parte che vede protagonista lui e i cardinali, oltre a servire da contrappunto narrativo, sposta l'obiettivo su di una simpatica combriccola di privilegiati, tratteggiati non a caso come un mucchio di bambini. La sua è una critica blanda e bonaria, disimpegnata e lontana dalla voglia di pungere e creare polemiche. Cosa che comunque, illuso, non ha evitato.
Da buon narcisista, ha creato una macchietta per sé con cui tornare a danzare sullo schermo, brillando negli occhi del suo pubblico. Proprio quel pubblico che lamenta la sua poca presenza, mentre invece, a ben guardare l'economia della storia, è persino troppa. Può infatti infastidire l'eccessiva radicalità di una parte rispetto all'altra, può stonare la vicinanza di scene tanto diverse (oppure, come nel mio caso, può galvanizzare). Ha sicuramente pesato sui giudizi di molti l'aspettativa (amara nemica dello spettatore) di vederlo accanirsi sulla Chiesa, di essere pungente e di fare un film politico, mentre in questo caso Moretti voleva parlare d'altro, voleva essere profondo, voleva tornare a guardare gli uomini nella loro anima. Indipendentemente dal fatto che essa sia frutto di Dio o meno.
L'insinuazione pirandelliana che il ruolo di Papa, come forse ogni altro ruolo, sia solo una maschera da attore, e che non ci sia alcun intervento divino in questo, è la critica più intelligente e sottile che Moretti poteva fare nei confronti del clero, ma tutto ciò, espresso senza sensazionalismi, è passato quasi del tutto inosservato.
Il finale poi, così anti-spettacolare ma pesantissimo, è di rara grandezza. Concludere questa storia con un'amara e apocalittica ammissione di inadeguatezza, con un umile passo indietro, con un coraggioso gesto di responsabilità, è stata una scelta di inestimabile valore morale e civile.
Un film grandissimo appunto, incompreso e sperimentale (che se avesse giovato di un apparato tecnico di maggior importanza, avrebbe potuto essere più chiaro, e invece di umile, colossale).
Oppure magari non ci ho capito niente, ed è stato tutto uno scherzo, in cui fra immagini, musica e parole, Moretti mi ha ipnotizzato e buggerato, per saltare poi fuori alla fine, urlando "Scopa!"

