sabato 25 giugno 2011

Give Till It's Gone


Dare fino a non averne più, sembra questo il senso del titolo dell'ultimo disco di Ben Harper. Sì, Ben Harper e basta, senza i Relentless 7 con i quali ha firmato White Lies for Dark Times nel 2009 e conseguente Live l'anno successivo. Ma più che un ritorno alla carriera solista, sembra in realtà una questione burocratica con la Virgin Records, con la quale il cantautore ha chiuso il contratto. Infatti quasi tutte le canzoni dell'album sono state scritte insieme al nuovo collaboratore Jason Mozersky e agli altri membri dei Relentless 7. Per l'appunto non si nota una gran differenza dal disco precedente, come in realtà, a ben guardare, non si sentiva nemmeno da quello rispetto ai lavori con gli Innocent Criminals, tempi gloriosi, comunque.
Riccardo Bertoncelli ha come sempre centrato il punto, nella sua perfetta analisi del lavoro di un musicista giunto ormai al decimo album. Ben Harper è ammirevole nella sua incrollabile fiducia nella musica, nella sua estenuante ricerca del vero rock in mezzo ai moderni grovigli sonori, nella sua autentica passione che lo porta a dedicare la vita, instancabilmente, a ciò che ama. Ma sebbene ci sia tutto questo, manca l'ispirazione. Give Till It's Gone è "una reale estensione dell'ultimo anno e mezzo della mia vita, e tutti questi suoni sono ispirati alle mie esperienze. Non avrei potuto realizzare una "ammissione" musicale più sincera" dice lui, ma i suoni sono sedimentati, antichi, ripassati in tutti i suoi precedenti dischi. La maturità musicale raggiunta con Lifeline è un punto di non ritorno, la freschezza dei pezzi con i criminali innocenti è lontana, e personalmente rimpiango le sonorità soul della collaborazione con i Blind Boys of Alabama.
Non che Harper non abbia provato a rinnovarsi, ma con il suo nuovo gruppo ha solamente dato una sferzata più decisa verso la velocità e la ferocia del rock. Qui neppure quello, soltanto un ritorno a Both Sides of the Gun, con forse un'impercettibile tendenza alla commistione elettronica, come un'anziana signora che si stira le rughe.
Non portano da nessuna parte I Will Not Be Broken, Clearly Severly, Do it for you do it for us, mentre si fatica addirittura ad arrivare alla fine di Dirty Little LoverInteressante la parentesi centrale formata da Spilling Faith e Get There From Here che vedono la partecipazione di Ringo Starr, in cui la seconda è solamente la coda della prima, e si tratta in pratica di una lunga ed ispirata jam in sala fra musicisti. Ideale come accompagnamento per il cervello spento, fidatevi, l'ho provata. Meglio la ballata Feel Love, il mid tempo Waiting on a Sign, e il trascinante singolo Don't Give up on me now.


Dietro all'energetica Rock and roll is free sta invece l'ispirazione data da Rockin' in the free world di Neil Young, in un'esibizione alla quale Harper ha assistito personalmente a Londra nel 2010. È in effetti un pezzo antico, quasi beatlesiano, molto lontano dalle tendenze zeppeliniane che Harper ha sempre ostentato. Un brano comunque dal sapore interessante per i nostalgici del vecchio rock antecedente alla venuta dei computer.
C'è una canzone però che si innalza dalla generale mediocrità in cui si situa quest'album, qualcosa che meriterebbe senz'altro di finire su un Harper's best of, addirittura fra le sue cose migliori. La struggente Pray That Our Love Sees the Dawn, scritta sull'onda dell'emotività scaturita dalla separazione del musicista dall'attrice Laura Dern, dopo una relazione durata complessivamente dieci anni. Parole soffocate ripetono il ritornello mescolandosi in modo straordinario con l'illustre controcanto di Jackson Browne, proprietario degli studi di registrazione nel quale è stato realizzato il disco. Proprio la ricercatezza nella parte vocale rende questo brano particolarmente intenso e toccante, al di là di un'accompagnamento comunque brillante. Dolorosa e cupa, se tutte le canzoni fossero state così, o se Ben Harper fosse partito da qui, questo probabilmente sarebbe stato il suo Blood on the Tracks.
Ma prima, bisogna saper ascoltare il dolore.

sabato 11 giugno 2011

L'evoluzione di James Bond

Niente, ho scritto questa cosa, e dato che è in linea con la roba di cui solitamente si parla qui, magari la posto, prima che cada nel dimenticatoio.

