giovedì 29 dicembre 2011

Il Buono, il Brutto e il Cattivo del 2011


BRUTTO                                                     CATTIVO                                                             BUONO

Dormire bloccati come Dracula nella bara, presente? Non è affatto simpatico.
Le sale d'aspetto. Ore e ore a non fare un cazzo.
La terapia intensiva.
Il vangelo secondo Matteo fa cagare! L'ho detto.
Abbiamo già parlato di primizie come il film di BorisHabemus PapamFour Lions, Carnage, Tamara Drewe, Gianni e le donne, Rabbit HoleIl gioiellino, Frozen, Non Lasciarmi e This Must Be The Place.
Drive abbiamo detto che ci è piaciuto, è un buon film, ma lungi accodarsi all'isteria collettiva che vuole affibbiare a un modesto raccontino di genere le sorti di miglior film dell'anno.
The Artist è un meraviglioso omaggio al cinema sorretto da due (tre) attori pazzeschi. Ha delle invenzioni geniali (metacinematografiche e surrealiste) che emergono dalla banalità del resto e che sono dei veri e propri picchi di genio. Sicuramente farà suoi un sacco di Oscar e se li merita. È il film più originale dell'anno, anche se non il più emozionante.
Midnight in Paris è il secondo film che ci fa innamorare della Francia di quest'anno. È il Manhattan europeo del redivivo Woody, con il soggetto migliore e la morale più profonda fra i suoi concorrenti, ma è anche colpevolmente tirato troppo via. Con un maggiore impegno e meno fretta (sia di scrittura che di regia) poteva essere un filmone, mentre si limita così ad essere carino. Ha comunque la locandina più fantastica del mondo e stop.
Le Idi di Marzo è l'ennesima ottima prova di Clooney regista, e per quanto mi riguarda, l'ennesima prova d'attore monocorde di Ryan Gosling. Un bel thriller sulla politica, ma è molto più teatrale questo di Carnage, ve lo sto a dì.
Miracolo a Le Havre, dite capolavoro quanto volete, ma per me è un film vecchio e noioso. Con una morale risaputa, uno stile incomprensibile e una storia che maschera le sue lacune dietro la scusante (ormai universale) di fiaba. Sia chiaro, non è da buttare eh, sennò non starebbe nella colonna del "buono". Però...
Melancholia è stato una bella sorpresa, intrigante e affascinante. Con un inizio e una fine memorabili e sublimi, e tutto quello che ci sta in mezzo che boh, è Lars Von Trier.
Contagion bello. Un film attuale e interessante. Che è molto più di quanto si possa dire di tante fighetterie che si studiano al DAMS. Anche se quest'anno ho avuto la fortuna di vedere un altro film di Soderbergh che non è stato distribuito: The Girlfriend Experience che piano piano ti cresce dentro e ti accorgi quanto fosse bello e profondo.
 The Tree Of Life è talmente sublime e monumentale che probabilmente è il miglior prodotto cinematografico dell'anno. E per profondità, importanza, e intensità  di visione se la può giocare solo con Faust, altro ostico e immenso capolavoro visionario. Fra le tante immagini che ho visto, fra le poche che continuano a venirmi in mente, ci sono quelle di questo misterioso e indigesto capolavoro si Sokurov.
Sul fronte dell'animazione possiamo solo che essere allegri. Nell'anno della defaiance della Pixar con il moscio CARS 2, che ci faceva temere scatafasci, abbiamo avuto una reazione della concorrenza con l'eccelso Rango, lo stupefacente Tintin, il ritorno della tanto amata Aardman con Il figlio di Babbo Natale (film sottovalutato ma straordinariamente divertente, intelligente, poetico e appassionante) nonché una sorta di struggente apocrifo Miyazaki dallo studio Ghibli: Arrietty (Gnomeo e Giulietta lasciamolo perdere invece). 
Sì ma, in sostanza, qual'è il film più bello dell'anno?
NON LO SO. Probabilmente è quello che non ho visto. Una Separazione o Il gatto con gli Stivali. E poi ho visto delle robe che devono ancora uscire, come La Talpa che mi ha eccitato tantissimo, o Attack The Block che mi ha divertito assai. Oppure cose vecchissime, tipo Palombella Rossa (che non ho ancora capito), Arancia Meccanica, o Nashville, che è un film che nessuno sarebbe più in grado di fare. Oppure, se devo dire la cosa più straordinaria che ho visto, direi La classe operaia va in paradiso, che sono quei capolavori enormi. E infine mi ricordo che al cinema ho visto anche 2001 Odissea Nello Spazio, e vince lui come al solito, su tutto.
Perciò, perché dobbiamo dire qual era il migliore e fare quelle classifiche del cazzo?  No, ciao. (E comunque vince Living in the material world, shhh!)
Bucare la ruota della bicicletta più volte di quanto non abbia fatto Moser in tutta la sua carriera
Quando te la rubano, quella bicicletta
Conoscere dei nuovi amigos veramente meravigliosi, che a fine anno ti pare di frequentarli da una vita, e invece ti rendi conto che era solo marzo.
I 150 anni dell'Unità d'Italia
I 150 anni dell'Unità d'Italia
I 150 anni dell'Unità d'Italia
Il fatto che le tre cose di sopra le ho sempre riscritte invece di fare copia-incolla
Il fatto che stia pure qui a dirvelo
Spero di essere ancora qui per vedere il 200° dell'Unità d'Italia.
E spero di trovarla unita almeno allora.
Dare ben un esame in tutto l'anno
Un esame di Lughi
Berlusconi è caduto!
Ah no, guardalo lì.
E vuole tipo imporci come premier Alfano
Mastella però ancora non si vede.
L'infermiera che ti taglia il braccialetto blu per questioni d'infezione.
Il braccialetto blu è quello che deve portare ricchezza.
Quando l'altra infermiera ti porta  uno yogurt in più segretamente.
Il dolore vero.
Quello che non auguri al peggior nemico.
La morfina.
Le signore che vanno al cinema commentando tutto il tempo
Le signore che vanno al cinema facendo versi tutto il tempo
Il cinema Massimo, rifugio e casa nei momenti più bui e più lieti.
Lo scioglimento dei R.E.M.
Tutta i grandi nomi morti quest'anno, da Bonatti a Bin Laden a Bonelli e Bocca ecc. Cribbio, sta a vedere che non devi chiamarti con la B.
L'impronta che hanno lasciato, così grossa che se non ci stai attento ci cadi dentro

Ci interrompiamo per un piccolo omaggio ai R.E.M. con una cover di una loro canzone da un gruppo che non credevo, ma bella bella... bravi.

