venerdì 29 novembre 2013

Inside Llewyn Davis

Come in ogni lavoro dei Coen, questo film è prima un personaggio e poi una storia. Non bisogna farsi ingannare da tutti i nomi in locandina, perché, come sempre, si tratta di un "solo act" per attore solista: un Oscar Isaac che i fratelli pescano laddove nessun altro avrebbe cercato (così come per il Michael Stuhlbarg di A Serious Man) e che brilla di una meravigliosa luce propria per tutti i 105 minuti di durata della pellicola. Il film è costruito attorno a lui, al suo corpo finalmente "normale" (in una Hollywood di corpi artefatti), ma soprattutto al suo volto e alla sua voce dolenti e penetranti.
Come in ogni film dei Coen, luogo e tempo sono fondamentali. Siamo nel Greenwich Village, a New York, che visitano e dipingono per la prima volta nella sua crepuscolare atmosfera fatta di accoglienti bar fumosi, strade avvolte nella nebbia autunnale, pesanti case di cemento percorse da stretti corridoi che conducono in piccoli appartamenti, ricolmi di mucchi di libri e vinili, elemento distintivo della parte più culturalmente avanzata e progressista della città (cose come la cultura new age o il pacifismo di stampo hippie sono tutti giochi della stanza dei fratelli sopra cui ridere felicemente). Bruno Delbonnel sostituisce Roger Deakins in libera uscita sul set di Skyfall, ereditando da lui il modo di fotografare la realtà in colori pastello, sfumati, con toni scuri e improvvisi tagli di luce nell'oscurità. Non è inedita la sua collaborazione con i fratelli, essendoci il breve trascorso del cortometraggio Tuileries con Steve Buscemi.
Come in ogni film dei Coen, la storia cui prendiamo parte non è qualcosa che la Storia ufficiale ricorderà, ma soltanto la sua vigilia, l'antefatto. In questo caso siamo nel 1961, anno di svolta per la musica (folk, ma non solo) perché è in quel novembre che iniziano le registrazioni del primo album di Bob Dylan (che uscirà soltanto l'anno successivo), un ragazzino che porterà una ventata di novità eclatanti nel modo stesso di concepire una canzone e la sua poetica. Ovviamente i fratelli di Minneapolis non potevano raccontare la sua vicenda, la storia di uno che ce l'ha fatta, e hanno puntato la loro penna in direzione di qualcuno che si è invece estinto provandoci. Per farlo hanno rispolverato la loro consueta attitudine a mischiare realtà e finzione in favore di un racconto più vicino alle loro esigenze. Si sono basati sul libro The Mayor of MacDougal Street, che racconta la biografia di Dave Van Ronk (pionieristico folk singer poco conosciuto anche in patria), e ne hanno tratto quegli elementi necessari a dare spessore al loro personaggio. In questo modo non hanno avuto vincoli storici e hanno potuto dedicarsi a una cosa che, come si diceva poco sopra, è per loro fondamentale: la creazione del contesto sociale dell'epoca.

