giovedì 7 aprile 2011

Panoramica a schiaffo


Il film tratto dall'omonima serie TV di Sky, e, per chi l'ha vista, c'è poco da aggiungere. Si tratta infatti di una delle fiction italiane più di successo da molti anni a questa parte (se non di sempre), che ha provocato episodi di dipendenza non dissimili da quelli della nicotina. La pellicola ne è fortemente debitrice, risultando pienamente comprensibile solo al pubblico più affezionato, tramite rimandi, citazioni ed evoluzioni delle trame dipanate nel corso delle serie.
Comunque sia, buttando alle ortiche la solita parte istituzionale, vorrei (innanzitutto che saltasse subito agli occhi il fatto che sia uscito il giorno del pesce d'aprile. GENI!!!) immediatamente giungere a dire, disinvolto e di gran carriera, che: Boris è stupefacente. È un film vulcanico, pieno di idee, gag, invenzioni, personaggi, cammei, situazioni, citazioni e rimandi, tanto da sembrare pronto a scoppiare. Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo hanno firmato una sceneggiatura di raro dinamismo e inventiva, in cui la figura di René Ferretti si emancipa e si eleva sino a diventare più di un personaggio: una maschera tragicomica, degna di quelle che hanno abitato il nostro immaginario cinematografico. Sembra uno dei vecchi mostri, ma non quelli con una parvenza di nobiltà che popolavano gli anni del boom economico, bensì uno di quelli che vivevano nelle oscure e distorte società degli anni '70. Sembrerebbe infatti quasi un film di Luciano Salce, se non fosse che è così spietatamente attuale. Ed è questa la cosa più sorprendente, la sua cinicità e la sua schiettezza nel definire il panorama di questi anni, usando il grottesco ed una carica di ironia malvagia, degna appunto degli antichi fasti, ad esempio, di Fantozzi.
Tutto di questo film ha dell'incredibile, da come sia riuscito a emergere dalla TV diventando perfetto per il cinema, a come l'intero cast sappia valorizzare la perfetta sceneggiatura, a come respiri una modernità che a tutto il resto del cinema italiano è preclusa, a come la colonna sonora di Giuliano Taviani e Carmelo Travia sappia ergersi fra toni morriconiani e liturgici dominando il film. Senza dimenticare poi la canzone di Elio e le storie tese, che a me riporta alla mente vaghi ricordi di Gialappa's e de Tutti gli uomini del deficente.
Boris è un film tutto da scoprire, fra i suoi risvolti sempre più alienanti e alla deriva, attraversato da un Francesco Pannofino talvolta sopra le righe, ma che sfoggia una maturità che potrebbe finalmente emanciparlo dal ruolo di "tizio che doppia George Clooney" a "tizio che recita in Boris". A piccoli passi, dai, dai, dai.
Ma è anche un film difficile, sostanzialmente colto. Nel mostrare Nicola Piovani o Massimo Popolizio, o nel parlare in modo così caustico di Garrone, Antonioni, della fotografia e della simmetria, richiede allo spettatore una certa consapevolezza. È una pellicola talmente cinefila che siamo quasi ai livelli di un Effetto Notte sboccato e in romanesco, qualcosa di VERAMENTE inedito.
Se proprio vogliamo trovare una pecca, abbiamo un buco bello grande nella regia e nel montaggio. I tre autori non sempre riescono a stare dietro alle idee messe per iscritto, e di fatto non si staccano mai da un'impostazione prettamente televisiva, ottenendo un risultato di grana grossa, sostanzialmente grezzo. Ma anche per questo, Boris è già un cult. Audace e imperfetto, invisibile ma colossale. Tanto divertente quanto, drammaticamente, tragico.



Un film di John Landis, che bellezza, che piacere. È uno di quei momenti da assaporare, fatemelo ridire: un film di John Landis. Il regista che ha inventato l'humour nero, che ha buttato sangue nella commedia, e la commedia nell'horror. Il regista che ha inventato i Coen. Il regista che ha lanciato John Belushi. Il regista dell'unico film perfetto della storia: Una poltrona per due. Il regista di quella cosa indigesta e magnifica che è Thriller di Michael Jackson, che nessuno ha mai avuto davvero voglia di sorbirsi tutto. Il regista di Blues Brothers, e qui possiamo fermarci, prostrarci, e applaudire.
Mancava dalle sale cinematografiche dal 1999, anno di Delitto Imperfetto, dove aveva recitato anche quel mito assoluto vivente (e sottovalutato) che è Dan Aykroyd, ed era davvero troppo tempo.
Burke & Hare è un film tutto suo, intrinsecamente legato alla sua... poetica, se vogliamo chiamarla così. La storia vera degli assassini William Burke e William Hare nell'Edimburgo del diciannovesimo secolo, va a mettersi in coda dietro a tutti i falliti, criminali, mostri e disadattati portati in scena dal maestro di Chicago, anche se, francamente, lì si ferma. Non c'è niente di nuovo rispetto alla sua solita formula, nulla più della sua spietata analisi della natura umana nella sua miseria, venata di grottesco, sepolta dal cinismo. Anzi, al contrario, tutto è talmente datato, nella forma e nei contenuti, da apparire un film fuori dal tempo. Un ritorno in grande stile agli anni '80 e '90 passati con Eddie Murphy e Frank Oz. Non stupisce nemmeno la scelta degli attori, in quanto Andy Serkis è inglese, tenebroso, spaventoso (il mio tessssoro...) e mutevole quanto basta; e Simon Pegg è il nuovo cavallo di razza della comicità britannica, formando con Nick Frost ed Edgar Wright, un team artistico meraviglioso.
Il fatto che questo sia un film storico, anzi archeologico, è poi sottolineato dalle sublimi apparizioni di gente come Ray Harryhausen, Robert Paynter e Michael Winner. Che bellezza, che piacere.


Un film di Lee Chang-dong, che in questo mondo che corre, è già uno dei maestri della cinematografia sudcoreana. Questa è una pellicola difficile da descrivere, perché trova una sua dimensione proprio nella visione privata. L'anziana donna che si muove silenziosamente fra il suo lavoro di badante, il suo ruolo di nonna, e la sua ricerca di poesia, viene raccontata con una calma e un garbo unici. I sensi plurimi di questa storia, le tematiche che fluttuano sulla grana dolce delle immagini, incedono come l'acqua del fiume che apre e chiude la vicenda, la vita, la storia qui narrata.
Se c'è un cinema che oggi sa parlare alle persone, anche a noi occidentali, è proprio quello orientale. Nelle finzioni elaborate e standardizzate di Hollywood ormai regna il vuoto della costruzione artefatta, si tende l'orecchio, ma non si sente più nulla. È nel cinema di autori come Chang-dong o di Zhao Ye che trova spazio la vera vita delle persone in questi tempi terribili. Tempi e luoghi in cui una donna cerca di scovare barlumi di poesia, indagando nella realtà, ascoltando tutte le cose. La troverà nell'elemento meno poetico e più disturbante che ci possa essere, la troverà a costo di soffrire.
Poetry è un film al quale ci si deve donare completamente, per i suoi parametri di noia, rarefazione, lentezza, per la sua pretesa di prendersi del tempo. Per la sua pretesa di voler essere poetico.

Nessun commento:

Posta un commento