L'ultimo album dei Coldplay, che fino a X eY mi avevano incantato con il loro rock da piccola orchestrina sommessa, riempiendo ogni disco di piccoli e struggenti capolavori, e che da Viva La Vida in poi sono diventati una boy band che fabbrica pop stupido per scalare le classifiche, gettando all'aria il proprio talento. Il duetto con Rihanna dice tutto quello che non avrei voluto dire.
Perdersi il concerto di Bob e Mark Knopfler. Ecco una cosa veramente infame.
Ah beh, allora di sicuro ci mettiamo i Wilco ai primi posti. Bon Iver poco distante, entrambi hanno dominato l'iPod. Ben Harper non mi ha entusiasmato come in passato, ma come  per Daniele Silvestri, dobbiamo essere grati ogni anno in cui si palesano a dirci qualcosa. Helplessness Blues è un disco immenso e  indimenticabile, per varie ragioni. Uno scrigno di preziose canzoni antiche e moderne in una formula che solo i Fleet Foxes sembrano in grado di conoscere. Per lungo tempo ho pensato che niente avrebbe potuto sconfiggere Torno a casa a piedi di Cristina Donà, che l'ho sentita pure dal vivo e wow! 
Poi però sono arrivati i dischi di Noel Gallagher (che non è suo fratello ed ha scritto le più grandi, le uniche canzoni degli Oasis che ci ricordiamo) i nuovi Radiohead, i Kasabian, Kate Bush e soprattutto LUI, il ritorno del maestro Ry Cooder, con un album di alta qualità in cui ogni tanto spiccano piccoli capolavori sul mondo di oggi, e dove il suo virtuosismo chitarristico emerge a brevi sprazzi senza castrare il resto, ma anzi valorizzandolo. Ricorda un po' l'ultimo Dylan come voce e come uso della fisarmonica. Massì, la fisarmonica, fidati. 
Comunque sia, io quest'anno le cose che ho sentito di più sono i Bedouin Soundclash, i Vampire Weekend, Steve Earle, i vecchi Wilco, Elton John e Leon Russel, i quattro Beatles divisi nei loro dischi solisti, i Kula Shaker, Marc Ribot Y Los Cubanos Postizos, Isobel Campbell e Mark Lanegan, Stefano Bollani e tutta una serie di altri che non sto quiadireperòguardachemeritanotelogiuro.
Piacere segreto: The Lost Notebook Of Hank Williams in cui grandi artisti rielaborano le canzoni del padre del country, ed in cui cantano sia Bob che suo figlio Jakob. Non insieme però, ah!


Ma sai che a volerlo trovare, fatico a dire un fumetto brutto? Almeno uno dici? Toh e toh. Due.
Un fumetto cattivo? Non esageriamo, i fumetti sono tutti buoni e belli. Ma uno cattivo nel senso spietato e sadico eccolo qui.
Ho l'impressione, caro lettore, che a te non fotta più di tanto di questi elenchi. Però ti assicuro che lo faccio per far conoscere delle robe che altrimenti ti perdi, e mi dispiacerebbe. Robe come queste insomma (sarò veloce): l'ultima fatica di Brian K. Vaughan, autore geniale e prezioso da tenere sempre d'occhio. La ristampa di Tintin, inestimabile reperto della storia del fumetto, godibilissimo ancora oggi, e non smetterà mai di esserlo. No Pasaran del maestro Vittorio Giardino,  il meglio che il fumetto italiano sia stato in grado di offrire da parecchio tempo. Tutte le cose scritte e disegnate da Joe Sacco, e poi in generale tutta questa bella roba qui.
Twitter non ho capito cosa sia, ma mi sembra qualcosa messo lì apposta a gonfiarti l'ego.
Facebook che ogni giorno ti propina le idiozie di centinaia di cerebrolesi, puttanate galattiche sui sentimenti, mini-recensioni del film di Pieraccioni, link a video dove la gente si vomita addosso, spezzoni di Reality Show stranieri dove le ragazze sono tutte svestite e i maschi tutti palestrati. Ah no, non sono stranieri, sono italiani. Solo che non riesci a capirli.
Chiudere il computer e passeggiare, magari con G. per le vie del centro, riuscendo a fare incredibilmente, un discorso che non è stupido.
La crisi!
La crisi negata. I ristoranti pieni.
Il modo in cui Google cambia sempre il titolo in maniere stupefacenti. Lo so che non c'entra una sega, però non è che abbiamo molto altro.
WIndows, lo stupido computer dagli stupidi programmi.
Il documentario ECO, che ho montato. E non è venuto benissimissimo.
Il trailer però, che ho montato da solo, mi garba.
Le riunioni di brainstorming, che è già di per sé una parola che mi spaventa.
La tua idea, scartata e gettata via. La vedi allontanarsi mentre ti saluta, nell'oblio di tutte le cattive idee, insieme con il ponte sullo stretto di Messina.
Riuscire a girare questo in due giorni, montarlo in due ore, e vederlo poi sul sito del DAMS per quasi un anno. E divertirsi anche nel farlo. Grazie Riccardo.
L'aspetto finale di questo post, ancora.
Mi fa venire il vomito e il mal di testa guardarlo. Oddio...
Niente paura, si finisce con Norah Jones. Sì, mi piace Norah Jones, e allora?
Il post operazione
Il pre operazione.
La quiete e la dolcezza dell'anestesia