Il caso di James Bond, fondato su elementi, in apparenza, del tutto banali, è in realtà piuttosto particolare. Nato dalla carta stampata ed evolutosi nel Cinema, si è avventurato nei mondi della televisione, del fumetto, del merchandising e dei videogiochi. È stato capace di varcare i confini dei più svariati Media con disinvoltura, come nelle sue avventure ha saputo affrontare e superare qualsiasi tipo di insidia.
In giro per il mondo non si contano i fan club a lui dedicati. L’universalità raggiunta dalla sua figura e dalla sua fama è rapportabile soltanto a quella di personaggi come Sherlock Holmes o Tarzan. Il suo nome è divenuto simbolo della sua professione, e sinonimo del suo ruolo. Quando si parla di spionaggio scatta automatico alla mente il tema di Bond, composto da Monty Norman e John Barry, e non di rado capita di sentire ad un telegiornale frasi quali: “Gli 007 americani hanno intercettato...” “gli 007 italiani hanno sventato...”.
James Bond è insomma entrato talmente a fondo nell’immaginario collettivo da essere divenuto irremovibile, una pietra miliare che getta la sua lunga ombra su chiunque si avvicini al tema.
Il modo in cui ciò è avvenuto è da ricercarsi in un processo a cui molti si sono interessati.  Con Bond ci si trova infatti a dover decifrare una delle più antiche formule del mondo della cultura: il segreto del successo. Ma è facile, tutto sommato, individuare gli elementi che nell’universo bondiano hanno avuto sicura presa sul lettore: le donne, il gioco, il sesso, la violenza.
Umberto Eco, nel suo Le strutture narrative in Fleming, ha saputo individuarli e descriverli, elencando le soluzioni comunicative che dominano i racconti di Bond, gli schemi che li strutturano, i giochi fra aspettativa e invenzione.
Questo però, in buona sostanza, è un discorso che ben si adatta a tutta una serie di eroi e di letteratura d’intrattenimento. La quale procede per inerzia su binari fissi, partendo da un dato punto per arrivare ad un altro, nel modo più indolore possibile. Si tratta di opere di bravi ed esperti artigiani della parola scritta, spesso frutto di collage fra idee rubate, o suggestioni semplicemente citate.
In ciò rientra l’autore di 007, che è stato prima di tutto l’abile scultore di un personaggio, prima di un compositore di storie. Bond è appunto un’affascinante silhouette riempita, un concentrato di vizi e virtù in fuga dalla bidimensionalità. Fuma, beve in modo sofisticato, ama il cibo raffinato, frequenta luoghi di lusso e conquista donne bellissime. È esperto di vini, automobili, vestiti... e di un’infinità di altre cose squisitamente virili. È un abile giocatore di poker, di golf, di bridge, e via dicendo. È un personaggio di sfacciata irrealtà, un modello, un eroe più che un uomo. La sua quasi perfezione e le sue scarse debolezze lo rendono un ideale, un’idea astratta.
Mentre la critica punta il dito sulla sua ingenuità, il pubblico lo adotta, e la sua statura cresce sempre più. Ben presto il personaggio supera la fase di garanzia di immortalità del suo autore, per mettere in ombra anche lui, come se fosse sempre esistito.
Come tutti sanno chi è Superman e pochi conoscono Jerry Siegel e Joe Shuster, allo stesso modo tutti conoscono James Bond e non altrettanti il nome di Ian Fleming. A questo proposito, sebbene sia figlio di un certo tipo di letteratura, in particolare quella noir di autori come John Daly, Chandler e Spillane, non va dimenticata l’influenza che la vulcanica industria del fumetto di quegli anni, ebbe sulla narrativa dell’epoca.