Come in tutti i film dei Coen, non si viene buttati nella mischia senza passare da un ingresso. In passato sono state voci narranti o dialoghi simbolici ad accoglierci, qui invece l'inizio viene preceduto da un'ipnotica esibizione canora. Ancora una volta si parte da un oggetto iconico, un microfono, nella sua importanza di strumento, per poi passare a contemplare Llewyn in tutta la sua intensità. Nemmeno una spiegazione di due ore riuscirebbe a caratterizzare meglio un personaggio di quanto facciano questi pochi minuti, le parole e il tono di questa canzone, queste immagini. La presentazione di Llewyn è tutta qui, questo è ciò che è, ciò che gli piace e vorrebbe fare, e tutto quello in cui crede. Per il resto del film lui non fa altro che ribadire il concetto, tentando di spiegare con le parole agli altri, scettici, ciò che i Coen hanno potuto fortunatamente mostrarci con la loro regia. Al di fuori di questo, della bellezza del momento e del sentimento dell'arte, la vita non è che una folle corsa per la città e le strade d'America (che è come sempre sineddoche del mondo intero), si litiga e si fa pace, si cerca di fare soldi, si fanno bambini, si viaggia senza veramente mai allontanarsi, si vortica sempre in cerchio, secondo la tipica e ineludibile circolarità narrativa dei Coen.
Come in molti dei loro film, c'è un protagonista passivo, che subisce dalla vita e dal destino (anche fisicamente, perché l'uomo nel vicolo altri non è che l'ennesima manifestazione umana, ma forse sarebbe meglio limitarsi soltanto a definirla "concreta", del Destino e dei suoi tiri mancini). L'occhio su Llewyn è l'ennesimo che i fratelli gettano sugli esclusi, sui perdenti, sugli sfortunati che popolano il loro intero cinema, che sono allo stesso tempo i loro eroi e le loro prede preferiti.
Forse Llewyn è un po' meno stupido di tanti altri loro personaggi, è più determinato nel voler portare avanti le sue passioni, è un presuntuoso, uno che crede fermamente in un preciso tipo di musica (lui suona canzoni tristi e sofferte, tutti gli altri motivetti allegri e accattivanti). E almeno in questo si avvicina molto alla psicologia dei suoi creatori, che hanno palesato da tempo la loro assoluta credenza nel ruolo salvifico e superiore della musica (ma il discorso potrebbe contenere ovviamente anche il Cinema, e di conseguenza l'Arte tutta).
Llewyn va idealmente a situarsi accanto a Barton Fink in quanto artista intransigente, convinto nei propri ideali, irremovibile dalle sue posizioni, costretto dalla mancanza di soldi e dalle circostanze della vita a piegarsi, mentre la sua anima va in pezzi. I Coen stessi sono negli anni diventati registi più intransigenti, sempre meno interessati al gusto del pubblico e alle sue esigenze (vedi i loro finali), meno comunicativi in senso stretto, meno accattivanti riguardo le ultime tendenze. Le loro opere continuano lungo un percorso personale che non cede di fronte a nulla, il loro stile si asciuga allontanandosi dai giochi che facevano in gioventù con la macchina da presa. Non c'è un dialogo o un'inquadratura che non siano stati calcolati, non c'è l'ombra di velleità come virtuosistici piani sequenza, anzi il loro cinema tende sempre di più verso l'idea costruttiva del montaggio, che curano come al solito in prima persona. È invece nelle storie, in fase di sceneggiatura, che diventano più sperimentali. Polverizzano la struttura in tre atti, negano qualsiasi punto di riferimento allo spettatore, capovolgono gli equilibri, azzerano il climax e chiudono con il botto, ricordando a tutti che il finale di un film non è la sua ultima inquadratura, ma l'ultima scena.
A conti fatti girano un musical alla Coen (così come lo era Fratello, dove sei?) lasciando che le canzoni (meravigliosamente preparate e riarrangiate da T-Bone Burnett) si espandano sullo schermo, prendano il sopravvento su tutto. È una lunga ballata folk (con conseguente struttura in strofe e ritornello) per Llewyn, gatto randagio del mondo che scappa dalle cose proprio come il gatto che porta con sé, quell'Ulysses che ritorna, proprio dopo Fratello, dove sei? ogni volta che i fratelli ci devono parlare di un viaggio. I gatti randagi sono anche capaci però di abbandonarsi a vicenda, di ferirsi l'un l'altro, di farsi del male lungo una strada deserta in una notte buia.
Inside Llewyn Davis è un film dove non contano i fatti ma le intenzioni, dove più delle immagini conta la musica (nel finale siamo fuori dal locale, invece di stare dentro, dove si sta facendo la storia, e di fatto è molto più importante la parte sonora di quella visiva). Dove si racconta un'altra apocalisse, non più sociale come in Non è un paese per vecchi e Burn After Reading, ma personale. Stavolta il mondo è l'arte, e l'apocalisse è il fallimento, l'evaporazione di qualsiasi sogno, speranza, fede.
Come in ogni film dei Coen, ci viene raccontata l'inesorabilità del Destino, e nel finale avviene la sua dolente, amara accettazione, con un sorriso sprezzante sulle labbra. Forse Llewyn si limiterà ad esistere, come suo padre, protagonista di una delle scene più struggenti, in cui dalle labbra del figlio si leva un elogio a quelle vite "sprecate" poiché condotte normalmente. Qui i Coen sembrano dirci che in fondo, anche quelli che verranno dimenticati, anche quelli che hanno sempre e solo inseguito i pesci dalle loro barche, hanno sempre sognato.
Assomiglia a tutti gli altri film dei Coen, Inside Llewyn Davis, ne è quasi una summa, ma nonostante questo il risultato è lo stesso qualcosa a cui non siamo preparati, e che ci lascia ancora una volta immobili sulla poltrona, invitati e spronati a riflettere, qualcosa di sempre più raro. E poi è puro cinema, che non deriva dal teatro o dalla letteratura, ma da un'idea ben precisa dell'uso di immagini e suoni.
Non esistono altri sguardi come quello dei Coen in circolazione, ed è vero che "non si fanno soldi con questa roba", ma non la baratterei con nient'altro al mondo.