E poi un sacco di altre cose, con l'amara consapevolezza che il male ha ben due colonne dalla sua, una peggio dell'altra, mentre il bene deve accontentarsi di una. Ma guarda quanto è più folta quella colonna, nonostante tutto. Li straccia.
Io dico perché abbiamo la fortuna di vivere soggettivamente la realtà. Ed è oggettivo che la realtà sia dominata da cose negative. Oggettivo e assoluto. Ma la memoria non ricorda la sofferenza o il dolore a distanza di tempo. Quelli si vivono nel presente, si soffre nel presente. Ma quando il presente diventa passato, gli unici ricordi che resistono, sono quelli che vogliamo con noi. Ricordiamo il bene, ricordiamo il piacere che c'è stato, e che in fondo, è ancora lì da qualche parte pronto a riemergere. Il male non resiste alla prova del nostro, personale, e intimo tempo.
E quindi bisogna ringraziare, non so chi, forse il destino, ma bisogna farlo. Sono sopravvissuto a Mirigliani, a Gheddafi, a quell'altro dittatore coreano, a Simoncelli, a Liz Taylor, Peter Falk, Gene Colan. Sono sopravvissuto a Steve Jobs, cazzo!
Sì, certo, il male è ancora lì. Credevo se ne sarebbe andato invece ci sarà ancora un bel po' da lottare. Ma arriverà il giorno in cui sarà solo uno sbiadito ricordo.


Buon Anno a tutti

sabato 24 dicembre 2011

Discorso all'umanità

Quest'anno abbiamo detto addio (spero) al nostro grande dittatore, almeno per quanto riguarda il lato più evidente della sua azione. Perciò mi sembra la cosa migliore fare gli auguri con questo discorso, che è (e mi auguro saremo tutti d'accordo) una delle più alte vette mai raggiunte dal Cinema di tutti i tempi.
Insomma, Buon Natale, inteso come occasione per fare qualcosa di buono e di migliorare un po' quel che ci sta intorno, partendo magari da noi stessi.





Charlie Chaplin moriva in Svizzera 34 esatti anni fa, nel giorno di Natale.
Ma in realtà è ancora vivo.

domenica 18 dicembre 2011

This Must Be The Place

Ancora il ripescaggio di una roba ormai un po' vecchiotta. Però a capodanno bisogna dar via la roba vecchia, ah!
(Come? Non è Capodanno? ehm....)


La locandina più bella del mondo.
Se Paolo Sorrentino fosse un attore sarebbe probabilmente un caratterista, una macchietta. Uno di quei personaggi di contorno, un po’ strani, che finirebbero per essere comprimari del protagonista. Invece Paolo Sorrentino è un regista, e può permettersi di dedicare film interi a questi mostri che tanto lo affascinano.
A proposito di fascino, in occasione del Festival di Cannes 2008, quando Il Divo passò sotto gli occhi del presidente di giuria Sean Penn, Sorrentino parlò del loro incontro, dichiarando che sebbene fosse un maschio, non era stato facile resistere al magnetismo dell’attore. A sua volta, l’interprete californiano, impressionato da quella pellicola, manifestò di voler lavorare con lui a qualsiasi costo. Ma se la teoria iniziale è vera, Penn era troppo attraente per fare il mostro. Perciò il regista napoletano è dovuto ricorrere ancora una volta al trucco, sia cosmetico che dei costumi, sull’onda dei suoi precedenti personaggi Andreotti e Geremia de’ Geremei.
Sean Penn è stato così calato nei panni di un ipotetico Robert Smith, del tutto privo però del lato oscuro dei Cure. Caratterialmente il suo Cheyenne è forse più simile a un (im)maturo Michael Jackson, con il cervello fulminato dalle droghe di Ozzy Osbourne. Un punk in pensione, sereno e domiciliato nella quieta Irlanda. Amico non di tatuati ribelli del rock, ma di un raffinato musicista come David Byrne. La presenza di quest’ultimo si spiega sostanzialmente con la scelta della sua canzone This Must Be The Place, non solo come titolo del film, ma proprio quale ispirazione tematica. In quei versi i Talking Heads dicono “Casa è dove voglio essere, ma credo di esserci già” “Ho un sacco di tempo” “Mi piace lo scorrere del tempo, mai per soldi, sempre per amore” “Sono solo un animale in cerca di una casa, condividiamo lo stesso spazio per un minuto o due”.