La nascita di personaggi come Batman, Flash Gordon, Dick Tracy, Spirit... portò un allargamento degli orizzonti di quegli scrittori. Gli eroi non erano più soltanto uomini (seppure duri e risoluti) ma superuomini. Il campo d’azione di San Francisco e Los Angeles divenne improvvisamente troppo limitato rispetto alle possibilità offerte dal mondo intero, se non dallo spazio. I gangster di quartiere non potevano competere con terroristi megalomani, e il detective privato, con le sue sole, esigue forze, era inadeguato ad affrontare minacce planetarie. L’evoluzione toccò perfino un pioniere come Dashiell Hammett, che con Alex Raymond (il creatore appunto di Flash Gordon) varò una striscia a fumetti dal titolo Secret Agent X-9 nel 1934, in notevole anticipo sia su Fleming che su Jean Bruce.
Quando James Bond nasce quindi, nel 1953, sono tanti i fili che lo muovono. Non ultimo il cinema, specialmente quello di Alfred Hitchcock, che nelle sue cacce all’uomo e nei suoi intrighi internazionali, ha mostrato la strada a tutta una generazione di cineasti.
Con i personaggi dei fumetti, però, 007 ha anche altre affinità: prima fra tutte la serialità. A differenza di altre famose saghe cinematografiche infatti, Bond ha avuto la particolarità, unica, di essere una presenza sostanzialmente costante nei cinema di tutto il mondo, dal 1962 ad oggi.
Come per il lettore di Spider-man o degli X-men, lo spettatore di 007 può godere di una sua nuova avventura quasi ogni anno. Assiste al cambio degli autori, degli attori, ma la sostanza rimane invariata, così come il piacere che ne deriva. Bond ormai è un appuntamento, un rituale che si consuma con minime variazioni, con la sensazione di una rimpatriata. Perciò la storia passa nettamente in secondo piano rispetto al personaggio. Per anni si è richiesto alla produzione di offrire uno spettacolo in cui Bond fa qualcosa, agisce, spara, picchia o conquista. Lo sfilacciamento delle trame è divenuto così sempre più marcato, e un evidente pretesto per spedire l’eroe in località esotiche. Nelle pellicole con Roger Moore, tutto perde talmente di senso da risultare poco più che una commedia.
Esplicativa è questa scena di La spia che mi amava, dove in un pericoloso inseguimento si inserisce un elemento comico.

Ed è questo un altro aspetto funzionale della serialità: le variazioni sul genere. In primo piano c’è Bond, e sullo sfondo fantascienza, horror, avventura, poliziesco, commedia, love story, e se rimane spazio... spionaggio. Le note del tema di Bond che variano da scena a scena, sono come i temi delle sue avventure, sottoposti a cambi di tonalità, di location, di registro, ma che risuonano comunque familiari.
Il gioco che si instaura fra Bond e lo spettatore è quasi come quello che si instaura fra lui e i suoi nemici. E se è vero che il valore di un uomo si misura dalla forza dei suoi avversari, sia Fleming che gli sceneggiatori cinematografici, si sono sempre preoccupati di crearne di temibili. Spietati, opportunisti, mostruosi e deviati, i cattivi della saga sono tutti esagerati, esempi di malvagità impersonificata. Una mostruosità sia morale che fisica, con corpi menomati o innaturali. In loro convivono le più aberranti caratteristiche dell’uomo, però c’è un momento, in tutti i film, in cui riescono ad avere un dialogo con Bond, una sorta di rapporto. Come a sottolineare il lato oscuro presente, ma nascosto, anche nell’agente segreto. 
Intanto però, secondo un destino comune a molti supercattivi da fumetto, questi biechi criminali sono col tempo diventati ridicoli, almeno agli occhi di un pubblico moderno. I loro bizzarri piani di conquista o distruzione del mondo fanno sorridere per l’ingenuità con cui vengono presentati. E fa sorridere soprattutto il modo in cui Bond, sornione, riesce puntualmente a vanificarli. È anche per colpa della sua invincibilità, che negli anni, l’interesse e la paura per il nemico è sfumata. Questi personaggi fin troppo kitsch, sistematicamente umiliati dal protagonista, ricordano alcuni antagonisti dei vari Batman, Spider-man o Capitan America. Nemici dai costumi sgargianti e dalle personalità disturbate, che riproposti oggi appaiono come delle macchiette, tutt’altro che delle serie minacce.
E questo porta a un altro aspetto della serialità, forse il più importante per definire l’evoluzione nel tempo di James Bond: la storicizzazione.
Nato sui libri all’epoca della Guerra Fredda, cresciuto al cinema nell’era della distensione, 007, come nessun altro eroe del grande schermo, è passato attraverso la Guerra del Vietnam, del Golfo, la caduta del Muro di Berlino, i conflitti in Medio Oriente e l’11 settembre. Ha dovuto fare i conti con un mondo in fermento e con i cambiamenti della politica. Ha rischiato di rimanere indietro, specialmente nel modo di intendere la donna. Ci sono state rivoluzioni di costume, sessuali e tecnologiche. Il suo armamentario fantascientifico dei primi film non sembra più così lontano, e anzi è stato in alcuni casi sorpassato. Come al solito la realtà ha superato la fantasia, e molte sue avventure avrebbero potuto risolversi facilmente se avesse avuto con sé un moderno telefonino.
Negli ultimi film, spicca soprattutto l’assenza di Q e dei suoi gadget. Ma al giorno d’oggi non sarebbe più proponibile che Bond riuscisse a sfuggire a qualche sgherro in questo modo.