venerdì 25 ottobre 2013

Oh Boy, un caffé a Berlino

Musica Jazz sul nulla, parte come il classico Woody Allen, poi compaiono le prime immagini in bianco e nero: una ragazza su di un letto; si respira subito odore di Nouvelle Vague, poi ci si rende conto che i personaggi parlano in tedesco, e guardando il protagonista vagare senza meta si comincia a ricordare il modo in cui Wim Wenders faceva cinema un tempo. Lungo questo scivolo citazionista che attraversa la storia del cinema si arriva infine dalle parti di Jim Jarmush e, vista la compressione temporale in un'unità ristretta come una (pessima, terribile) giornata, ad opere come La 25a ora di Spike Lee o Fuori Orario di Martin Scorsese.
Ricapitolando: un storia senza meta come quelle dei francesi e degli italiani degli anni '60, condita dall'umorismo di Woody Allen, nel paese di Wenders, in una narrazione da cinema moderno americano. Si nota che quest'opera prima di Jan Ole Gerster, che scrive e dirige, è il suo diploma alla scuola di cinema e televisione di Berlino.
La storia è in realtà quella di un personaggio antico almeno quanto Ulisse (sia quello di Omero che di Joyce): Niko Fischer (Tom Schilling) si muove per Berlino alla ricerca di un caffè, incontrando varie persone e destreggiandosi fra altrettante situazioni. Spiegare di più toglierebbe gusto alla pellicola. 
Nonostante il fatto di essere un prototipo, il film non ha difetti d'ingenuità contenutistica o stilistica.   L'unica cosa che gli manca davvero, secondo me, è un certo passo di carica, un certo ritmo sostenuto che sarebbe stato necessario conferire in sede di montaggio. Invece, nonostante si rida e si apprezzi quanto avviene sullo schermo, alla lunga penetra nella coscienza dello spettatore una sensazione di stanchezza, quasi come se nella seconda parte il film si trascinasse. Eppure è un lavoro diretto con capacità, dove tutto è corretto e nel posto giusto, anche se forse, per far digerire meglio la gran parte dei dialoghi, serviva qualche guizzo d'inventiva in più in fase di regia.
In ogni caso è la sceneggiatura a caratterizzare il film, non solo attraverso la costruzione dei lunghi dialoghi, come detto, ma anche mediante una struttura sapientemente studiata. Presente passato e futuro s'incontrano senza enfasi ed esaltazione per le vie di una città come Berlino, che ha proprio la caratteristica di essere allo stesso tempo imprigionata nel suo passato (Oh Boy è anche, a suo modo, un originale film sul nazismo) mentre tenta disperatamente di proiettarsi verso il futuro.


L'autore sa dosare le parti, sa quando e come alleggerire, e come imbastire un'alternanza di pieni e vuoti, di scene intense e di svago che danno equilibrio all'esperienza di visione. Ad esempio ci sono genuini pezzi di bravura e manifestazioni di verve comica non comuni, anche se, a voler proprio essere minuziosi, si potrebbe dire che spesso i personaggi che non sono Niko appaiono un po' più come espedienti narrativi che come figure reali. Appaiono e scompaiono al momento giusto senza una vera e propria psicologia, utili ad innescare mirate riflessioni nel protagonista e nel suo spettatore-ombra. Una cosa che, giusto per dire, in Fuori Orario e La 25a ora non succede. I personaggi secondari del film vanno così a comporre un recinto di figure attanziali contro cui il protagonista va a sbattere, diventando perciò unico obiettivo (nonché già unico punto di osservazione) dello sguardo dello spettatore.
Non so dire se questo sia un film tipicamente tedesco (in patria ha vinto ben 6 German Academy Awards, stracciando la concorrenza agguerrita e milionaria di Cloud Atlas) ma è sicuramente e fortemente un film europeo. In un'opera della tipica Hollywood non capiterà mai di trovare un protagonista così passivo e negativo (disoccupato, indolente, scostante, confuso) che assurge ad eroe positivo. Anche per questo Oh Boy è un film che rifugge la comune morale benpensante, proponendo un ritratto dolceamaro e fosco, ma anche teneramente indulgente, della nostra società.
Le secchiate di piccole riflessioni che colpiscono Niko nella sua giornata infernale estendono la loro portata anche verso lo spettatore, portandolo a smarrirsi nella metropoli, per poi mostrargli quanto sia duro e frustrante ritrovarsi.
Poco importa se ai nostri occhi il film sia riuscito appieno o meno, o se, e in quale misura, il pubblico voglia apprezzarlo. Come il suo protagonista, Oh Boy, un caffè a Berlino, non ha nessuna voglia e nessun bisogno di essere giudicato.