Cheyenne non è altro che un insolito pensionato, vittima della noia, passeggero di una vita alla deriva. Un uomo che trascorre i suoi giorni insoddisfatto, ma incapace di cambiare. Sean Penn rende questo stato di depressione riducendo al minimo i movimenti, apparendo costantemente come spettatore esterno degli eventi che lo coinvolgono. Come tutti gli uomini afflitti dalla solitudine, Penn non parla e non fa molto, il più delle volte limitandosi a reagire se interpellato.
Quello nascosto dalla cinepresa forse è Luca Bigazzi
Il suo personaggio ha un lungo passato di eccessi che lo condiziona, simboleggiato dall’inseparabile trolley che porta con sé, ma è contraddistinto anche da una sorta di candore infantile, per cui non fuma e non beve nient’altro che una strana bibita gialla, simile a un succo di frutta. Deambula lentamente, non lo vediamo quasi mai mangiare, parla mantenendo una postura immobile, e per lo più i suoi comportamenti sono caratterizzati dalla ciclicità. Calza gli occhiali per leggere, soffia via costantemente un ciuffo di capelli ribelle, e libera sempre la stessa risatina stridula. L’abitudine e la ripetitività sono componenti fondamentali della sua vita, testimoniate anche dai giochi e dagli hobby che lo legano a sua moglie.
Penn accompagna le sue movenze a un uso altrettanto rallentato della voce, perennemente in falsetto, simile al modo in cui rendeva il ritardo mentale di Sam Dawson nel film Mi chiamo Sam del 2001. Per tutto il suo viaggio attraverso l’America, alla ricerca del gerarca nazista che umiliò suo padre in un campo di concentramento, Cheyenne/Penn sembra più un turista che un uomo affamato di vendetta. In gran parte del tempo si limita a osservare, senza prendere parte nemmeno agli eventi più insoliti. È un bravo ascoltatore, vive la vita del tedesco semplicemente parlando con quelli che gli sono vicini, arrivando a conoscerlo perfino meglio di quanto non abbia fatto con suo padre.
A sinistra Umberto Contarello, l'altro dimenticato
sceneggiatore del film. In centro Eve Hewson, la figlia di
Bono (sì lo sappiamo, abbello!). A destra Cheyenne dopo
la cura liberatoria di aver umiliato un nazista.
In un’altra intervista Penn ha chiarito la natura del suo rapporto con Sorrentino, specificando di essere soltanto una tela su cui lui può dipingere. Difficile perciò stabilire dove finiscano o inizino le influenze di uno o dell’altro nella costruzione del personaggio. Ciò che è certo, è che in qualità di prestigioso regista oltre che interprete, l’attore americano assicura in questo modo la sua totale disponibilità nei confronti dell’autore, annullando il proprio status di divo. Tecnicamente il corpo di Penn diventa uno degli elementi compositivi dell’inquadratura. I quadri in (eccessivo) movimento di Sorrentino lo utilizzano per caratterizzare le immagini, per costruirle. Cheyenne è sempre inserito nel paesaggio, ed è con il suo costume e le sue atipiche movenze che riesce a fuoriuscirne, come una stonatura. Metaforicamente, Cheyenne è prigioniero di una sorta d’immobilità auto imposta, sia all’interno della sua storia e della sua personalità, sia all’interno del linguaggio del film. Ed è in impercettibili variazioni nella sua personalità, come una maggiore apertura verso gli altri e una minore paura nei confronti della vita, che la ricerca di vendetta si trasforma nel più classico viaggio di formazione.
-WTF?
-Che cazz'è?
Al termine, il suo ritorno in Irlanda ci dice che quello dev’essere il posto, che non era necessario girare l’America per sentirsi a casa. Cresciuto e spogliato delle sue paure e della sua maschera, Cheyenne appare come un comunissimo uomo di mezza età, in abiti borghesi e acconciatura rispettabile. La normalità come traguardo, anche se un’altra delle teorie su questo misterioso finale è che quello sia in realtà proprio Sean Penn, suggerendo un sofisticato gioco sull’attore.
In ogni caso, è la prima volta che uno dei mostri di Sorrentino approda a un lieto fine, forse proprio soltanto perché questa è una commedia.


Lo so, ho detto tutto e niente. Un po' come fa questo film.

sabato 17 dicembre 2011

Museo del fotogramma 5


Il Bandito


di Alberto Lattuada
Italia - 1946


(Questo è Amedeo Nazzari, e per la cronaca io mi sento come lui)

martedì 13 dicembre 2011

Museo del fotogramma - TFF


M*A*S*H 

di Robert Altman
USA - 1970

Omaggiamo così la retrospettiva del Torino FIlm Festival dedicata quest'anno al grande regista americano, con il fotogramma di uno dei suoi film più rappresentativi.

Se posso aggiungere un ultimo consiglio, se siete fan dei Beatles, della musica in generale, o anche solo di documentari (e se non vi piace nessuna delle tre cose cominciate a porvi delle domande) cercatevi Living In the Material World, documentario di Martin Scorsese dedicato al membro più misterioso dei Fab Four: George Harrison.
Scorsese, abilissimo in questo tipo di lavori, ha costruito un discorso davvero piacevole e interessante intorno all'indimenticabile Beatle, e non fatevi scoraggiare dalle tre ore fantozziane di durata, perché se lo seguite con lo spirito giusto voleranno via.

giovedì 8 dicembre 2011

TFR con il TFF



È tornato!
Qualcuno ha capito il senso di questa (pessima) illustrazione
di Marco Cazzato? (E dire che di solito a me piace eh)
Amici, è tornato il titolo più bello mai concepito a proposito di un festival cinematografico. Che bello. Sono contento.

Ma perdonatemi, quest'anno il Trattamento di Fine Rapporto con il Torino Film Festival arriva un po' in ritardo. E vabbè... Tanto vi dico che per una lu(uuuu)nga serie di problemi non l'ho mica potuto seguire bene come l'anno scorso. Anzi, tutt'altro. Perciò non vi potrete beccare quel sublime lavoro, lo ricordate vero? ma una cosa più raffazzonata. Che poi si sa, che a Natale conta il pensiero, no?
E allora beccatevi i primi due signori pensieri: QUI e QUI.

In confidenza, sul film di Cornish posso dirvi che si tratta davvero di una figata.
A proposito di Joann Sfar (Dessins) invece, devo purtroppo aggiungere che data la sua breve durata era in coppia con un altro documentario: Think About Wood, Think ABout Metal. Una roba che parla di: Robyn Schulkowsky è una percussionista che attraverso la ricerca del suono sulla materia ha provato a trasformare in musica tutto ciò che è visibile, cercando un legame tra musica e immagini. In un alternarsi di esibizioni e discussioni con lo scrittore e docente universitario inglese TJ Demos, si entra in un mondo in cui i concetti di ritmo e strutturazione non lineare del tempo svolgono un ruolo determinante.
Ora, a voi magari leggere questa roba eccita un sacco, e avete pure visto il film e lo trovate geniale, ma per me è stata una sorta di tortura. Non rammento di aver mai visto qualcosa di più brutto. La tronfia Manon de Boer pensa bene di riprendere il nulla per tutto il tempo, facendo lentissime panoramiche su un panorama spoglio, tenendo 10 minuti la camera fissa su un quadratino metallico che ogni tanto viene percosso, girando in un appartamento vuoto per interminabili lassi di tempo. Sperimentale. Avanguardia. Figo, potrete dire voi. Noia, dico io. E vi assicuro che per far dire noia a me ce ne passa.
In realtà il documentario si situa sullo stesso livello del lavoro della percussionista, facendo leva sulla percezione, sui sensi, mettendoci alla prova. E teoricamente la cosa funziona e possiamo parlarne allegramente per ore. Concretamente no, è terribile. Una cosa inguardabile. E ne è riprova il fatto che la gente è uscita in massa, come se neanche Giuliano Ferrara avesse scorreggiato in sala. Una metafora calzante, se mi spiego.

