domenica 5 dicembre 2010

TFR con il TFF

2° parte

LAST CHESTNUTS di Zhao Ye (Japan, 2010, HDCam, 60')
Dal regista di Jalainur (in concorso l’anno scorso qui a Torino), un progetto targato Naomi Kawase: in un paesaggio autunnale, una donna va alla ricerca del figlio, tra sconosciuti gentili e umani. Tutto raccontato sul filo di una tensione crescente, e con un pudore e una generosità di sguardo rari e commoventi. Interpretazioni da applauso e un finale che è una stretta al cuore.
Questo film assomiglia ad uno dei viaggi immobili di Wenders, dove la geografia in cui i personaggi si muovono è la proiezione della loro interiorità.
Una donna  giunge a Kashira, nel distretto di Nara, ma si trova in realtà nel territorio che appartiene al suo figlio scomparso, e nel quale non ha punti di riferimento. Vaga con le fotografie che si è lasciato dietro, i ricordi che ha seminato, cercando di entrare in contatto con lui, andando nei luoghi dov'è stato. Una missione vana, strettamente sentimentale. Quella che seguiamo passo dopo passo, è una donna dai comportamenti bizzarri, e poi capiremo perché, che cerca di colmare il vuoto affettivo che prova, in alcuni particolari istanti dove diventa la madre di altri bambini. I lunghissimi piani sequenza hanno il compito di strutturare le scene infinite, ma sono pensati e realizzati talmente bene che non si notano, e non appesantiscono l'ingranaggio. La difficoltà che hanno richiesto, sia dal punto di vista registico che di quello attoriale, è ben evidente, ed è la testimonianza del grande impegno e della coerenza stilistica che Zhao Ye ha coscientemente perseguito. Ci sono anche alcuni colpi bassi, portati dalle foto e dai video della macchina fotografica digitale, trattata in un modo davvero funzionale per la prima volta al cinema. Nel complesso quindi, una concezione originale.
La questione però è un'altra. Come nel vincente (del Leone d'oro) Somewhere, questo è un altro di quei film il cui unico obiettivo è veicolare un concetto, una metafora: che cosa lasciamo dietro di noi dopo il nostro passaggio? Ma per quanto quest'idea sia importante, se è la sola cosa che ci interessa, ciò che accade sullo schermo non può essere definito una trama. Un ritratto forse, un apologo, ma non una storia. Perché se un film dura già solo 60 minuti (il minimo per un lungometraggio), e quel poco tempo viene occupato da inquadrature lunghissime, sospirose, ed inutilmente meditative... quest'operazione si può definire caratterizzata da una cosa soltanto: mancanza di idee. Il cinema non è un dipinto, ha le sue regole, e il senso del ritmo è una delle quali. Persino Antonioni (che parlava solo di vuoti e svuotamenti) si sforzava di non riprendere un viso che respira per due minuti di fila, perché sapeva benissimo che un'immagine cinematografica, per quanto equilibrata e costruita sia, esaurisce la sua espressività dopo pochi secondi. Non si tratta di letteratura, fatta di parole enunciate, ma di immagini che devono comunicare nel loro tempo, prima di lasciare il posto ad altre.
Se non altro, rispetto al film della Coppola, la situazione è quantomeno più coinvolgente e stimolante dei (triti e ritriti) dolori di un giovane miliardario. Però la vacuità, anche linguistica, là era parte integrante e fondamentale della pellicola, anzi la principale. Qui c'è molta rarefazione e stristezza, ma anche tanto, tanto autocompiacimento nel perdere tempo.
Sulla questione del finale poi, secondo me bisognerebbe tornare a guardare alla vecchia scuola, quelle lunghe dissolvenze, quei momenti di quieta poesia e di dolce riflessione. Perché la fine è un momento che va preparato, curato e reso al meglio, e perché staccare semplicemente la spina, non è un finale. Ma del resto questa non era una storia... 
Ah, sì... è rimasta una domanda in sospeso. Cosa lasciamo dietro di noi dopo il nostro passaggio?
Un vuoto, tanta tristezza... e qualche castagna.

NAPOLI 24 di AA.VV. (Italy, 2010, video, 75')
Ventiquattro registi napoletani raccontano, in frammenti di pochi minuti, la propria idea della città. Vicoli e periferie, mare e musei, neonati e centenari sono seguiti scegliendo chiavi che vanno dal poema visivo, all’intervista, al racconto breve. Un mosaico, una sfida: cogliere in un lampo una città complessa e inafferrabile. Tra i registi, Paolo Sorrentino e Pietro Marcello, vincitore del TFF 2009 con La bocca del lupo.