sabato 28 settembre 2013

Sacro GRA

Una delle critiche fatte a "La Grande Bellezza" di Paolo Sorrentino era quella che le cose raccontate non fossero vere, che quei personaggi nella realtà non esistessero, e che quel ritratto così caricaturale del mondo non fosse uno spaccato fedele di società. Prescindendo dalla fondatezza di tali discorsi, se non altro a "Sacro GRA" di Gianfranco Rosi queste accuse non possono essere fatte, poiché, nella sua linea più caratterizzante, si tratta di un documentario. Un documentario nel senso che muove il suo racconto partendo da storie vere, che non rielabora, riadatta o narrativizza in fiction. Un documentario quindi nel suo progetto, ma forse più un film nel suo esito, almeno per chi non ha più seguito le derive e le innovazioni del documentario moderno, perché a dire la verità lo stile adottato da Rosi non è più inconsueto di tante altre opere che passano (poco) sul grande schermo o (più copiosamente) nei festival cinematografici. Non ci sono le classiche interviste, i momenti rubati, le riprese illustrative, perché questo film rifugge lo scopo primario del documentario classico che è presumibilmente sempre stato quello di illustrare, diffondere, o trasmettere contenuti come nel campo della letteratura farebbe un saggio. Invece "Sacro GRA" non insegna niente e si limita a mostrare, facendo fruttare al meglio l'unico strumento di decifrazione del reale in suo possesso: lo sguardo del suo autore.
Rosi posa un occhio poetico sulla celebre autostrada romana concentrandosi sulle persone. Si ferma fuori dalle finestre mettendosi a origliare discorsi privati che non veicolano precisi contenuti, ma che spargono scaglie di piccole vite. I personaggi sono come puntini sparsi nella periferia della Capitale, che la concreta penna dell'asfalto unisce (come nel classico gioco enigmistico) nel caotico e fatalista cerchio anulare. "Sacro GRA" fa sue e affina al massimo le tecniche del documentario moderno, imponendo una più precisa e studiata messa in scena del reale, per raccontarlo meglio e più efficacemente, senza per questo falsare (più di tanto) la visione. La fotografia si fa linguaggio e non semplice strumento, il suono diventa fondamentale e cancella qualsiasi necessità di una musica d'accompagnamento, in quella che potrebbe essere la storia di qualsiasi periferia del mondo, e che in questo caso è quella della caput mundi. Rosi racconta tutto e niente, divulga il fluire dell'esistenza umana, che procede senza scopo in cerchio, che scorre come il fiume di automobili in perpetuo movimento, ridotte a puntini sfuocati, a miniature sotto enormi cieli di nuvole o inghiottite in eterni campi lunghi. Il tempo scorre, le vite scadono, in una lentissima picchiata che perde di senso istante dopo istante; ma in tutta questa decadenza (di cui è esplicativo al massimo il personaggio del nobile) brillano alcune scintille di tenerezza, positività e calore: la canzone che fa tornare il sorriso alle prostitute, l'affetto verso una vecchia madre afflitta da demenza senile...
Il "Sacro" presente nel titolo non è solo un gioco di riferimenti, il film si muove anche su una precisa dimensione spirituale (e non, attenzione, religiosa) che viene perfettamente denunciata in una sequenza in particolare, quella della neve. Nell'osservare l'umanità colpita dalla calamità naturale, intrappolata nel gelo dell'insensato ingorgo sull'autostrada, Rosi sembra scolpire per immagini una Pietà dell'uomo, sembra voler dare una carezza a qualcosa d'incomprensibile come la nostra esistenza, proprio perché ineluttabile, proprio perché forse la colpa non è di nessuno.
La delicatezza con cui il regista osserva il particolare, per poi programmaticamente staccarsene in favore di una morbida visione dall'alto, dimostra quanto il suo lavoro non operi in una dimensione concreta (al contrario ad esempio di un autore come Matteo Garrone, i cui film, anche se scritti, sono in verità molto vicini a questo tipo di Cinema) ma piuttosto alta, spirituale appunto. L'impressione è quella che nei suoi momenti più felici il film di Rosi si trasformi in una preghiera, non per l'uomo, o per il caso particolare, ma per l'umanità tutta.
A credere nella sincronicità, non è un caso che due opere come "Sacro GRA" e "La Grande Bellezza", che nelle opinioni di molti sembrano quasi essere due facce della stessa medaglia, siano apparse nello stesso anno e abbiano avuto un così largo successo, chi di pubblico e chi di critica. Forse gli autori del nostro paese cominciano a riflette sul decennio appena passato e sul nostro presente, proponendo ritratti di questa nostra società in decadenza.
Forse, fra le pieghe del loro discorso, è comunque intravedibile un flebile spiraglio di speranza cui appigliarsi, ed è per questo che è positivo che "Sacro GRA" si sia portato a casa il Leone d'Oro. Perché forse altrimenti la nostra miope distribuzione non l'avrebbe distribuito, e noi, distratto pubblico, non l'avremmo visto. Perché forse era il film giusto al momento giusto anche per mostrare che un tipo di Cinema diverso è possibile, e che già da alcuni anni si sta facendo. Perché "Sacro GRA" è efficace come uno specchio puntato sulle nostre vite e sulle persone che ci circondano, mostrandoci quanto in fondo siamo identici ai parassiti delle palme, che infestano ciecamente la pianta fino ad ucciderla, scavando con rabbia e urlando. Così va il mondo.

lunedì 25 febbraio 2013

Il film dell'anno 2013



MIGLIOR FILM

Argo di Ben Affleck

I faccioni barbuti e sorridenti di Grant Heslov, Ben Affleck e George Clooney (il primo e l'ultimo produttori di lusso, oltreché notevoli registi, negli ultimi anni di un buon numero di film impegnati politicamente e socialmente) stanno lì a confermarci che Argo era il film giusto, al momento giusto, con il messaggio giusto, che serviva all'America in questo frangente. In realtà nei loro occhi è comunque visibile una certa tenue tristezza, poiché in cuor loro sanno che l'edizione degli Oscar di quest'anno vede un mio clamoroso passo indietro nel campo delle previsioni dei vincitori. Ebbene sì amici, mi posso scordare un risultato prestigioso come quello dello scorso anno (14 su 24, non so se mi spiego). Questo giro è stato talmente balordo che ho fatto previsioni solo su 21 candidature, dimenticandone stoltamente e arbitrariamente ben 3, che andranno quindi considerate fallite. Lo so che sono notizie dure da digerire, ma facciamoci forza.