sabato 16 aprile 2011

I guardiani del destino

David è lanciato verso una promettente carriera politica (situazione ottimamente introdotta e inculcata nei titoli di testa, a mo' di Quarto Potere), che una sera incontra per caso (!!!) una ragazza, Elise, con la quale instaura fin da subito un forte legame. Questo incontro suscita in lui una sorta di ispirazione nel suo lavoro, ma al contempo fissa nella sua mente l'indelebile figura della ragazza, fuggente e misteriosa. In breve, David si innamora perdutamente.
Parallelamente a ciò, alcune figure sinistre cominciano a serpeggiare nella vicenda. Sono uomini eleganti, che indossano un borsalino, costruiti per essere anonimi e dimenticati. Proprio uno di costoro, qualche tempo dopo, fallisce comicamente (e non era voluto) il suo compito, ovvero impedire a David di prendere l'autobus per andare a lavoro. Sul mezzo viaggia anche Elise, i due si rincontrano e passano altro tempo prezioso insieme, si scambiano i numeri di telefono, si salutano invaghiti. 
David, in perfetto orario, arriva in ufficio e lo trova messo sottosopra dagli uomini misteriosi. Tenta di fuggire ma questi sembrano avere capacità sovrumane, ed in breve lo immobilizzano. Confessano di essere Guardiani del Destino, anche se noi li appelliamo con diversi altri nomi (angeli?), e spiegano a David di essere coloro che gestiscono le cose sul nostro pianeta, facendo sì che le persone seguano il Piano. Un piano scritto dal Presidente, che non può essere ignorato e modificato, sul quale è inciso il percorso di tutti noi. Il destino di David era di arrivare in ritardo e non incontrarli mai, ma è anche quello di diventare una figura sempre più importante nella politica, eventualità che non potrà concretizzarsi se continuerà a frequentare la bella Elise. A ciò si aggiunge anche il fatto che nemmeno i sogni di lei, di divenire una brillante ballerina, si avvereranno mai, se seguiteranno nel loro rapporto.
E qui stanno tutte le domande, che reggono la storia e la rendono grande: l'amore può (e deve) cambiare il destino? È giusto lottare per esso, pur sapendo che porterà alla rovina? È più importante seguire il proprio cuore o la propria ragione? Che cos'è il destino?
Una splendida trama che solleva questioni importanti, in questi anni così vuoti di contenuti, potrebbe far passare questo film come una specie di prodigio. In realtà è un racconto del 1954 (Adjustment Team e da noi tradotto Squadra Riparazioni) di Philip K. Dick, uno dei più grandi scrittori (di fantascienza, ma sarebbe riduttivo) di tutti i tempi. Prolificissimo e vulcanico, questo è uno dei tanti racconti di cui è disseminata la sua gioventù, spediti a varie riviste con incalzante frequenza, in questo caso a Orbit Science Fiction. Per chi lo conosce e ha già sondato la profondità dei suoi pensieri, la genialità delle sue invenzioni, e la potenza delle sue idee, c'è poco da aggiungere. La bellezza di questo film sta tutta nella trama, intelligente e modernissima, anzi futuristica, ancora oggi a cinquant'anni di distanza.
George Nolfi, che ha scritto benissimo Ocean's Twelve e The Bourne Ultimatum (a mio parere i migliori episodi delle rispettive saghe) dimostra una buona penna anche qui, costruendo bene la sua struttura, dandole un passo da thriller con echi da storia d'amore dalle ambizioni drammatiche. La love story fra David ed Elise è decisamente la parte migliore, nutrita da dialoghi perfetti, dolci, gettati nell'amaro grigiore del potere superiore. Proprio con questa pellicola Nolfi passa anche dietro alla macchina da presa, e la sua si dimostra una buona regia, corretta, senza lode e senza infamia. Si basa sul suo attore feticcio Damon, credibilie sia come politico che come uomo action, e sulla sempre più brava Emily Blunt, il cui personaggio subisce però una strana metamorfosi, da affascinante e misteriosa, a solita fanciulla in pericolo.
John Toll è uno dei più bravi (e purtroppo sconosciuti) direttori della fotografia attualmente in circolazione, basti sapere che ha vinto due Oscar ed ha nella sua filmografia titoli come La sottile linea rossa, Vanilla Sky, Braveheart...
James Horner, che è un mito, ha realizzato la tipica colonna sonora da film Hollywoodiano, funzionale e di commento. E questo è più o meno tutto.
Una bella fiaba per accontentare il pubblico, in attesa di raggiungere, laggiù dove si trova, anni luce avanti a noi, Philip K. Dick, che dal futuro ci osserva, scruta, e descrive i nostri destini.