Non sapevo cosa aspettarmi sinceramente. Un mosaico di cortometraggi di registi esordienti, mandati allo sbaraglio con un solo obiettivo: raccontare Napoli, poteva trasformarsi in un lavoro da quinta elementare. Alla fine la cosa che mi ha spinto a vederlo è stata proprio la presenza di autori affermati: Mario Martone e Paolo Sorrentino, o recenti rivelazioni: Pietro Marcello, che avrebbero comunque garantito un certo livello. Invece poi mi sono trovato di fronte a uno spettacolo originale, stimolante, e anche se con qualche vistoso calo, nel complesso veramente meritevole. I frammenti peggio riusciti risultano essere, con mia grande sorpresa, proprio quelli più attesi. Il lavoro di Marcello è incomprensibile, degli operai che lavorano a un rettifilo con in sottofondo una musica ipnotica. Anche a Napoli si lavora? È questo il senso? Boh... L'impronta di Sorrentino, lasciato per ultimo, si riconosce subito nelle inquadrature distorte e visionarie che lo contraddistinguono. Ci presenta un'anziana principessa dell'aristocrazia napoletana, che vaga nel suo grande palazzo insieme al maturo figlio. Le immagini pittoriche, impreziosite dall'accuratissima fotografia del fido Luca Bigazzi (il miglior direttore della fotografia italiano) si susseguono senza un senso apparente, come in uno dei sogni di Fellini, da sempre suo modello. Una musica bizzarra, dall'effetto straniante, con cui Sorrentino è solito caratterizzare i suoi film, accresce poi il senso di alienazione di una vicenda che permane misteriosa sino alla sfumata in nero finale. Forse il regista allude al decadimento della nobile Napoli, invecchiata ma pur sempre vanitosa, immersa in un crepuscolare tramonto nella sua splendida baia. Ma è solo un'interpretazione.
Anche altri tentano questa strada, ovvero l'affabulazione visiva, in quest'affresco variegato che abbiamo sotto gli occhi, ma la strada meglio battuta risulta essere il realismo. Complice la situazione sociale di Napoli, i registi hanno terreno fertile per favorire spunti di cronaca, dall'emergenza rifiuti alla convivenza con la camorra, il degrado urbano, la diffusione delle droghe fra i giovani, e il parallelo svuotamento intellettuale degli stessi. In uno dei frammenti ci vengono mostrate alcune interviste a ragazze i cui unici obiettivi sono l'apparire in TV, lo sfilare, l'essere ammirate ed il denaro. In quello subito dopo, il tipico pomeriggio di un gruppetto di spacciatori adolescenti, intenti a fare comunella fra una vendita e l'altra. È questo uno degli aspetti che funziona maggiormente, la coerenza generale del montaggio, che accosta gli episodi simili o in contrasto per tematica. Anche gli stili sono molto differenti, la maggior parte si affida alla ripresa digitale economica e amatoriale, mentre Nicolangelo Gelormini, nel suo brandello di tempo, realizza una serrata storiella che per le sue caratteristiche ricorda uno spot pubblicitario.
Oltre agli episodi di cronaca, i ritratti che funzionano meglio sono quelli folkloristici. Quando si punta la telecamera su un napoletano metà del lavoro è già fatto. La festa in onore di "Scarpariello", un vecchietto arzillo che compie 100 anni e viene festeggiato persino dal cardinale, è uno dei momenti più riusciti e divertenti, così come quello sull'orchestrina di suonatori del tram, o sul ristorante dove i gestori trattano bonariamente gli avventori, riscuotendo risate e consensi. Alcuni adottano una parte delimitata della città e ne fanno una descrizione poetica, altri, come nel bellissimo incipit di Ugo Capolupo, la riprendono nella sua interezza, osservandone il respiro ed il ciclo vitale, fra giorno, notte, alba e tramonto. Meritano una menzione quello sulla parata risorgimentale, dove uno dei figuranti fa un'analisi sull'importantissimo ruolo storico di Napoli nel passato, e sull'amnesia di ciò che ha colpito la classe politica oggigiorno, e la scintilla di Martone, unico fra i grandi a confermarsi. La forza del suo cortometraggio (possiamo proprio definirlo tale, in quanto è perfettamente indipendente) sta nell'idea, semplice ed immediata. "Non è un paese per ragazzini" il titolo, cosa che viene dimostrata con una sola, disarmante inquadratura.
In definitiva è un film godibilissimo, che merita di essere visto senza pregiudizi (come ogni altro del resto). Una sorta di Paris, Je T'aime, ma realizzato da sconosciuti invece che registi affermati, e quindi più utile. Ogni città e ogni regione dovrebbe fare questo sforzo produttivo, offrendo una telecamera e l'opportunità di esprimersi ad aspiranti filmaker locali, così da lavorare sulle idee, sull'inventiva, così da tirare fuori nuovi stili e talenti in quest'Italia ingolfata nel vecchiume. Dovrebbero uscirne uno, anzi un paio all'anno, e tutti dovremmo andare a vederli. Se lo fanno, io mi impegno a guardarli tutti.