MIGLIOR REGISTA

Ang Lee per Vita di Pi

Giuro che l'ho pensato stanotte, durante le riflessioni del dormiveglia, che forse nel mucchio avrebbero potuto scegliere Ang Lee. Poi ho detto no, dai, è impossibile. E invece, come hanno imparato bene gli italiani oggi, la vita è piena di sorprese.

MIGLIOR ATTORE

Daniel Day-Lewis – Lincoln

Qui ci ho preso, ma qualsiasi creatura sulla Terra con il pollice opponibile avrebbe detto la stessa cosa.

MIGLIOR ATTRICE

Jennifer Lawrence – Il lato positivo – Silver Linings Playbook

Vedi? Qui dimostro invece di non averci capito una fava. Nei pronostici ho detto praticamente tutti i nomi di tutte le attrici tranne quello della bellissima Jennifer, che è pure caduta sulle scale. Povera stella. Se hai bisogno di un massaggio chiamami, Jenny.

MIGLIOR FILM D’ANIMAZIONE

Ribelle – The Brave di Mark Andrews e Brenda Chapman

Incredibile... ho fallito anche nella previsione riguardante il film d'animazione, che è storicamente un campo in cui non sbaglio mai. Un baluardo dei miei giudizi, la mia Lombardia.

MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA

Christoph Waltz – Django Unchained

Troppo facile, sigh...

MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA

Anne Hathaway – Les Misérables

Pure qui, dai. È impossibile che non vinca la gente che balla e canta o piange e soffre, o fa entrambe le cose.

MIGLIOR SCENEGGIATURA NON ORIGINALE

Argo – Chris Terrio

Qui infatti, che ci tenevo, ho fallito. Avrei dovuto aspettarmi che questo premio sarebbe stato regalato ad Argo per giustificarne il trono di miglior film.

MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE

Django Unchained – Quentin Tarantino

Questo di Quentin invece è stato un bel colpo eh? Mi va riconosciuto. Sì, certo, a me che ci ho preso, mica a lui che non meritava una sega.

MIGLIOR FOTOGRAFIA

Vita di Pi – Claudio Miranda

Una tristezza, guardate. Roger è di nuovo rimasto a secco. Comincio a credere che non dovrei più pronosticare nulla per quanto riguarda la fotografia, per non portare sfortuna ai miei beniamini. Siete comunque dei mostri a premiare una cazzata come le immagini al computer di Vita di Pi invece dei dipinti di Roger.

MIGLIORI COSTUMI

Anna Karenina – Jacqueline Durran

Ma chissene!

MIGLIOR MONTAGGIO

Argo – William Goldenberg


Pure qui vince Argo dall'alto di non si sa cosa. Ah sì giusto, dal fatto che è il signor miglior film. Cosa credete, tutto questo livore è dettato soltanto dal fatto che sono al 7 pronoscito sbagliato su 12. Pessimo...

MIGLIOR FILM IN LINGUA STRANIERA

Amour (Austria)

Per fortuna in questo campo ho un certo signor Haneke a darmi man forte, e recuperiamo un poco!

MIGLIOR TRUCCO

Les Misérables – Lisa Westcott and Julie Dartnell

Lasciare fuori Lo Hobbit è stata una vergogna, e questo Oscar m'indigna. No, non è vero, ma sentivo il bisogno di dire qualcosa di forte.

MIGLIOR MUSICA

Vita di Pi – Mychael Danna

Capito che ho sbagliato anche questo? Questo che era l'unico premio che avrei dato bello soddisfatto ad Argo.

 MIGLIOR CANZONE ORIGINALE

Skyfall – “Skyfall”, musica e testo di Adele Adkins e Paul Epworth

Grandissima gioia per questa vittoria (la mia, ovvio) anche se questa canzone non mi ha, di fondo, mai detto nulla, ed è quasi ridicolo abbia vinto un Oscar.

MIGLIOR SCENOGRAFIA

Lincoln – Rick Carter; Jim Erickson

Questo è stato un bel colpo, eh? Non ve l'aspettavate, eh? Con me sempre attenti, ve lo dico, che quando meno ve l'aspettate: zac! Ti indovino una miglior scenografia qualsiasi...

MIGLIOR DOCUMENTARIO

Searching for Sugar Man

Non so voi, ma io qui sento puzza di rimonta.

MIGLIOR CORTOMETRAGGIO DOCUMENTARIO

Inocente di Sean Fine e Andrea Nix Fine

Come non detto...