Quindi, se qualcosa ha perso la saga evolvendosi, è di certo la sua vena più innocente e fantasiosa. Bond è ancora capace di battutine ironiche, di ammiccamenti, ma non può più scherzare, come nella scena in cui Timothy Dalton e Maryam d’Abo fuggono usando la custodia di uno Stradivari per scivolare sulla neve. È diventato più serio e più drammatico, forse più cattivo. Sebbene La morte può attendere sia ancora un film esagerato e persino ingenuo (soprattutto nelle sequenze ambientate sui ghiacci dell’Islanda), dimostra già una nuova vena di cambiamento. È un’americanata, ma non più un’ironica e stravagante avventura, come testimonia la sequenza di tortura che si dilunga sopra tutti i titoli di testa. E si tratta in questo caso di una sevizia dura e concreta, realmente violenta, non come quella del laser in Goldfinger.
Forse è la tendenza dell’ultimo cinema Hollywoodiano di separare dramma e commedia su binari ben distinti. Così che gli 007 adesso sono esemplari di un cinema d’azione in linea con gli altri prodotti del genere. O forse, dopo serie come 24 e Alias, e film come Munich (dove ha recitato lo stesso Daniel Craig tra l’altro) o la saga di Bourne, è semplicemente cambiato il modo di intendere lo spionaggio.
Ad essere mutato però non è soltanto Bond, ma anche chi lo osserva. Ciò che faceva scalpore negli anni ’60 oggi non trova più nemmeno spazio sui giornali. È cambiata la percezione della violenza, si è spostata l’asticella della decenza. In un era in cui i film vengono presto dimenticati, per attirare l’attenzione su di sé, la nuova produttrice: Barbara Broccoli, figlia di Albert, ha dovuto puntare al rialzo. È stata interrotta la passerella dei soliti quattro registi: Young, Hamilton, Gilbert e Glen; e sono stati reclutati dei talentuosi filmaker d’azione, fino a Marc Forster, che con una candidatura per il Miglior Film agli Oscar 2005, è di fatto il regista più prestigioso (tutt'altro che il migliore) che si sia avvicinato alla saga. Almeno fino al prossimo, per il quale la produzione ha reclutato Sam Mendes, vincitore di un Oscar.
L’attenzione agli autori, a direttori della fotografia importanti (si vocifera di Roger Deakins), e soprattutto alle nuove sceneggiature (garantite da Paul Haggis, e nel prossimo dall'ottimo John Logan) manifesta la direzione intrapresa. I nuovi episodi di 007 non possono essere costosi giocattoli, non soltanto, devono dare dei motivi ad un pubblico stanco, di tornare, ancora una volta, in missione.
Subentra quindi una maggior attenzione ai personaggi e un ampliamento del loro ruolo. M  non si limita più a sedere dietro una scrivania, ma è parte attiva, e soprattutto le Bond girl assumono spessore e caratura da coprotagonisti. Bond è più tormentato, scopre i sentimenti, e anche se lo maschera: l’amore.
Va detto, che Casino Royale era il primo, il romanzo del dubbio e della formazione. Il primo incerto passo in cui l’eroe si interroga su sé stesso. Da Vivi e lascia morire la sua marcia sarà sicura, e condotta con proverbiale sopracciglio inarcato. Ma già gli ultimi Brosnan, e il secondo Craig, portano con sé moderni tormenti da anti-eroe.
Insomma, Bond ha smesso di essere un caso per diventare un classico. I suoi toni eccessivi si sono smorzati, così come la voglia di parodiarlo. È rimasto un tipo straordinario, ma forse più verosimile e umano. È stato in grado di evolvere rimanendo fermo, di adattarsi ai tempi e di non rimanere indietro. Il suo essere così ancorato al presente, ad ogni presente, rende impossibile prevedere come cambierà, se cambierà, negli anni a venire. Ma siamo sicuri che qualsiasi cosa gli riservi il futuro, riuscirà comunque a cavarsela.



