giovedì 21 aprile 2011

Habemus Papam

Già di per sé il Cinema è l'arte più discussa e commentata, ma l'analisi e il giudizio dei film di Nanni Moretti è negli anni divenuto uno sport nazionale. Potevo dunque io mancare nel dire la mia? Giammai, poiché tengo troppo ai due fedeli lettori di queste righe. Ordunque, eccola qui...
Habemus Papam è un grandissimo film, e non esagero in iperbole solo perché Boris è uscito da poco, e lo era anch'esso. Questo di Moretti me lo ha in parte ricordato, come mi ha ricordato Rango. E con questa affermazione devo essermi giocato uno dei due lettori, ma sento che l'altro resiste.
Quando si esce dalla visione di Habemus Papam si è assistito ad un doppio film, una commedia e uno estremamente drammatico. Quello drammatico racconta la storia di un uomo che si sente inadeguato, non importa davvero il suo ruolo o il perché. Moretti ha scelto il papa per il suo valore assoluto, per il suo essere un'esatta metafora. Si tratta di una persona che svolge forse il lavoro più importante del mondo, e che nel suo diventarne esecutore non ha voce in capitolo. Scelto da Dio, scelto da Dio, scelto da Dio.
Allo stesso tempo, nella parabola (!) di quest'uomo, Moretti ha certamente colto l'opportunità di infilare una presa in giro della Chiesa e del Vaticano, nonché della psichiatria. Tutta la parte che vede protagonista lui e i cardinali, oltre a servire da contrappunto narrativo, sposta l'obiettivo su di una simpatica combriccola di privilegiati, tratteggiati non a caso come un mucchio di bambini. La sua è una critica blanda e bonaria, disimpegnata e lontana dalla voglia di pungere e creare polemiche. Cosa che comunque, illuso, non ha evitato.
Da buon narcisista, ha creato una macchietta per sé con cui tornare a danzare sullo schermo, brillando negli occhi del suo pubblico. Proprio quel pubblico che lamenta la sua poca presenza, mentre invece, a ben guardare l'economia della storia, è persino troppa. Può infatti infastidire l'eccessiva radicalità di una parte rispetto all'altra, può stonare la vicinanza di scene tanto diverse (oppure, come nel mio caso, può galvanizzare). Ha sicuramente pesato sui giudizi di molti l'aspettativa (amara nemica dello spettatore) di vederlo accanirsi sulla Chiesa, di essere pungente e di fare un film politico, mentre in questo caso Moretti voleva parlare d'altro, voleva essere profondo, voleva tornare a guardare gli uomini nella loro anima. Indipendentemente dal fatto che essa sia frutto di Dio o meno.
L'insinuazione pirandelliana che il ruolo di Papa, come forse ogni altro ruolo, sia solo una maschera da attore, e che non ci sia alcun intervento divino in questo, è la critica più intelligente e sottile che Moretti poteva fare nei confronti del clero, ma tutto ciò, espresso senza sensazionalismi, è passato quasi del tutto inosservato.
Il finale poi, così anti-spettacolare ma pesantissimo, è di rara grandezza. Concludere questa storia con un'amara e apocalittica ammissione di inadeguatezza, con un umile passo indietro, con un coraggioso gesto di responsabilità, è stata una scelta di inestimabile valore morale e civile.
Un film grandissimo appunto, incompreso e sperimentale (che se avesse giovato di un apparato tecnico di maggior importanza, avrebbe potuto essere più chiaro, e invece di umile, colossale).
Oppure magari non ci ho capito niente, ed è stato tutto uno scherzo, in cui fra immagini, musica e parole, Moretti mi ha ipnotizzato e buggerato, per saltare poi fuori alla fine, urlando "Scopa!"

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