lunedì 11 aprile 2011

Offside

Ad essere offside qui sono le donne iraniane, che per questioni di buon costume non possono entrare allo stadio. E così rimangono in fuorigioco nelle manifestazioni sportive, nella società, ma non nel cinema di Jafar Panahi.
Ora come ora lui sta scontando una condanna del Tribunale di Teheran, risalente al dicembre 2010, che gli impedisce di dirigere, scrivere o produrre film, viaggiare e rilasciare qualsiasi intervista per 20 anni. Motivo per il quale questo (risalente al 2006 e distribuito da noi solo adesso) rischia di essere il suo ultimo film.
Racconta le vicissitudini di un gruppo di ragazze nel giorno della partita di qualificazione ai Mondiali di Germania fra Iran e Bahrain, mostrando i tentativi di queste donne di infiltrarsi allo stadio in qualsiasi modo. La loro passione calcistica deve però scontrarsi con la maledizione del loro sesso e della loro terra di nascita, in una storia fatta di attese, vuoti, dialoghi asciutti, azioni che si svolgono fuori campo. Le tifose ribelli vengono tenute in custodia da un drappello della milizia ma non si arrendono. Tentano fughe rocambolesche, tengono alto il morale, stringono amicizia fra di loro e con i loro imbranati carcerieri. Nemmeno questi ultimi hanno ben chiari i motivi di questa prigionia, eseguono gli ordini, non si pongono domande, e non sono nemmeno in grado di dare risposte. Panahi dipinge una commedia ironica pungente e acuta, mascherando nei dialoghi grandi quesiti sociologici spaventosi, proprio perché profondamente razionali. Elemento questo, che da sempre sgomenta i regimi e le popolazioni intere.
Film lontano anni luce dall'estetica europea e americana, Offside ha un'anima indissolubilmente mediorientale, e va visto comprendendo le grandi distanze da cui arriva. Oltrepassando i suoi limiti, si aprono davanti agli occhi tutti i difficili tasselli che Panahi ha assemblato, con difficoltà difficilmente immaginabili. Il discorso che viene fatto qui supera largamente le apparenze, perché non si parla di calcio o passione sportiva, ma di libertà, e di diritto alla felicità. Qualunque essa sia.




Offside ha vinto il premio della giuria al Festival di Berlino del 2006, qui c'è l'appello per la liberazione di Panahi, e il film si trova adesso al cinema, in pochissime sale sperdute da qualche parte nella penisola. Se riuscite a trovarlo mi sento di consigliarlo, perché questo è cinema che sveglia la mente e fa nascere pensieri. Perché questo è un film importante, in una parola: alieno.

domenica 10 aprile 2011

Un giorno da cani

Il 9 aprile 2011 lo è stato sicuramente per Sidney Lumet.




Non sono tante le scene nella storia del cinema importanti quanto questa.


giovedì 7 aprile 2011

Panoramica a schiaffo


Il film tratto dall'omonima serie TV di Sky, e, per chi l'ha vista, c'è poco da aggiungere. Si tratta infatti di una delle fiction italiane più di successo da molti anni a questa parte (se non di sempre), che ha provocato episodi di dipendenza non dissimili da quelli della nicotina. La pellicola ne è fortemente debitrice, risultando pienamente comprensibile solo al pubblico più affezionato, tramite rimandi, citazioni ed evoluzioni delle trame dipanate nel corso delle serie.
Comunque sia, buttando alle ortiche la solita parte istituzionale, vorrei (innanzitutto che saltasse subito agli occhi il fatto che sia uscito il giorno del pesce d'aprile. GENI!!!) immediatamente giungere a dire, disinvolto e di gran carriera, che: Boris è stupefacente. È un film vulcanico, pieno di idee, gag, invenzioni, personaggi, cammei, situazioni, citazioni e rimandi, tanto da sembrare pronto a scoppiare. Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo hanno firmato una sceneggiatura di raro dinamismo e inventiva, in cui la figura di René Ferretti si emancipa e si eleva sino a diventare più di un personaggio: una maschera tragicomica, degna di quelle che hanno abitato il nostro immaginario cinematografico. Sembra uno dei vecchi mostri, ma non quelli con una parvenza di nobiltà che popolavano gli anni del boom economico, bensì uno di quelli che vivevano nelle oscure e distorte società degli anni '70. Sembrerebbe infatti quasi un film di Luciano Salce, se non fosse che è così spietatamente attuale. Ed è questa la cosa più sorprendente, la sua cinicità e la sua schiettezza nel definire il panorama di questi anni, usando il grottesco ed una carica di ironia malvagia, degna appunto degli antichi fasti, ad esempio, di Fantozzi.
Tutto di questo film ha dell'incredibile, da come sia riuscito a emergere dalla TV diventando perfetto per il cinema, a come l'intero cast sappia valorizzare la perfetta sceneggiatura, a come respiri una modernità che a tutto il resto del cinema italiano è preclusa, a come la colonna sonora di Giuliano Taviani e Carmelo Travia sappia ergersi fra toni morriconiani e liturgici dominando il film. Senza dimenticare poi la canzone di Elio e le storie tese, che a me riporta alla mente vaghi ricordi di Gialappa's e de Tutti gli uomini del deficente.
Boris è un film tutto da scoprire, fra i suoi risvolti sempre più alienanti e alla deriva, attraversato da un Francesco Pannofino talvolta sopra le righe, ma che sfoggia una maturità che potrebbe finalmente emanciparlo dal ruolo di "tizio che doppia George Clooney" a "tizio che recita in Boris". A piccoli passi, dai, dai, dai.
Ma è anche un film difficile, sostanzialmente colto. Nel mostrare Nicola Piovani o Massimo Popolizio, o nel parlare in modo così caustico di Garrone, Antonioni, della fotografia e della simmetria, richiede allo spettatore una certa consapevolezza. È una pellicola talmente cinefila che siamo quasi ai livelli di un Effetto Notte sboccato e in romanesco, qualcosa di VERAMENTE inedito.
Se proprio vogliamo trovare una pecca, abbiamo un buco bello grande nella regia e nel montaggio. I tre autori non sempre riescono a stare dietro alle idee messe per iscritto, e di fatto non si staccano mai da un'impostazione prettamente televisiva, ottenendo un risultato di grana grossa, sostanzialmente grezzo. Ma anche per questo, Boris è già un cult. Audace e imperfetto, invisibile ma colossale. Tanto divertente quanto, drammaticamente, tragico.



