venerdì 29 novembre 2013

Inside Llewyn Davis

Come in ogni lavoro dei Coen, questo film è prima un personaggio e poi una storia. Non bisogna farsi ingannare da tutti i nomi in locandina, perché, come sempre, si tratta di un "solo act" per attore solista: un Oscar Isaac che i fratelli pescano laddove nessun altro avrebbe cercato (così come per il Michael Stuhlbarg di A Serious Man) e che brilla di una meravigliosa luce propria per tutti i 105 minuti di durata della pellicola. Il film è costruito attorno a lui, al suo corpo finalmente "normale" (in una Hollywood di corpi artefatti), ma soprattutto al suo volto e alla sua voce dolenti e penetranti.
Come in ogni film dei Coen, luogo e tempo sono fondamentali. Siamo nel Greenwich Village, a New York, che visitano e dipingono per la prima volta nella sua crepuscolare atmosfera fatta di accoglienti bar fumosi, strade avvolte nella nebbia autunnale, pesanti case di cemento percorse da stretti corridoi che conducono in piccoli appartamenti, ricolmi di mucchi di libri e vinili, elemento distintivo della parte più culturalmente avanzata e progressista della città (cose come la cultura new age o il pacifismo di stampo hippie sono tutti giochi della stanza dei fratelli sopra cui ridere felicemente). Bruno Delbonnel sostituisce Roger Deakins in libera uscita sul set di Skyfall, ereditando da lui il modo di fotografare la realtà in colori pastello, sfumati, con toni scuri e improvvisi tagli di luce nell'oscurità. Non è inedita la sua collaborazione con i fratelli, essendoci il breve trascorso del cortometraggio Tuileries con Steve Buscemi.
Come in ogni film dei Coen, la storia cui prendiamo parte non è qualcosa che la Storia ufficiale ricorderà, ma soltanto la sua vigilia, l'antefatto. In questo caso siamo nel 1961, anno di svolta per la musica (folk, ma non solo) perché è in quel novembre che iniziano le registrazioni del primo album di Bob Dylan (che uscirà soltanto l'anno successivo), un ragazzino che porterà una ventata di novità eclatanti nel modo stesso di concepire una canzone e la sua poetica. Ovviamente i fratelli di Minneapolis non potevano raccontare la sua vicenda, la storia di uno che ce l'ha fatta, e hanno puntato la loro penna in direzione di qualcuno che si è invece estinto provandoci. Per farlo hanno rispolverato la loro consueta attitudine a mischiare realtà e finzione in favore di un racconto più vicino alle loro esigenze. Si sono basati sul libro The Mayor of MacDougal Street, che racconta la biografia di Dave Van Ronk (pionieristico folk singer poco conosciuto anche in patria), e ne hanno tratto quegli elementi necessari a dare spessore al loro personaggio. In questo modo non hanno avuto vincoli storici e hanno potuto dedicarsi a una cosa che, come si diceva poco sopra, è per loro fondamentale: la creazione del contesto sociale dell'epoca.

