lunedì 6 dicembre 2010

TFR con il TFF


3° parte

Bene, eccoci giunti all'ultima (e attesissssima) parte. Questi sono i migliori che ho visto, e suggellano il discorso sulla ventottesima edizione del Torino Film Festival, dandogli appuntamento al prossimo anno, ancora fiduciosi.

SMALL TOWN MURDER SONGS di Ed Gass-Donnelly (Canada, 2010, HDCam, 75')
In un villaggio dell’Ontario in cui vive una comunità mennonita, un poliziotto dal passato violento convertito ai cristiano evangelici indaga sull’omicidio di una ragazza. Noir esistenziale che ricorda Egoyan e i Coen. Sorprendente colonna gospel-rock dei canadesi Bruce Peninsula, un tormentato Peter Stormare (Fargo, Dancer in the Dark) e un’intensa Jill Hennessy (Crossing Jordan, Law & Order).

Il nome dei Coen, due righe qui sopra, credevo fosse soltanto una delle solite etichette affibbiate dai critici, invece il rimando non è per nulla azzardato. Abbiamo una storia di violenza, una provincia popolata da uomini qualsiasi, una regia kubrickiana, una fotografia perfetta, e persino un pizzico di humour. Qui però c'è una drammaturgia tipica da film hollywoodiano (anche se questo è canadese), ed una tensione di fondo che i Coen tendono sempre e comunque a stemperare. In pratica è un film serio, con il quale nessuno ha giocato. Difatti, fra le sue pur tante qualità, non figura una particolare originalità, almeno non nella trama.
Un omicidio avvenuto in una comunità bigotta, un protagonista, Walter, dal passato oscuro, ed una donna che non ha mai smesso di amare. Contenuti che non lasciano intravedere nulla di nuovo nel loro evolversi, e infatti la marcia in più non è da ricercarsi nella storia in sé, quanto piuttosto nei modi di raccontarla.
Ci sono delle immagini talmente belle che lo guarderei anche da muto. Non solo per i paesaggi, di per sé nemmeno un granché, che vengono qui nettamente valorizzati, ma per il taglio dei volti, la luminosità del quadro, la geometria delle figure. Il discorso sui finali moderni (ve lo rammentate?) qui non vale, perché questo è perfetto, uno dei migliori da tanto tempo, visivamente maestoso.
In secondo luogo la colonna sonora. Non ne ricordavo una così bella e importante (nel senso che riesce a raggiungere lo stesso piano delle immagini) da quella di Jonny Greenwood per Il Petroliere. Queste "murder songs" tribali dei Bruce Peninsula riescono ad essere stranianti almeno quanto i suoni curiosi del chitarrista dei Radiohead, ma vengono combinate alle immagini in un modo epico, conferendo alle sequenze una potenza schiacciante. Un tipo di emozione che solo la musica gospel può dare.
E quindi, la parte riuscita peggio (ma comunque sufficientemente bene), risulta appunto essere la sceneggiatura, che non si impone e non brilla sotto alcun aspetto particolare. Sta ben attenta a cercarsi una sua dimensione però, facendo risaltare soprattutto la componente religiosa, anche attraverso la scelta della divisione in capitoli, denominati con i principali comandamenti della comunità mennonita. E poi c'è la riflessione non banale sulla violenza, sulla natura e gli istinti dell'uomo. La cosa che fa maggiormente pensare ai fratelli di Minneapolis è comunque la presenza di Peter Stormare, attore eccezionale, che ha incredibilmente goduto di pochissime parti da protagonista nella sua lunga carriera, appunto con i Coen e poi in questo film. E che dopo una vita di ruoli da cattivo, ambiguo, malato, insano, pazzo e perfino diavolo, ha finalmente avuto l'opportunità di entrare nei panni di un personaggio molto più sfaccettato. La facciata principale è sempre la morbosità: l'evolversi della trama esalta scena dopo scena la naturale oscurità che si cela nel suo gelido sguardo, e che attraversa tutto il film come un brivido, un impulso sempre soffocato e rimandato, pronto a scoppiare. Ma emerge anche il suo lato più delicato ed emotivo, di umiliazione, timore, umanità... e persino un intenso sguardo innamorato.
Mentre l'indagine nel presente prosegue con esito scontato e a senso unico, il regista non ci dice cos'è accaduto nel passato, non del tutto. Lancia brevi segnali, flash dai quali capiamo che un atto di violenza si è scatenato, e da quel momento tutto è cambiato. Ma chi era la vittima? È per questo motivo che la famiglia di Walter non ne vuole più sapere di lui?
Probabilmente, ma non ci interessa. Il passato è soltanto qualcosa da dimenticare e da cui fuggire. E lui, alla fine, almeno in parte ci riuscirà. E sarà una conquista anche nella sconfitta.
Ed Gass-Donnelly scrive, produce, dirige e monta (proprio come i due già citati fratellini) mentre noi, da par nostro, dobbiamo soltanto tenerlo d'occhio. Perché ne sentiremo ancora parlare.

