sabato 4 dicembre 2010

TFR con il TFF


1° parte

Ovvero il mio Trattamento di Fine Rapporto con il Torino Film Festival, che si conclude stasera, fra le altre cose, con la proiezione in anteprima nazionale (mondiale?) di Hereafter, l'ultimo film di Clint Eastwood. Tra l'altro ecco qui i risultati, tutti i premi delle varie sezioni e le informazioni di sorta. Fatene buon uso.
Se seguitate a leggere qui invece, trovate la mia personale e modesta analisi dei film che ho visto, divisa in 3 comode parti. Dato che non canto (ancora) sulle navi, e che perciò non avevo il danaro sufficiente a visionarli tutti, ho potuto selezionarne solo alcuni. La scelta si è basata sulle indicazioni che Gianni Amelio (al diretùr) ed Emanuela Martini hanno velatamente lasciato trasparire agli studenti dell'Università di Torino, durante la presentazione del festival nelle aule di Palazzo Nuovo, nonché su aspettative, gusti e pregiudizi del tutto personali. Vabbene?
Devo dire che alla fine non sono rimasto deluso, mi pare sia stato volto un buon lavoro, ed il risultato complessivo merita un ottimo voto. La storia dei biglietti e delle prenotazioni è stata strana e macchinosa, e credo che nessuno l'abbia capita ancora adesso. I film però c'erano, anche roba grossa, e pur non svendendosi alla passerella come Venezia, Torino ha leggermente aperto le sue porte anche al pubblico meno cinefilo, con proposte più accattivanti per il pubblico della domenica. Ne è riprova il fatto che molti dei film presentati qui, presto o tardi verranno distribuiti anche nella normale programmazione in sala, e non finiranno nel limbo delle cose mai viste e mai sentite. La mia scelta ha avuto a che fare anche con questo aspetto, privilegiando opere che in altro modo non avrei potuto raggiungere. Ho voluto poi serbare un occhio di riguardo per le produzioni del nostro paese (che infatti troverete in maggioranza), ma sono stato attento a dedicarmi alle varie voci del cinema internazionale, senza privilegiare magari la corrente americana o europea.
Basta. I film sono in ordine di gradimento, dal più basso al più alto, così fremerete per leggere l'ultima parte, che contiene i migliori. Beccatevelo così, che già non ho messo i voti, e mi raccomando... non fremete troppo nell'attesa.

IL FUTURO DEL MONDO PASSA DA QUI - CITY VEINS di Andrea Deaglio (Italy, 2010, Beta SP, 63')
A pochi chilometri dal centro della grande città si trova un’area di confluenza di acque fluviali dove la nebbia è padrona del paesaggio e le strade sterrate perdono forma. Un paesaggio naturale, stretto nella periferia della metropoli, che ospita vite e storie che respirano e pulsano, nascoste allo sguardo del mondo. Ma il futuro ha un piano per questo margine sospeso fra acqua, terra e cielo.


Un documentario piccolo piccolo, realizzato nell'ambito dei vari progetti istituiti dalla regione Piemonte, e con il sostegno della Film Commission. Sembra brutto trovarlo qui al primo posto, dopo quanto premesso, ma non ha davvero colpe se non quella di essersi misurato contro avversari inevitabilmente più forti.
Nel giorno in cui Torino si è svegliata sotto la neve, un film dove le stagioni si susseguono e si abbattono sulla città, anzi su una sua ignota parte. Ci viene mostrata questa zona periferica (ma lontana dal centro solo quattro chilometri) come esempio di uno dei tanti margini delle città d'Europa, dove, alla fine della strada, non esiste nulla, non passa niente, se non il fiume. Il titolo però ci dice tutt'altro, ed in effetti, guardando meglio, qui c'è qualcosa. Un pugno di senza tetto, un accampamento di zingari, contadini della brulla natura, centrali di spaccio e pusher, nascosti nella vegetazione. Deaglio osserva con occhio distaccato, da documentario scientifico, queste piccole forme di vita dimenticate, allo stesso modo dei vermi e delle altre infinitesimali creature che vengono scrutate in principio e fine. Come detto, riprende queste esistenze nel corso di un lungo periodo, fra sole, pioggia, neve e fango, e sopravvivenza lungo le rive del grande fiume madre. Sceglie dei protagonisti in mezzo agli altri, una delle quali, come una novella Anna di Grifi, scompare durante le riprese, e di lei non si sa più nulla. Tranne che probabilmente sia finita preda della droga. Non pensate di defibrillare durante la visione però, non si vede praticamente niente, se non frammenti di quotidianità. Il film è lento, sospiroso, sfuma nel bianco, nel nero e nel grigio, seguendo il flusso tranquillo del fiume, insieme alla nebbia che porta con sé.
Costruiranno un parco e un campo da golf in questo pezzo di terra, e tutto ciò scomparirà, questo è quanto. Di queste forme di vita che cosa sarà?
Chi se ne frega? Beh, il futuro del mondo passa (anche) da queste cose, ricordiamocelo.

E infatti, per ricordarcelo, c'è dell'altro. Il film è nato da una fotografia, come sottolineano le didascalie stesse, e si è espanso in un documentario, un libro, un osservatorio sul territorio, e un sito internet che ve lo spiega. E a dire la verità, credo che questa sua seconda vita, e questa crescita oltre i suoi confini, sia l'unica cosa degna di nota del progetto. Ciò che lo rende... utile.