Un film di John Landis, che bellezza, che piacere. È uno di quei momenti da assaporare, fatemelo ridire: un film di John Landis. Il regista che ha inventato l'humour nero, che ha buttato sangue nella commedia, e la commedia nell'horror. Il regista che ha inventato i Coen. Il regista che ha lanciato John Belushi. Il regista dell'unico film perfetto della storia: Una poltrona per due. Il regista di quella cosa indigesta e magnifica che è Thriller di Michael Jackson, che nessuno ha mai avuto davvero voglia di sorbirsi tutto. Il regista di Blues Brothers, e qui possiamo fermarci, prostrarci, e applaudire.
Mancava dalle sale cinematografiche dal 1999, anno di Delitto Imperfetto, dove aveva recitato anche quel mito assoluto vivente (e sottovalutato) che è Dan Aykroyd, ed era davvero troppo tempo.
Burke & Hare è un film tutto suo, intrinsecamente legato alla sua... poetica, se vogliamo chiamarla così. La storia vera degli assassini William Burke e William Hare nell'Edimburgo del diciannovesimo secolo, va a mettersi in coda dietro a tutti i falliti, criminali, mostri e disadattati portati in scena dal maestro di Chicago, anche se, francamente, lì si ferma. Non c'è niente di nuovo rispetto alla sua solita formula, nulla più della sua spietata analisi della natura umana nella sua miseria, venata di grottesco, sepolta dal cinismo. Anzi, al contrario, tutto è talmente datato, nella forma e nei contenuti, da apparire un film fuori dal tempo. Un ritorno in grande stile agli anni '80 e '90 passati con Eddie Murphy e Frank Oz. Non stupisce nemmeno la scelta degli attori, in quanto Andy Serkis è inglese, tenebroso, spaventoso (il mio tessssoro...) e mutevole quanto basta; e Simon Pegg è il nuovo cavallo di razza della comicità britannica, formando con Nick Frost ed Edgar Wright, un team artistico meraviglioso.
Il fatto che questo sia un film storico, anzi archeologico, è poi sottolineato dalle sublimi apparizioni di gente come Ray Harryhausen, Robert Paynter e Michael Winner. Che bellezza, che piacere.