CATERPILLAR di Kôji Wakamatsu (Japan, 2010, 35mm, 85')
La guerra partorisce mostri, del corpo e della psiche: nel 1940, il tenente Kurokawa torna al suo villaggio come eroe pluridecorato. Ma è senza gambe e senza braccia. Wakamatsu affronta di petto le storture freak di ogni devozione ideologica e i sacrifici sovrumani della devozione coniugale. Dopo United Red Army (al festival del 2008), l’autore giapponese è ancora arrabbiato con la Storia.

Comincio dicendovi che allo scoccare dei titoli di coda il pubblico è rimasto imbambolato e confuso, il massimo effetto che un film possa fare, secondo il mio (im)modesto parere.
Inebetiti sì, ma purtroppo non senza parole. Perché dovete sapere che ormai i critici si nascondono ovunque, si palesano sotto mentite spoglie ad ogni angolo, sembrano persone normali, ma quando meno ve l'aspettate... zac: la Recensione! Uno dei tizi presenti in sala infatti, con immancabile erre moscia ha commentato: "Beh.. un film militarista..."
Ma va?? Ma dai!! E dire che aveva tutte le carte in regola per essere una travolgente storia d'amore... e vabbè, invece è proprio un film sulla guerra. Ma questo non ci preclude nulla, anzi... perché ci sono tanti modi per parlare di guerra. Si può riprenderla e basta, come Huston (già, ma bisognerebbe essere stati contemporanei), si può trasformarla in un'epica romantica dalla lacrima ricercata, come Pearl Harbor, si può parlarne filosoficamente, come ne La sottile linea rossa, o ancora esaltarne gli aspetti spettacolari, propagandistici, di eroismo, di spionaggio, politici eccetera. Oppure si può fare come Kubrick (lasciando stare il particolare caso dell'ironia, riuscito soltanto a lui) e Coppola, estraniarsi ed uscirne, parlandone meglio di chiunque altro senza far partire nemmeno un colpo. Concepire la guerra come fenomeno, attitudine umana, concetto assoluto. E allora...