Comunque, volete la mia? È un prodotto televisivo (a cui Le Iene ci hanno ormai abituati), e non da cinema.
INSIDE AMERICA di Barbara Eder (Austria, 2010, 35mm, 107')
La ricerca della felicità alla “Hanna High School”, sul confine fra Usa e Messico: inconvenienti della sessualità, vendette adolescenziali, consumo di droghe e concorsi da miss. Una galleria di ritratti intensi e disarmanti, filmata da una regista austriaca che da adolescente frequentò quella scuola e che ci è tornata per raccontare il cocente rovescio dell’american dream.

Dice tutto il trafiletto ufficiale del festival, anzi, dice tutto già solo il titolo. Uno sguardo dentro l'America, non superficiale o turistico, ma approfondito e analitico. Si nota che Barbara Eder ha vissuto in questo paese, perché il suo scandaglio non fa trasparire la lontana provenienza, non sembra in nessun modo quello di una straniera. La regista scende in profondità e si radica nel tessuto sociale più nascosto e sotterraneo, negli USA dell'ignoranza e delle superstizioni, della violenza e dell'esaltazione virile, dell'obesità, dei SUV e delle minoranze etniche. È in questo paesaggio martoriato che si inserisce, per raccontare un pugno chiuso di storie intrecciate e impastate, storie di ragazzi, poveri, ricchi, belli, brutti, timidi o bulli. Riesce a mantenere sempre ottimamente l'obiettivo (invero sporco, sgraziato, documentaristico) su questi giovani simboli di altrettante facce d'America, anche se le vicende tendono a disperdersi, sfilacciarsi, e a concludersi con dolorose troncate. La sceneggiatura in questo senso è sorprendente, perché l'intreccio è davvero originale e inaspettato. Ci si stupisce per i colpi di scena, e non si intuiscono le svolte della trama già dieci anni prima (come in quella minestra riscaldata di Crash, dove tutto era già detto e fatto, nei contenuti e nel linguaggio, l'esempio perfetto dell'Oscar regalato).
Orbene, le vie di riscatto si dileguano, le cose belle si distruggono, i buoni sentimenti rimangono soffocati e lo smarrimento è tutto ciò che rimane. È un viaggio intenso e dolente, che corre dentro al paese come una linea retta, senza un preciso punto d'inizio, ed inevitabilmente, senza una fine.


Ogni tanto fa ridere, ogni tanto fa piangere. Niente di trascendentale.


ZAMRI, UMRI, VOSKRESNI! di Vitali Kanevsky (Sta' fermo, muori e resuscita! URSS, 1989, 35mm, 105')
Un’immersione folgorante nel passato doloroso del regista. Nel 1947, nell’estremo est sovietico, il dodicenne Valerka vive una quotidianità violenta e estrema, trascurato dalla madre e dalla scuola. La tenera amicizia con Galija è un modo per crescere senza imboccare la altrimenti scontata strada del crimine. La rivelazione di Cannes 1991 e della perestrojka.
Che bello, un film di quando la Russia si chiamava ancora URSS, tanto che rileggere quella data comincia a far sentire un po' vecchi. Vabbè, non tergiversiamo...




Quest'anno al TFF, oltre a quella su John Huston, c'era la retrospettiva su Kanevsky, e questo qui è il primo mattoncino della sua (in realtà piuttosto modesta) carriera. È un film che a mio parere non è invecchiato benissimo, e si nota parecchio, con tutto il bene che gli si può volere, che si tratta di un'opera prima, con tutti i difetti del caso. Ci racconta le grandi e piccole avventure di Valerka, bambino senza padre, in un mondo e una realtà che possono essere definiti con una sola parola: povertà. Ed è questo l'elemento che condiziona (e che forse è il vero protagonista del film) lo sguardo al passato compiuto dal regista. Dalle giornate passate con l'amica Galija, (l'unica che gli vuole davvero bene?) fatte di noia, dispetti, giochi ed espedienti per racimolare soldi, si passa alla fuga, alla sanguinosa entrata nella criminalità, via via, dopo un ultimo momento di dolcezza, sino ad un finale che strappa via letteralmente tutto ciò che rimane, rivelando la miseria più pura. La cosa che stupisce maggiormente sono le abbondanti quantità di humor, piuttosto atipico per un film russo, che parla della Russia, in bianco e nero e lingua originale, no? Tutto merito degli attori, che non recitano, ma sono più veri di quella Taiga desolata. Sta' fermo, muori e resuscita! ha l'aspetto di un 400 colpi girato da Tarkovsky, anche se ovviamente gli manca quello stile. Slegato e bizzarro, popolato da gentaglia e cinesi maltrattati, in cui ogni personaggio canta canzoni popolari russe, d'amore o da ubriaco, sottovoce in intimità o a squarciagola. Gode di una sua poesia, nel suo bianco e nero antico, e nell'odore umido di ogni scena. È uno strano vecchio film, grezzo e duro come il territorio che racconta. Un oggetto misterioso, imprevedibile, un treno merci carico di carbone, che per esistere non ha bisogno di bellezza, o di un senso, c'è e basta. E in qualche modo rimane dentro.
Stringendo, se mi chiedete se mi è piaciuto... bah... però la scena dell'inseguimento è magnifica.

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