MIGLIOR CORTOMETRAGGIO ANIMATO

Paperman – John Kahrs


Altro sonoro tonfo per me, ma sinceri complimenti al vincitore, che ho effettivamente visto e meritava un riconoscimento. Consigliatissimo a tutti.

MIGLIORI EFFETTI SPECIALI

Vita di Pi – Bill Westenhofer, Guillaume Rocheron, Erik-Jan De Boer e Donald R. Elliott

Basta, dopo quest'ennesima sconfitta (mia) e vittoria (di Vita di Pi) non gioco più. No, è inutile, basta.

In verità, è che questi ultimi tre mi ero dimenticato di citarli. Lo so, figuraccia. Voglio solo fare notare che l'ultimo fra questi sembra una sorta di premio di consolazione a due dei film più interessanti presenti quest'anno, ma ignorati invece nelle categorie "più importanti".



MIGLIOR CORTOMETRAGGIO

Curfew – Shawn Christensen

SONORO

Les Misérables - Andy Nelson, Mark Paterson e Simon Hayes

MONTAGGIO DEL SUONO (doppio oscar)

Skyfall - Per Hallberg e Karen Baker Landers
Zero Dark Thirty - Paul N.J. Ottosson

Venendo a parlare di cose importanti: si registra un mio preoccupante calo, con il risultato di soli e miseri 10 premi indovinati su 24, a fronte dei bei 14 della volta scorsa. Un peccato, e un vistoso passo indietro. E sapete cosa?
Toccherà farsene una ragione.


domenica 24 febbraio 2013

Pronostici Oscar 2013

Pronti a giocare allegramente anche quest'anno?


MIGLIOR FILM
  • Amour di Michael Haneke
  • Argo di Ben Affleck
  • Beasts of the Southern Wild
  • Django Unchained di Quentin Tarantino
  • Les Misérables di Tom Hooper
  • Vita di Pi di Ang lee
  • Lincoln di Steven Spielberg
  • Il lato positivo – Silver Linings Playbook di David O. Russell
  • Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow
Da tutti i premi collaterali vinti, sembra proprio che questo sia l'anno di Argo, quindi penso che sarà il nostro amico Ben Affleck ad alzare la statuetta più prestigiosa. Da quel momento in poi potrò finalmente andare in giro a dire "Eh, ma io me n'ero accorto da Gone Baby Gone che era un regista talentuoso" eccetra eccetra. Personalmente credo che l'altro favorito Lincoln resterà a bocca asciutta, ma potrei sbagliarmi.
Sono i film che avrei premiato anch'io? No. Fra questi, di quelli che ho visto, io avrei scelto Amour. Ma se mi aveste detto "no, non vale!" allora avrei scelto Re della terra selvaggia o Zero Dark Thirty. Probabilmente lanciando una monetina.

OSCAR 2013 – MIGLIOR REGISTA
  • Amour di Michael Haneke
  • Beasts of the Southern Wild di Benh Zeitlin
  • Vita di Pi di Ang Lee
  • Lincoln di Steven Spielberg
  • Il lato positivo – Silver Linings Playbook di David O. Russell
E qui? Qui che manca il, per me, favorito? Oibò! Allora qui dico che mi piacerebbe vincesse l'esordiente Benh Zeitlin (il regista più giovane), ma penso che la spunterà Michael Haneke (quello più anziano). Almeno voglio credere così, perché un riconoscimento di merito alla prova sottotono di Spielberg sarebbe abbastanza un sopruso.

MIGLIOR ATTORE
  • Bradley Cooper – Il lato positivo – Silver Linings Playbook
  • Daniel Day-Lewis – Lincoln
  • Hugh Jackman – Les Misérables
  • Joaquin Phoenix – The Master
  • Denzel Washington – Flight
Qui penso non ci sia storia. Tutti nel pianeta vogliono che Daniel Day-Lewis vinca meritatamente il suo terzo (quarto? decimo?) premio oscar. Mi sta bene, però voglio dire che l'interpretazione disperata di Joaquin Phoenix nel bistrattato The Master mi ha impressionato e colpito di più. Ecco. Se vi interessa. Sennò amen.

MIGLIOR ATTRICE
  • Jessica Chastain – Zero Dark Thirty
  • Jennifer Lawrence – Il lato positivo – Silver Linings Playbook
  • Emmanuelle Rive – Amour
  • Quvenzhané Wallis – Beasts of the Southern Wild
  • Naomi Watts – The Impossible
Qui è dura, eh... A rigor di logica dovrebbe portarsi via il malloppo la bella e brava Jessica Chastain. Però, però, l'Academy potrebbe farci una delle sue rare sorprese e far trionfare l'impressionante e meritevole Quvenzhané Wallis. E vogliamo dimenticare Emmanuelle Riva? Giammai. Io dico che qualsiasi scelta verrà fatta ci sarà gente che storcerà il naso comunque, ma che alla fine verrà presa la decisione meno rischiosa.