mercoledì 23 novembre 2011

venerdì 18 novembre 2011

Museo del fotogramma 3



Le avventure acquatiche di Steve Zissou (The Life Aquatic with Steve Zissou)


di Wes Anderson
USA - 2004

martedì 1 novembre 2011

Secondo


Oggi questo blog compie un anno esatto, e... sì, il tempo è davvero volato. Non è che ci sia tanto da festeggiare (che poi noi siam gente che non va proprio matta per le feste...) però è giusto celebrare. Celebrare, sempre. E lo facciamo ricollegandoci al titolo che ci dà il nome e ci ispira, nonché al primo, ormai lontano post, che già da queste premesse muoveva i suoi passi.
Grazie a tutti quelli che in questi mesi hanno letto e apprezzato (e un po' meno a quelli che non l'hanno fatto... ma no, si scherza) e che continueranno a farlo.
Grazie, di cuore.

domenica 30 ottobre 2011

Le avventure di Tintin - Il segreto dell'unicorno

Passeggiamo nervosamente fuori dalla stanza della maternità, fumando una sigaretta e guardando a terra. Siamo in tanti, tantissimi, di ogni nazionalità. Siamo i fan di Hergé e del suo Tintin, lo portiamo nel cuore sin da bambini, in una speciale teca, al riparo dalla polvere e dalle intemperie. Ma sono arrivati dei tizi, americani, danarosi, che dicono che adesso ne fanno un film. E basta.
Sono dentro da parecchio tempo, con strani macchinari, computer, tute... Oddio...
Poi d'un tratto si fermano, è finito. Ci chiamano dentro ed eccolo lì. E piangiamo, di gioia... perché è perfetto...

A dire il vero, io ci ho sempre creduto che venisse fuori questa meraviglia qua, mentre altri si preoccupavano, ed il perché è tanto facile: bastava guardare le persone coinvolte. Mentre il nostro Dylan Dog è finito in mano a gente che non sapeva nemmeno che roba fosse, come o perché, la storia dietro a Le Avventure di Tintin - Il segreto dell'unicorno è pressappoco questa:
Steven Spielberg gira I predatori dell'arca perduta nell'81 e legge una recensione che lo compara a Tintin. Incuriosito, si procura gli albi e li divora (leggenda vuole che li abbia letti in francese, da tanto che le immagini lo rapivano). Nel frattempo Hergé, che era un uomo complicato, dichiara di non aver gradito le trasposizioni filmiche e animate del suo personaggio, per di più, nella sua biografia, compare un passo in cui avrebbe detto che il solo Spielberg, che faceva questi popò di film, potesse essere in grado di rendergli giustizia.
Così, nel 1983, durante le riprese di Indiana Jones e il tempio maledetto, Steven insieme Kathleen Kennedy, capoccia della giovane Amblin, si incontrano a Londra. O meglio, avrebbero dovuto, perché Hergé muore quella settimana.
Spielberg ottiene comunque i diritti dalla moglie e si prepara a dirigerne un adattamento con Jack Nicholson nel ruolo di Haddock (slurp!) ma la sceneggiatura non lo convince, perciò non se ne fa nulla.
-CAPITO?? Quando la sceneggiatura è una merda, il film NON SI GIRA! Hollywood, ascolta il tuo maestro.-
I diritti rimbalzano da una parte all'altra, persino fra le psicanalitiche mani di Roman Polanski (no grazie). Finalmente, nel 2002, la DreamWorks li ricompra, e Spielberg ha le idee più chiare: una trilogia su degli episodi precisi, in live action, con il solo Milou artificiale. Ma nel frattempo nel mondo avvengono cose come la Pixar, la trilogia del Signore degli Anelli, la rivolta Motion Capture di Robert Zemeckis.
Peter Jackson gli dice: "Guarda Steve, che se lo fai recitare a Tizio e Caio non viene fuori una cosa fedele e pedissequa ad Hergé. Fallo in Motion Capture come il tuo amico Roby, ma fallo da noi, alla Weta, che siamo i più fighi"
Ma Spielberg non è convinto, lui non li fa i cartoni animati, li produce solo. Allora fanno delle prove, a cui partecipano lo stesso Zemeckis, Andy Serkis e James Cameron, che intanto sta girando Avatar con la Weta e può testimoniarne la figaggine.
E alla fine, dopo aver girato quella schifezzuola dell'ultimo Indiana Jones, sembra che Steven si convinca. E noi stiamo tutti qui a dire: no la motion capture no, è una cazzata!
Ah! La motion capture no e il 3D sì? E poi, l'avete visto per caso L'alba del pianeta delle scimmie? Io sì, e quando il solito Serkis, facendo la parte della scimmia, si dimostra una spanna sopra gli attori in carne e ossa, beh, benvenuta la motion capture.

Però alt, ALT!