Un film di Lee Chang-dong, che in questo mondo che corre, è già uno dei maestri della cinematografia sudcoreana. Questa è una pellicola difficile da descrivere, perché trova una sua dimensione proprio nella visione privata. L'anziana donna che si muove silenziosamente fra il suo lavoro di badante, il suo ruolo di nonna, e la sua ricerca di poesia, viene raccontata con una calma e un garbo unici. I sensi plurimi di questa storia, le tematiche che fluttuano sulla grana dolce delle immagini, incedono come l'acqua del fiume che apre e chiude la vicenda, la vita, la storia qui narrata.
Se c'è un cinema che oggi sa parlare alle persone, anche a noi occidentali, è proprio quello orientale. Nelle finzioni elaborate e standardizzate di Hollywood ormai regna il vuoto della costruzione artefatta, si tende l'orecchio, ma non si sente più nulla. È nel cinema di autori come Chang-dong o di Zhao Ye che trova spazio la vera vita delle persone in questi tempi terribili. Tempi e luoghi in cui una donna cerca di scovare barlumi di poesia, indagando nella realtà, ascoltando tutte le cose. La troverà nell'elemento meno poetico e più disturbante che ci possa essere, la troverà a costo di soffrire.
Poetry è un film al quale ci si deve donare completamente, per i suoi parametri di noia, rarefazione, lentezza, per la sua pretesa di prendersi del tempo. Per la sua pretesa di voler essere poetico.

domenica 3 aprile 2011

Why does love got to be so sad?




Got to find me a way
To take me back to yesterday.
How can I ever hope to forget you?
Won't you show me a place
Where I can hide my lonely face?
I know you're going to break my heart if I let you.
Why does love got to be so sad?
Why does love got to be so sad?
Why does love got to be so sad?
Why does love got to be so sad?
Like a moth to a flame,
Like a song without a name,
I've never been the same since I met you.
Like a bird on the wing,
I've got a brand new song to sing,
I can't keep from singing about you.
Why does love got to be so sad?
Why does love got to be so sad?
Why does love got to be so sad?
Why does love got to be so sad?
I'm beginning to see
What a fool you've made of me.
I might have to break the law when I find you.
Stop running away;
I've got a better game to play,
You know I can't go on living without you.
Why does love got to be so sad?
Why does love got to be so sad?
Why does love got to be so sad?
Why does love got to be so sad?