OSCAR 2013 – MIGLIOR FILM D’ANIMAZIONE
  • Ribelle – The Brave di Mark Andrews e Brenda Chapman
  • Frankenweenie di Tim Burton
  • ParaNorman di Sam Fell e Chris Butler
  • Pirati! Briganti da strapazzo 3D di Peter Lord
  • Ralph spaccatutto di Rich Moore
Ho già espresso in passato il mio parere (sofferto e diviso) sui film d'animazione di quest'anno, che in assenza dell'asso pigliatutto, si sono equamente divisi il mio affetto. Ma se dobbiamo dire chi vince, allora io potrei puntare un nichelino (ma non di più) su Ralph Spaccatutto.

OSCAR 2013 – MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA
  • Alan Arkin – Argo
  • Robert De Niro – Il lato positivo – Silver Linings Playbook
  • Philip Seymour Hoffman – The Master
  • Tommy Lee Jones – Lincoln
  • Christoph Waltz – Django Unchained
Vogliamo prenderci in giro o vogliamo riconoscere il fatto che ogni volta che Christoph Waltz farà un film, fosse anche un film dei Teletubbies, vincerà un Oscar? Su questa categoria mi sento di stare tranquillo, e l'unica altra cosa che voglio dire, così, per polemica, è che se da Django Unchained fossero arrivate un altro paio di candidature (tipo Leonardo DiCaprio e soprattutto Samuel L. Jackson) allora avremmo potuto riparlarne.

OSCAR 2013 – MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA
  • Amy Adams – The Master
  • Sally Field – Lincoln
  • Anne Hathaway – Les Misérables
  • Helen Hunt – The Sessions
  • Jacki Weaver – Il lato positivo – Silver Linings Playbook
Secondo me, se qui non diamo nemmeno un premio a Les Misérables, non va mica tanto bene. E questa categoria mi sembra la più adatta. Anne Hathaway ha cantato, e pure bene, impressionando tutti quelli che hanno visto il film (quindi non io), almeno quanto Russel Crowe li ha disgustati.
OSCAR 2013 – MIGLIOR SCENEGGIATURA NON ORIGINALE
  • Argo – Chris Terrio
  • Beasts of the Southern Wild – Lucy Alibar e Benh Zeitlin
  • Vita di Pi – David Magee
  • Lincoln – Tony Kushner
  • Silver Linings Playbook – David O. Russell
Ah beh, qui vince Lincoln comodo. Perché è un film tutto di sceneggiatura, e il buon Tony Kushner è parecchio, parecchio bravo. E poi anche perché fin qui non gli ho dato nemmanco un premio su 8 nominations, la qual cosa può farvi intuire quanto siano campate in aria le mie innoque previsioni.

OSCAR 2013 – MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE
  • Amour – Michael Haneke
  • Django Unchained – Quentin Tarantino
  • Flight – John Gatins
  • Moonrise Kingdom – Wes Anderson e Roman Coppola
  • Zero Dark Thirty – Mark Boal
Quentin, sei pronto a mettere sul camino un altro Oscar per la sceneggiatura?
OSCAR 2013 – MIGLIOR FOTOGRAFIA
  • Anna Karenina – Seamus McGarvey
  • Django Unchained – Robert Richardson
  • Vita di Pi – Claudio Miranda
  • Lincoln – Janusz Kaminski
  • Skyfall – Roger Deakins
Qui non voglio sentir ragioni. Io e Roger (Deakins, se non siete amici come noi) aspettiamo questo Oscar da un sacco di tempo. E, a parte questo, non mi sembra che fra gli altri ci sia qualcuno all'altezza dell'enorme lavoro svolto per l'ultimo 007. Quindi dai, su!

OSCAR 2013 – MIGLIORI COSTUMI
  • Anna Karenina – Jacqueline Durran
  • Les Misérables – Paco Delgado
  • Lincoln – Joanna Johnston
  • Biancaneve – Eiko Ishioka
  • Biancaneve e il cacciatore – Colleen Atwood
Non lo so amici. Mi verrebbe da far finta di niente e portare il discorso su altri lidi. Tipo: curioso che ci siano due film con Biancaneve nel titolo entrambi nominati per la stessa categoria nello stesso anno, non trovate? Pazzesco!
Vabbè, dai, facciamo che io dico che vince Les Misérables e se poi invece no, amici come prima.

OSCAR 2013 – MIGLIOR MONTAGGIO
  • Argo – William Goldenberg
  • Vita di Pi – Tim Squyres
  • Lincoln – Michael Kahn
  • Zero Dark Thirty – Dylan Tichenor e William Goldenberg
A questi livelli sono tutti ottimi professionisti, giusto? Allora l'unica ragione per cui direi Zero Dark Thirty è che la sua attitudine documentaria, frammentata, spezzettata e nervosa mi sembra un enorme valore aggiunto dato proprio dal montaggio, molto più palpabile dell'apporto dato rispetto agli altri film.