Ci sono tutti, non manca più nessuno... solo non si vedono i due liocorni! (questa non potevo non farla). Ma sì amici, manca la sceneggiatura. Chi la scrive, Steven?
"Come chi? Il migliore" risponde lui.
Ah meno male, pensavo volessi metterti tu, che poi esce A. I. Intelligenza Artificiale, che era meglio se posavi il pennino. Ma chi è il migliore, Steven?
Il migliore è Steven Moffat, sceneggiatore inglese della BBC che ha passato gli anni '90 e '00 a incasellare un successo dopo l'altro, vincendo premi da tutte le parti per i suoi Jekyll, Doctor Who e soprattutto Sherlock.
E così lui la scrive, prendendo Il granchio d'oro, Il segreto del liocorno e Il tesoro di Rackam il rosso (nella prima esordisce il capitano Haddock, nelle altre due lui e Tintin si mettono sulle tracce di un antico tesoro) e fondendole in una sola grande avventura, che per alcuni passaggi narrativi e invenzioni, risulta ancora migliore delle spesso ingenue soluzioni originali di Hergé. La scrive, amato e coccolato da Steven, ma poi capita che deve tornare al suo lavoro e non la può finire. Che fare allora?
Semplice, Peter Jackson si ricorda di aver fatto una volta un cammeo in Hot Fuzz, uno dei sensazionali e divertentissimi film di Edgar Wright, e pensa a lui e al suo socio: Joe Cornish. Questi due, se possibile, sono ancora meglio di quell'altro, praticamente i migliori in circolazione.
Prendono la sceneggiatura e dicono ok, e la riscrivono. E c'è da scommettere che le più grandi scene d'azione del film sono opera loro.
Detto questo, il migliore dei registi possibili comincia a girare con la migliore delle sceneggiature possibili con il miglior cast possibile. Oddio, a dire il vero con il cast ci sono un paio di ripensamenti, però il fatto che Dupont e Dupond vengano interpretati da Simon Pegg e Nick Frost (inseparabili compari di Wright e Cornish) sollazza notevolmente. Jamie Bell interpreta un dignitoso Tintin, la cui fortuna è quella di essere sempre in movimento, come l'originale. Daniel Craig è un villain schiacciato dalla motion capture, un personaggio non lontano dagli esperimenti imperfetti di Zemeckis. Se ci fermassimo a loro due i detrattori di questa tecnica potrebbero tirare tutte le frecce al loro arco, dimostrando come renda infinitamente meno espressivi gli attori. Ma il film ha anche la fortuna di avere il massimo interprete della tecnica, quell'Andy Serkis troppo bravo in qualsiasi parte. Il suo Haddock è il SUO Haddock, pur rimanendo quello di Hergé. Riconoscibile eppure mimetico, come i grandi istrioni, come Al Pacino. Toh, non potevo dargli un più alto attestato di stima. Serkis è l'anima di questo film, un genio della sua arte, riportata ai tempi delle movenze sottolineate del muto, rimaneggiate per comunicare con i computer.
Peter Jackson predispone tutto, con la sua Weta, e si defila, lasciando mano al maestro, andando a mettersi alla regia della seconda unità. Uno che ha vinto 250mila oscar che fa il regista della seconda unità! MITO!!!
Il maestro pianifica, ragiona, dirige. La regia di Spielberg è da sempre una goduria, la trappola che ti cattura. Lui è uno che non smette mai di amare il cinema, anche se ti vuole solo intrattenere. Così finisce la sua parte e lo affida alla post produzione, che dura due anni, e infatti lui nel frattempo fa il suo nuovo filmone di Natale: War Horse.
In questi due anni la Weta fa un lavoro incredibile, costruendo i personaggi sull'esatto segno di Hergé, uguali, nei particolari, nelle movenze, perfino nei nasoni (come Warren Beatty in Dick Tracy, film avanti di un'epoca). Poi chiamano il solito Janusz Kaminski a fare il supervisore alla fotografia, perché c'è bisogno di ogni tipo di atmosfera: il buio del castello, il sovraesposto del deserto, la notte infuocata dei pirati. E anche perché è un film di Spielberg, e Kaminski deve esserci. Come c'è il montaggio di Michael Kann e la meravigliosa musica di John Williams, un po' sulle tracce di Prova a prendermi. E come in quel film, vieni accolto da dei titoli di testa stupendi e garbati, che ti presentano Tintin, lo stile della storia, la qualità dello spettacolo che tu, fortunato spettatore, ti accingi a godere.

Il video qui rappresenta i titoli di testa del film, fan made di un animatore di nome James Curran. Non sono quelli ufficiali del film, che sono diecimila volte più belli, ma Spielberg li ha visti e ha offerto un lavoro all'autore per il suo prossimo film. BEL COLPO JIM!

E così via, tutto scivola bellissimo una scena dopo l'altra, dal meraviglioso incipit-omaggio ad Hergé ai primi minuti d'indagine, dall'apparizione di Haddock ai momenti in cui lo senti strillare i suoi epiteti più coloriti (con la voce di Francesco Pannofino, tra l'altro). Ci sono alcune esatte riproposizioni delle medesime vignette e tavole del fumetto, ci sono le soluzioni narrative migliori (e migliorate), e soprattutto c'è la stessa profonda identità.
Basterebbe quel pazzesco, magico, stordente, lunghissimo pianosequenza dell'inseguimento a Beggar per dimostrarlo. Lì c'è tutta l'azione rocambolesca del Tintin fumetto, la sensazione di tour de force che trasmettono le sue avventure, il divertimento dei suoi colpi di scena. Ma c'è anche tutta l'arte dello Spielberg più puro, il suo amore per le sequenze impossibili, le sfide che il cinema ti pone e ti permette di superare, la voglia genuina di emozionare lo spettatore. Qui c'è il miracolo di avere tutto Hergé e tutto Spielberg, in un'unica armoniosa soluzione.
Uno Spielberg ai massimi livelli, che si fa perdonare Indiana Jones e il regno dei teschi di cristallo, proponendo il vero, nuovo Indiana Jones delle nuove generazioni, ripescandolo dal passato.
E chi ancora non crede della Motion Capture, si riguardi qualcuna di queste scene e provi a capire perché questo film non avrebbe potuto essere fatto in nessun altro modo, guadagnandoci molto e non perdendoci nulla.