REPORT FROM THE ALEUTIANS (USA, 1943, 16mm, 47') + TUNISIAN VICTORY (USA, 1944, 35mm, 75') di John Huston
Nell'autunno del 1942 il tenente Huston si piazzò con la troupe su un atollo dell'arcipelago delle Aleutine da cui partivano i raid aerei americani sulle basi giapponesi. Un poema visivo, lodatissimo dalla critica, che valse a Huston un nuovo incarico: organizzare il materiale di Tunisian Victory, sullo sbarco alleato in Africa del Nord. Ma gli originali girati dalla troupe di Frank Capra andarono persi in un naufragio e l'evento fu "ricostruito" in California e in Florida.

Dei grandi documentari, enormi. Il primo è di propaganda pura e semplice, su uno dei fronti di guerra più sconosciuti e al tempo stesso interessanti. Si concentra sulle condizioni di vita sull'isola di Adak, dove sorgeva il campo militare delle Aleutine, più che sui combattimenti. Anche perché proprio per la particolare situazione, non ci furono scontri di fanteria, ma soltanto aerei, perciò il nemico non si vede mai. Osserviamo l'arrivo dei marines, la costruzione del porto e dell'aereoporto, la sopravvivenza in un paesaggio che non offre nulla all'uomo, se non desolazione. I soldati vengono mostrati anche in attività personali, come la corrispondenza con gli affetti lontani. Huston, uomo duro di una volta, non cede mai alla malinconia. Qui stanno tutti bene sembra dire, il morale è alto, vinceremo. Nel finale partiamo insieme ai piloti per andare a bombardare Kiska, sorvolandone anche il vulcano. Questa si dimostra la parte più difficile, da realizzare e seguire, e ci si perde un po'. Le immagini, che sono il punto forte, e sono straordinarie, sono comunque accompagnate da un testo molto bello, non banale e non solo propagandistico. Se volete leggere qualcosa su questa parte gelida e poco conosciuta della Seconda Guerra Mondiale, c'è uno scrittore che l'ha combattuta, uno dei più grandi. Dashiell Hammett, che è stato troppe cose da poter qui elencare, ha scritto con Robert Colodny "La battaglia delle Aleutine". Si trova in fondo alla sua biografia, scritta da Richard Layman, una qualcosa che supera in meraviglia qualsiasi altra cosa abbia mai pubblicato, ma questa è un'altra storia.
Tornando, anzi... cominciando il discorso su Tunisian Victory, voglio innanzitutto dire che è stato il film che mi ha regalato la sala vuota (posso vantarla anche ad un Festival adesso). Incredibile come invece ci fosse affollamento e code chilometriche per vedere le altre... non so come dirlo... stronzate?
Questa è realtà, potremmo anche tornarci ogni tanto, prendendo una pausa dalle favole. Comunque... un documentario perfetto, straordinario, da far vedere a scuola, sia per parlare di storia, sia per parlare di cinema. Moderno, sembra nuovo, ricercato nelle immagini e pedagogico. Frenetico, con un passo rapido e ritmato, un montaggio quasi da videoclip. Siete lì, osservate delle immagini stupende, geometriche e pittoriche, e invece di assaporarle per ore con compiacimento, le vedete sparire dopo un secondo, rimpiazzate da altre altrettanto splendide. Quasi un montaggio foto, ma con il portfolio di Frank Capa (quella senza "r" dico). Dice tutto, persino le strategie, il testo recitato è magnifico, più volte toccante, e pur rimanendo nell'ambito della propaganda si apre a considerazioni umane e filosofiche.
È ricostruito? Amen.
L'esempio, il modello, come ogni documentario dovrebbe essere.

Però ve lo dico. Nella loro dimensione, nella loro età, nelle loro attitudini e nel loro obiettivo, sono inevitabilmente noiosi. Inevitabilmente, sì.

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