OSCAR 2013 – MIGLIOR FILM IN LINGUA STRANIERA
  • Amour (Austria)
  • Kon-Tiki (Norvegia)
  • No (Cile)
  • A Royal Affair (Danimarca)
  • War Witch (Canada)
Qui direi che andiamo sul liscio. Amour tutta la vita, anche se sarebbe carino avere l'opportunità di vedere pure gli altri nei nostri cinema.




OSCAR 2013 – MIGLIOR TRUCCO
  • Hitchcock – Howard Berger, Peter Montagna and Martin Samuel
  • Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato – Peter Swords King, Rick Findlater e Tami Lane
  • Les Misérables – Lisa Westcott and Julie Dartnell
Lo Hobbit! Eccolo finalmente, esiste! Bene, voto lui per lo smisurato affetto che ci lega, in barba a qualsiasi buon senso.


OSCAR 2013 – MIGLIOR MUSICA
  • Anna Karenina – Dario Marianelli
  • Argo – Alexandre Desplat
  • Vita di Pi – Mychael Danna
  • Lincoln – John Williams
  • Skyfall – Thomas Newman
A me questo è sembrato l'anno di Alexandre Desplat, comparso in praticamente ogni titolo di coda di ogni film del 2012, a parte gli altri 4 qui elencati, a quanto pare. Quindi dico che lo meriterebbe lui, anche solo per gli score di Moonrise Kingdom e Reality.
OSCAR 2013 – MIGLIOR CANZONE ORIGINALE
  • Chasing Ice – “Before My Time”, musica e testo di J. Ralph
  • Ted – “Everybody Needs A Best Friend” musica di Walter Murphy; testo di Seth MacFarlane
  • Vita di Pi – “Pi’s Lullaby”, musica di Mychael Danna; testo di Bombay Jayashri
  • Skyfall – “Skyfall”, musica e testo di Adele Adkins e Paul Epworth
  • Les Misérables – “Suddenly”, musica di Claude-Michel Schönberg; testo di Herbert Kretzmer e Alain Boublil
Non c'è la mia preferita, che era quella di Elisa ed Ennio Morricone per Django, quindi possono fottersi tutti quanti in massa!! No, scherzo, direi che potrebbe vincere tranquillamente Adele senza scatenare le mie più recondite ire.

OSCAR 2013 – MIGLIOR SCENOGRAFIA
  • Anna Karenina – Sarah Greenwood; Katie Spencer
  • Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato – Dan Hennah; Ra Vincent and Simon Bright
  • Les Misérables – Eve Stewart; Anna Lynch-Robinson
  • Vita di Pi – David Gropman; Anna Pinnock
  • Lincoln – Rick Carter; Jim Erickson
Lincoln? Dai, Lincoln.

OSCAR 2013 – MIGLIOR DOCUMENTARIO
  • 5 Broken Cameras
  • The Gatekeepers
  • How to Survive a Plaghe
  • The Invisibile War
  • Searching for Sugar Man
Da qui in poi è chiaro che mi butto. Un po' come votare alle elezioni. E allora metto la X su Searching for Sugar Man sperando che mi rimborsi l'IMU.

OSCAR 2013 – MIGLIOR CORTOMETRAGGIO DOCUMENTARIO
  • Inocente di Sean Fine e Andrea Nix Fine
  • Kings Point di Sari Gilman e Jedd Wider
  • Mondays at Racine di Cynthia Wade e Robin Honan
  • Redemption di Jon Alpert e Matthew O’Neill
Redemption e l'accendiamo.
OSCAR 2013 – MIGLIOR CORTOMETRAGGIO ANIMATO
  • Adam and Dog – Minkyu Lee
  • Fresh Guacamole – PES
  • Head over Heels – Timothy Reckart e Fodhla Cronin O’Reilly
  • Maggie Simpson in “The Longest Daycare” – David Silverman
  • Paperman – John Kahrs
Una lunga vita addolcita dalle avventure della famiglia Simpson non può che farmi spudoratamente parteggiare per il primo (?) cortometraggio dedicato a Maggie.

OSCAR 2013 – MIGLIORI EFFETTI SPECIALI
  • Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato – Joe Letteri, Eric Saindon, David Clayton e R. Christopher White
  • Vita di Pi – Bill Westenhofer, Guillaume Rocheron, Erik-Jan De Boer e Donald R. Elliott
  • The Avengers – Janek Sirrs, Jeff White, Guy Williams e Dan Sudick
  • Prometheus – Richard Stammers, Trevor Wood, Charley Henley e Martin Hill
  • Biancaneve e il cacciatore – Cedric Nicolas-Troyan, Philip Brennan, Neil Corbould e Michael Dawson
Finalmente! Ma quanti sono? Dai che devo andare a votare... scelgo The Avengers perché è stato sicuramente uno dei film dell'anno per molte persone, e poi perché credo che gli addetti alla parte tecnica siano più meritevoli di un premio rispetto a qualsiasi "creativo" della parte artistica.

E con la piccola polemica di chiusura dico, come sempre: Vinca il migliore!
E ciao.