Come in tutti i film dei Coen, non si viene buttati nella mischia senza passare da un ingresso. In passato sono state voci narranti o dialoghi simbolici ad accoglierci, qui invece l'inizio viene preceduto da un'ipnotica esibizione canora. Ancora una volta si parte da un oggetto iconico, un microfono, nella sua importanza di strumento, per poi passare a contemplare Llewyn in tutta la sua intensità. Nemmeno una spiegazione di due ore riuscirebbe a caratterizzare meglio un personaggio di quanto facciano questi pochi minuti, le parole e il tono di questa canzone, queste immagini. La presentazione di Llewyn è tutta qui, questo è ciò che è, ciò che gli piace e vorrebbe fare, e tutto quello in cui crede. Per il resto del film lui non fa altro che ribadire il concetto, tentando di spiegare con le parole agli altri, scettici, ciò che i Coen hanno potuto fortunatamente mostrarci con la loro regia. Al di fuori di questo, della bellezza del momento e del sentimento dell'arte, la vita non è che una folle corsa per la città e le strade d'America (che è come sempre sineddoche del mondo intero), si litiga e si fa pace, si cerca di fare soldi, si fanno bambini, si viaggia senza veramente mai allontanarsi, si vortica sempre in cerchio, secondo la tipica e ineludibile circolarità narrativa dei Coen.
Come in molti dei loro film, c'è un protagonista passivo, che subisce dalla vita e dal destino (anche fisicamente, perché l'uomo nel vicolo altri non è che l'ennesima manifestazione umana, ma forse sarebbe meglio limitarsi soltanto a definirla "concreta", del Destino e dei suoi tiri mancini). L'occhio su Llewyn è l'ennesimo che i fratelli gettano sugli esclusi, sui perdenti, sugli sfortunati che popolano il loro intero cinema, che sono allo stesso tempo i loro eroi e le loro prede preferiti.
Forse Llewyn è un po' meno stupido di tanti altri loro personaggi, è più determinato nel voler portare avanti le sue passioni, è un presuntuoso, uno che crede fermamente in un preciso tipo di musica (lui suona canzoni tristi e sofferte, tutti gli altri motivetti allegri e accattivanti). E almeno in questo si avvicina molto alla psicologia dei suoi creatori, che hanno palesato da tempo la loro assoluta credenza nel ruolo salvifico e superiore della musica (ma il discorso potrebbe contenere ovviamente anche il Cinema, e di conseguenza l'Arte tutta).
Llewyn va idealmente a situarsi accanto a Barton Fink in quanto artista intransigente, convinto nei propri ideali, irremovibile dalle sue posizioni, costretto dalla mancanza di soldi e dalle circostanze della vita a piegarsi, mentre la sua anima va in pezzi. I Coen stessi sono negli anni diventati registi più intransigenti, sempre meno interessati al gusto del pubblico e alle sue esigenze (vedi i loro finali), meno comunicativi in senso stretto, meno accattivanti riguardo le ultime tendenze. Le loro opere continuano lungo un percorso personale che non cede di fronte a nulla, il loro stile si asciuga allontanandosi dai giochi che facevano in gioventù con la macchina da presa. Non c'è un dialogo o un'inquadratura che non siano stati calcolati, non c'è l'ombra di velleità come virtuosistici piani sequenza, anzi il loro cinema tende sempre di più verso l'idea costruttiva del montaggio, che curano come al solito in prima persona. È invece nelle storie, in fase di sceneggiatura, che diventano più sperimentali. Polverizzano la struttura in tre atti, negano qualsiasi punto di riferimento allo spettatore, capovolgono gli equilibri, azzerano il climax e chiudono con il botto, ricordando a tutti che il finale di un film non è la sua ultima inquadratura, ma l'ultima scena.
A conti fatti girano un musical alla Coen (così come lo era Fratello, dove sei?) lasciando che le canzoni (meravigliosamente preparate e riarrangiate da T-Bone Burnett) si espandano sullo schermo, prendano il sopravvento su tutto. È una lunga ballata folk (con conseguente struttura in strofe e ritornello) per Llewyn, gatto randagio del mondo che scappa dalle cose proprio come il gatto che porta con sé, quell'Ulysses che ritorna, proprio dopo Fratello, dove sei? ogni volta che i fratelli ci devono parlare di un viaggio. I gatti randagi sono anche capaci però di abbandonarsi a vicenda, di ferirsi l'un l'altro, di farsi del male lungo una strada deserta in una notte buia.
Inside Llewyn Davis è un film dove non contano i fatti ma le intenzioni, dove più delle immagini conta la musica (nel finale siamo fuori dal locale, invece di stare dentro, dove si sta facendo la storia, e di fatto è molto più importante la parte sonora di quella visiva). Dove si racconta un'altra apocalisse, non più sociale come in Non è un paese per vecchi e Burn After Reading, ma personale. Stavolta il mondo è l'arte, e l'apocalisse è il fallimento, l'evaporazione di qualsiasi sogno, speranza, fede.
Come in ogni film dei Coen, ci viene raccontata l'inesorabilità del Destino, e nel finale avviene la sua dolente, amara accettazione, con un sorriso sprezzante sulle labbra. Forse Llewyn si limiterà ad esistere, come suo padre, protagonista di una delle scene più struggenti, in cui dalle labbra del figlio si leva un elogio a quelle vite "sprecate" poiché condotte normalmente. Qui i Coen sembrano dirci che in fondo, anche quelli che verranno dimenticati, anche quelli che hanno sempre e solo inseguito i pesci dalle loro barche, hanno sempre sognato.
Assomiglia a tutti gli altri film dei Coen, Inside Llewyn Davis, ne è quasi una summa, ma nonostante questo il risultato è lo stesso qualcosa a cui non siamo preparati, e che ci lascia ancora una volta immobili sulla poltrona, invitati e spronati a riflettere, qualcosa di sempre più raro. E poi è puro cinema, che non deriva dal teatro o dalla letteratura, ma da un'idea ben precisa dell'uso di immagini e suoni.
Non esistono altri sguardi come quello dei Coen in circolazione, ed è vero che "non si fanno soldi con questa roba", ma non la baratterei con nient'altro al mondo.