 

In breve, dimenticate i pregiudizi, sospendetevi l'incredulità, e guardatevi Tintin.

lunedì 24 ottobre 2011

mercoledì 19 ottobre 2011

Tinker Taylor Solider Spy - anteprima



Tinker, Tailor,
Soldier, Sailor,
Rich Man, Poor Man,
Beggar Man, Thief.

John le Carré si era ispirato a questa filastrocca inglese per il titolo del suo romanzo del 1974. Per noi invece è sempre stato La Talpa.
Il libro ha goduto di un adattamento televisivo a puntate nel 1979, dove il protagonista George Smiley era interpretato dall'indimenticato Sir Alec Guinness, mentre questo, del 2011, è il primo adattamento cinematografico.
Bene, detto questo dobbiamo parlare della trama, giusto?
Ecco allora sappiate che all'interno del Circus, il più alto livello d'intelligence del MI6, pare esserci una talpa infiltrata dai russi.
L'incarico di trovarla viene affidato all'agente Smiley, il quale, proprio poco tempo prima, era stato allontanato dalle alte sfere, insieme con il suo superiore Control (John Hurt, ovvero l'uomo più straordinario del mondo), in seguito all'uccisione di uno dei loro uomini in missione. Il mite anti-eroe di Le Carré viene allora richiamato dalla pensione e fornito di un paio di collaboratori per portare avanti la sua pericolosa e segretissima indagine, a pochi giorni, peraltro, dalla morte del caro Control.
Basta, non aggiungo altro, 'che se lo faccio sarebbe un delitto, perché questo film gode di una maestria narrativa a dir poco sublime. Innanzitutto il progetto era inizialmente fra le sapienti mani di Peter Morgan, sceneggiatore a cui si vuole sempre un gran bene, poi lui ha dovuto defilarsi, mantenendo però il ruolo di produttore esecutivo, e lo script è stato affidato a Peter Straughan (Il Debito, L'uomo che fissa le capre) e la sua socia Bridget O' Connor. Che sono stati BRAVI! Un adattamento pazzesco, una sceneggiatura che la piazzi sul leggio e applaudi annuendo col capo. Bellissima.
Bona la cucina svedese!
Poi quei bravi figlioli di Studio Canal e della Working Title (Tim Bevan ed Eric Fellner, vi voglio bene) l'hanno prodotto sborsando 30 milioni di dollari, e la cosa magica è stata che la regia l'hanno affidata a Tomas Alfredson, che non era poi una cosa così scontata.
Cioè, lui è uno svedese che ha fatto tanta TV (però la TV svedese... dai, vabbè...) e che stava nella compagnia di commedianti Killinggänget (certo che lo so pronunciare, devo solo ubriacarmi), ok, è figlio di un regista, Hasse Alfredson, e fratello di un regista, Daniel Alfredson, ma non gli avrebbero dato in mano questa roba qui se non avesse fatto quella meraviglia di Lasciami Entrare (da poco remakerizzato dagli 'merigani con il titolo Blood Story, per la serie: guardatelo tu con i sottotitoli, io lo rigiro da capo).
E io qui mi sento di scoprire l'acqua calda e dire che questo è veramente uno dei più grandi registi in circolazione. Cioè, guardatelo, dietro quegli occhiali si nasconde uno del quale fino a poco tempo fa non consideravamo l'esistenza, e lui ti gira questo film (La Talpa, che esce a gennaio in Italia) che è una delle più convincenti pellicole di spionaggio mai viste, con uno stile da maestro, un rigore da veterano. Sembra un film di Altman, basta, ho detto tutto.
Cacchio! La talpa era Gianni Sperti!
A parte i grandi meriti che ha l'intero cast britannico, fra cui spiccano a mio parere il tormentato Tom Hardy (spicca sempre lui, un grande: Sam Rockwell nel corpo di Sylvester Stallone) e il granitico Benedict Cumberbatch (lo Sherlock televisivo, nonché uomo più bello del mondo, no? Ditemi donne...) ciò che rende grande il film è assolutamente la regia. Innanzitutto nella direzione di questi attori (ho dimenticato Mark Strong, la sua scena con la civetta che entra dal camino è folle almeno quanto il suo personaggio), rispettosa, delicata. Alfredson non è uno di quegli autori tronfi che schiacciano tutto e tutti, la cinepresa danza fra i volti raccolti nella stanza delle riunioni del Circus, coglie le più piccole sfumature, senza invadere mai, senza rubare la scena. Poi il lavoro che fa con Gary Oldman è veramente sensazionale, sembra che la storia gli interessasse fino a un certo punto, e che abbia visto nel suo personaggio il motivo per dirigerla. Lo studia, lo accompagna, gli ruba le parole dagli occhi senza che debba dirle. Lui sa che a noi di questa talpa può interessare fino a un certo punto, ma è a George Smiley, ai suoi tormenti silenziosi, i suoi più taciti segreti, che ci appassioneremo. Delicato e potente.
Alfredson è esattamente quel regista solido e non barocco che dà ancora un senso al linguaggio cinematografico, senza perdere un briciolo di modernità nel rispettarlo. Crede nel montaggio, lo usa per dare ritmo, per costruire la suspense, per farci un finale esaltante. Ma crede anche profondamente nell'inquadratura, in maniera espressiva, dando il giusto peso e la giusta impressione. Finalmente, usa a proposito il primo piano. Ce n'è solo uno di Smiley/Oldman, al punto giusto, te lo ricordi, ha senso, ti colpisce dritto in faccia. Oldman scompare, tu non sei più in una sala, stai guardando George Smiley e sei negli anni '70. Stupendo.
E poi lui sa quando il carico è troppo, ti stai per annoiare, e parte con la parentesi di Ricki Tarr e la sua travolgente avventura amorosa in Russia. Oppure con la storia parallela dell'agente divenuto professore, o ancora con quegli imprevedibili flashback durante la festa al Circus, quando c'erano tutti e si stava bene insieme, e invece lentamente emergono già lì le cose più oscure. Quel finale in cui Gary Oldman alza la voce per la prima, unica e ultima volta, e mostra i suoi sentimenti, lì e in quell'altra fugace inquadratura in cui la sua mano stritola un mancorrente per amore. Solo l'amore lo scuote, tutto il resto, la talpa, il pericolo, la filastrocca per bambini, non lo smuove. Solo l'amore conta in tutto quel grigio fumoso e desolato, ed è così per tutti, nessuno escluso. Soprattutto Alfredson.
Capolavoro.