Scritta da Eric Clapton e dal tastierista Bobby Whitlock, questa è una delle quattordici canzoni d'amore di Layla and Other Assorted Love Songs, l'unico album in studio dei Derek and the Dominos. Della band, oltre ai due succitati, facevano parte il batterista Jim Gordon e  il bassista Carl Radle, ma detta così, sembra non ci siano differenze dalla precedente formazione di Clapton: i Delaney & Bonnie & Friends. Se già il discorso comincia a intorcigliarsi, è bene fare un passo indietro. Bisogna infatti sapere che Clapton, nella sua carriera infinita, si è sempre divertito a formare, disfare, sciogliere e riannodare gruppi e formazioni dei quali ha fatto parte. Si comincia con i mitologici Yarbirds, dove militavano altri due fra i più grandi chitarristi mai esistiti: Jeff Beck e Jimmy Page. L'impatto devastante di questi giovincelli britannici, negli anni '60, contribuì in maniera rabbiosa alla British invasion musicale, ma questa è la storia del rock, e noi stiamo parlando della storia di Eric Clapton. Che sono poi QUASI la stessa cosa.
Clapton e i suoi pards, comunque, nel 1965, ebbero l'idea di formare gli Immediate All-Stars, in cui militò anche un giovane Mick Jagger. Da qui in poi ognuno sarebbe andato 
a scolpire il suo pezzetto di eternità. Page entrò nel dirigibile Zeppelin, Jeff Beck iniziò una carriera pseudo-solistica in cui brilla il periodo (e il disco) Beck, Bogert & Appice, e Mick Jagger beh... andò a fondare quel gruppetto delle pietre che rotolano. Clapton invece si concesse solo più un'altra divagazione con John Mayall e i suoi Bluesbreakers, prima di andare a fare il terzo vertice dei Cream, con Jack Bruce e Ginger Baker. Seguirono anni di follie, successi, collaborazioni e tanta, tanta musica. Clapton entrò anche in contatto con i Beatles, per i quali suonò in While My Guitar Gently Weeps, e in particolare con George Harrison (e sua moglie Pattie Boyd).
Ma dal '66 al '69 in un solo gruppo, sono troppi anni di militanza per Clapton, che decide di liberarsi dai Cream per guardarsi intorno. La sua attenzione si posa allora su un altro immenso musicista appena fuoriuscito dal proprio gruppo: i Traffic, cavalieri del rock progressivo. Il suo nome è Steve Winwood, e anche se a molti può non dire nulla, si tratta di una figura non meno importante di personaggi come Jimi Hendrix, Joe Cocker o Howlin' Wolf, con i quali peraltro ha collaborato. Senza contare che (insieme a Ray Manzarek) è uno dei più grandi tastieristi di tutti i tempi.
In ogni modo, da questa unione nascono i Blind Faith, che, tempo di fare un disco e qualche live, lasciano il posto ai sopraccitati 
Delaney & Bonnie & Friends, che riescono a fare solo dei concerti prima che a Clapton venga un'altra idea: i Derek and the Dominoes appunto, e torniamo al punto di partenza.
La differenza fra questa e la band precedente sta nell'arrivo di un altro chitarrista, un giovane figlio di Nashville, l'unico musicista nella storia ad aver insidiato il trono di Hendrix: Duane Allman. Fratello di Gregg, membro della colossale Allman Brothers Band, il gruppo che in appena un anno e due dischi aveva insegnato a tutti il rock sudista.
Ora, cinque ragazzi poco più che ventenni, amanti del blues, 
girovaghi di una vita di concerti, stupefacenti e note musicali infuocate, riuniti insieme, ci che cosa potevano parlare? Ma di amore ovviamente, di donne. E così nasce il picco della carriera di Clapton (ma non di Allman) Layla and Other Assorted Love Songs, un disco che cala sulle orecchie come una cascata di lava incessante, che sferra scariche elettriche al cuore, che incarna il vero senso del blues. Per me questo è il disco che dimostra come gli uomini abbiano un disperato bisogno delle donne, e di come questo desiderio venga urlato.

La canzone più famosa, Layla, forse è ultimamente più nota nella sua versione unplugged, ma è nella sua natura rabbiosa (parto di Allman) e poi dolce (opera di Jim Gordon) che dimostra la sua essenza. Layla è ispirata all'amore non corrisposto di Clapton per Pattie Boyd, la moglie del suo amico Harrison, ed è una di quelle cose che lasciano senza fiato.
Duane Allman qualche anno dopo morì, i Derek and the Dominoes furono l'ultimo gruppo di Clapton, che da allora iniziò la sua vera carriera solistica, fatta di tanti altri successi, dolori e amori. Anche se probabilmente, mai nessuno così memorabile.
Layla and Other Assorted Love Songs è appena uscito in un'edizione definitiva per il suo quarantesimo anniversario. Qui trovate la sua storia, quella di una delle più importanti opere della musica contemporanea, che al di là di tutto, rimane un monumento all'amore, in ogni sua sfumatura. Sul perché poi debba essere così triste, secondo me non l'ha ancora capito nemmeno lui.
What'll you do when you get lonely
And nobody's waiting by your side?
You've been running and hiding much too long.
You know it's just your foolish pride.

Layla, you've got me on my knees.
Layla, I'm begging, darling please.
Layla, darling won't you ease my worried mind.

I tried to give you consolation
When your old man had let you down.
Like a fool, I fell in love with you,
Turned my whole world upside down.

Layla, you've got me on my knees.
Layla, I'm begging, darling please.
Layla, darling won't you ease my worried mind.

Let's make the best of the situation
Before I finally go insane.
Please don't say we'll never find a way
And tell me all my love's in vain.

Layla, you've got me on my knees.
Layla, I'm begging, darling please.
Layla, darling won't you ease my worried mind.