C'è un numero esorbitante di pistole in questa pagina.

sabato 4 giugno 2011

Four Lions

TROVA LE DIFFERENZE

È davvero molto triste. Il modo in cui la distribuzione italiana ha cercato di vendere questo film, intendo. È patetico. La locandina originale ci mette chiaramente di fronte ad una commedia, ma sottolinea anche la sua nera ambiguità. E soprattutto, con quell'esplosivo e quel corvo, lascia presagire l'argomento del quale si parlerà. In quella italiana abbiamo invece quattro tizi vestiti in modo ridicolo, che potrebbero essere quattro scanzonati amici in vena di follie, richiamando neanche troppo lontanamente Una notte da leoni 2 tutt'ora al cinema. Ma passi la foto, che in realtà non è nemmeno troppo fuorviante.
Qui il problema è (come parecchie altre volte) il dannato sottotitolo. "Poco leoni, molto..." già di per sé non significa un beneamato, ma unito all'immagine di sopra, dà l'idea di uno spettacolo di poco diverso da un film dei fratelli Zucker o Wayans, oppure, per la gioia del pubblico italico, di qualcosa non molto distante da un bizzarro cinepanettone. Che poi, se un regista decide di chiamare in un certo modo il suo film, con due sole parole, senza mettere nessun merdoso sottotitolo, forse è perché ha piacere (nonché il sacrosanto diritto) di lanciare un dato messaggio. Forse vuole proporre un'ambigua suggestione, lasciandolo vano. Forse vuole dirci qualcosa, che non è tutto. E invece no, sottotitoliamolo, perché tanto gli spettatori sono tutti una manica di ebeti, e bisogna imboccarli. Perciò grandi risate! Quattro svitati! Guarda i costumi! Prendi i popcorn! Poco leoni, molto... molto...
Molto un cazzo.
Chiusa parentesi.

Chris Morris è un'esordiente al cinema, ma non proprio una giovane promessa. Da oltre vent'anni inventa, produce e conduce programmi satirici (televisivi e radiofonici) nella natia Britannia. È portatore di un umorismo che ha profonde radici nel proverbiale humour inglese, ma che è stato capace di evolversi in maniera tutto sommato piuttosto originale. È soprattutto una cifra stilistica cinica e irriverente la sua, e che è stato in grado di travasare ottimamente all'interno di un media (a volte ostico) come il cinema. Four Lions così, nonostante il delicato tema, emerge come una pellicola molto divertente, dissacrante, perfino impietosa. Il gruppo di aspiranti terroristi inglesi, che vogliono assolutamente farsi saltare in aria per uccidere gli infedeli, è una fucina di gag, un campionario di battute. Le dinamiche di rapporto fra i caratteri diversi, le diverse convinzioni, la marcata ottusità e la macchiettistica demenza, mischiate alle strambe situazioni in cui i personaggi si ritrovano, costruiscono, scenetta dopo scenetta, la struttura del film. 
Ma fra le righe Morris fa emergere dell'altro, fa passare una sottile critica a tutto il modo in cui il terrorismo viene percepito e trattato oggi. Tratta della sua Inghilterra ma anche del Medio Oriente, della maniera in cui la guerra viene portata avanti e in cui la polizia si occupa delle emergenze. Fa spesso pensare ai Coen l'ombra grottesca con la quale veicola i suoi messaggi, l'impietosa caratterizzazione dei suoi anti-eroi, la loro ingenuità di fronte a cose più grandi di loro. Ma c'è un tono agghiacciante in questo scherzo, portato da una regia documentaristica e dall'assenza pressoché totale di musica. L'indifferenza con cui dispone dei suoi personaggi e del loro destino, al di là di un'immediata empatia con lo spettatore, diventa la chiave per parlare dell'ineluttabilità del male.
Una commedia demenziale che raggela il sangue e sa far riflettere, e alla cui fine si rimane più seri e spaesati che con un adrenalinico thriller. Non era facile.