sabato 8 ottobre 2011

IDRIS: l'ultimo elemento

(premessa: ci saranno un macello di errori, ho scritto come una bestia, così come mi avrebbe comandato il protagonista della storia... così perchè non ho voglia di rileggere tutto.)
Leggendo nessuno s'aspetti che tutto venga compreso. Questo perchè il protagonista non è spiegabile; è un'entità, qualcosa che più il tempo passa più sembra condannato ad un'esistenza ultra-naturale. In principio si crebbe fosse un cane, certo insolito; venne adottato ancora in fasce, alla tenera età di 3 mesi, anche se poco v'era di tenero: il suo volto era diverso, parte del suo corpo sproporzionato, le orecchie già formate e adulte, la coda mozzata (si dice sulla nascita), una protuberanza strana sul torace, come un neo ma molto meno definibile. Il distacco dalla madre cagna fu drammatico. Chi pensasse ora che ogni cucciolo strappato dalla maternità per viver con la nuova "famiglia umana" sia naturale, dirò che dopo poche ore dal distacco, innondò uno dei padroni con un flusso di stomaco denso e odoroso, una brodaglia che negli anni avvenire e nella storia contemporanea, diverrà parte integrale della sua essenza. Fin dai primi giorni ci fu l'intento di fargli vivere una vita dignitosa e posata che merita un qualunque cane; dunque passeggiate, uscite giornaliere e data la passione del padrone, gite in montagna. Il padrone tentò e ritentò nell'impresa, ma la bestia soffriva, tremava sulla vettura durante i spostamenti, terrorizzata alla vista delle sfuggenti figure proiettate dall'abbaino, trovando solo pace all'arrivo, dopo una o più corse nei verdi prati finalmente poteva dar sfogo a tutta la sua tensione e liberarsi con un abbondante ennesimo riflusso (molti ne fece già sulla macchina). La preoccupazione che suscitò questa sua patologia, fu ampiamente discussa dai dottori che non comprendevano l'origine, spiegabile quindi dal suo forte problema con l'ansia. Tuttavia, molti di questi medici dovettero mettere in discussione anche la propria tolleranza agli animali e alla professione scelta, dopo aver ripulito le varie tracce di urina per tutto il laboratorio. Non si creda che l'educazione non gli sia stata inflitta duramente, passato il primo arco d'età la disciplina divenne legge. Idris crebbe forte e robusto, fiero e finalmente composto. Tale compostezza ebbe modo di manifestarsi specialmente sulla brandina, suo trono sacro e insostituibile, unico suo vero amico e compagno di vita. Dopo anni di vani tentativi, si iniziò a escludere l'intenzione di farlo vivere come "essere cane". La passeggiata venne quasi abbandonata, la sola vista del guinzaglio lo terrorizzava. Il suo solo piacere era uscire nel giardino e scorrazzare quei secondi necessari per i bisogni principali , per poi tornare al trono prediletto. La monotonia delle sue giornate fu scossa una sera di settembre, quando il padrone rincasò con un nuovo amico animale; gatto. L'interesse si manifestò subito, ma a differenza degli altri cani non fu l'odio a prendere il sopravvento come vuole la tradizione, bensì il micio dovette passar la prima giornata nella nuova casa a ripulirsi dal fetido muco emesso dalle falangi del mostro. Tuttavia, fra i due nacque una solidale amicizia, per quanto il gatto continui ancor oggi a manifestare timore ad ogni suo passaggio e soprattutto ad ogni parvenza di alitata. Il colpo basso arrivò non più d'un paio d'anni or sono; ormai il bestio è anziano, porta sulla sua goffa groppa una quindicina d'anni canini, con le proporzioni fisiche perenni di un cucciolo. Durante la visita del finalmente accettato medico e amico, gli fu diagnosticato un malanno incombente fra i meandri del deretano. Si parla di noduli, tumore. Pian piano la vecchiaia si fa più presente, la vista diviene sempre più nebulosa, l'udito praticamente inesistente, la bocca colma di muffe e funghi che provocano la caduta anche di numerosi incisivi. Quel che non cambia però è l'appetito, la passegiata in giardino quotidiana e la solita vomitata digestiva. Oggi Idris sfiora la dozzina d'anni, il suo retto tumefatto da pretuberanze, ascessi ed eccrescenze violastre che ribollono costantemente lo costringono ad un'assunzione continua di innumerevoli medicinali. La vista quasi completamente estinta inducono la bestia ad orientarsi con l'ancor immutato fiuto, sbattacchiando qua e là, tra un riflusso e l'altro. Nel frastuono della sua esistenza, immerso nelle sue malattie più disperate, fra una parvenza di cedimento e l'altro tira avanti con un energia mai vista, con immutata noncuranza dell'andamento delle cose, come se nulla lo colpisse, come se a tenerlo attaccato alla vita sia qualcos'altro e non più la vita stessa, uno stato di esistenza sconosciuto faticosamente raggiunto, incompreso. Oggi Idris è vivo, a lui non sono sopravvissuti moltissimi esseri umani, anche famosi, alcuni ritenuti invincibili (come lui). L'unica ipotesi è credere che questa bestia venga da una realtà molto diversa da quella a noi nota, potrebbe essere la chiave per un altro emisfero, universo, un'altra realtà. In lui v'è raccolto l'essenza di cose ambigue e maldescritte, in lui v'è da estrarre la chiave per l'immortalità.... c'è da sperare che la chiave non si nasconda fra le eccrescenze del culo. Un affettuoso saluto, da tutti gli amici di Idris che sempre lo venereranno.