Kyuzo torna a casa dalla guerra in uno stato terrificante, senza braccia e gambe, sordo, deturpato e incapace di parlare. Un caterpillar, un bruco. Però ha delle medaglie, e l'onore e il rispetto di tutto l'esercito e della comunità. Sua moglie Shigeko dovrà accudirlo, ed è un compito che, superata l'iniziale disperazione, svolgerà sempre meglio. Ma questa non è una vicenda in cui alla fine sono tutti felici e vanno a spasso, moncherino nella mano. Dovrebbe essere chiaro a chiunque che non è un film sugli handicap, perché è troppo brutale ed estremo (per esempio Kyuzo avrebbe almeno potuto conservare la parola e l'intelletto, per comunicare quello che sente, e cercare di reinventare la sua vita, ma no, è una bestia: mangia, dorme e vuole fare sesso). Sì esatto, vuole fare sesso, l'unica cosa che gli rimane, e Shigeko ci deve stare, sempre. Sono scene molto coraggiose, ma del resto tutta la pellicola è caratterizzata da una crudezza che risparmia ben poco allo spettatore (ricordiamoci che Wakamatsu è principalmente conosciuto per i suoi film erotici).
Queste cose comunque non sono gratuite, tutti gli elementi della storia convergono verso un'unica idea. È presente una e una sola situazione, Kyuzo con Shigeko, ed è nei loro dialoghi e nei loro gesti che sta tutto il senso, il resto è un pretesto narrativo. Da quando è tornato nessuno lo chiama più per nome, nemmeno lei, per tutti è il vittorioso Dio della Guerra. Ma il conflitto non l'ha cambiato nell'animo, lo vediamo stuprare una ragazza cinese come già picchiava sua moglie. Il male non è nell'aria, è dentro le persone.
Poi, se per un occidentale la guerra è quasi solamente morire, per gli orientali subentra appunto il concetto di onore, della gioia e del merito nel sacrificarsi per il proprio paese. Quelle stesse cose che hanno attirato l'attenzione di Clint Eastwood in Lettere da Iwo Jima, dove analizzava l'umanità e la paura naturale dei soldati di fronte alla loro concezione del giusto e dello sbagliato, inculcata dall'impero. Ecco, per Wakamatsu queste cose non hanno importanza, nessuna attrattiva, nessun lato poetico. Le osserva con disprezzo e derisione, e guarda alla guerra con odio, il sentimento più giusto. Niente retorica, nessuna lacrima di speranza. Sono cose inventate dagli stupidi, che senso hanno? Che senso possono avere delle medaglie di fronte a tutta una vita? Il Dio della Guerra è un orrore, ed è giusto che muoia. Poco prima che avvenga però, un momento altissimo, molto delicato, in cui entra in contatto con la sua evanescente umanità. Ma è soltanto un attimo. La gioia può tornare ad esserci dopo il suo aborto.
Più che un film militarista è un horror, con mostri della natura umana. Non emoziona, forse non è piaciuto a nessuno, ed è giusto che sia così. Non può piacere, non deve farlo.
Basta, chiudiamola qui, un capolavoro. Di quelli spietati.

LE QUATTRO VOLTE di Michelangelo Frammartino (Italy/Germany/Switzerland, 2010, 35mm, 88')
In un paesino calabrese, un vecchio pastore muore ma la sua anima continua a viaggiare, attraverso lo stato animale, vegetale e minerale. Sotto i nostri occhi, un rigoroso documentario si trasforma in una spericolata commedia filosofica. Un trionfo italiano a Cannes: la star è un cane dispettoso e il comprimario un gregge di capre anarchiche dirette alla maniera di Tati.
Ci sono un essere umano, un animale, un vegetale e un minerale, questa non è una barzelletta, e questo non è uno scherzo, il film è davvero così. Il vecchio pastore ha il suo mondo e le sue abitudini, i suoi problemi di malattia e la sua assai curiosa concezione della cura. Dopo la sua morte avviene la nascita di un capretto, che dopo i primi curiosi passi nella vita si perderà nel bosco, e morirà ai piedi di un albero. Quest'albero svetterà sopra la terra battuto dal vento e dalle stagioni, verrà abbattuto e portato in paese, dove sarà issato come palo della cuccagna. Finita la festa verrà tagliato in piccoli pezzi, lavorato dai carbonai e trasformato in carbone. Dopodiché verrà venduto alla gente del posto, finirà nella stufa e brucerà, uscendo dal camino sotto forma di fumo.
Non un solo dialogo, non una sola scena di sesso o sparatoria. Riuscite a crederci? Tutto ciò che credevamo del cinema... qui non c'è. E il perché è soltanto che in principio, quella nostra idea, era semplicemente sbagliata. Un film non dev'essere per forza come Avatar, quello è soltanto un tipo (di che grado lo lascio decidere a voi). Il cinema, al contrario di quanto si è ormai radicato nell'opinione collettiva, non ha un preciso schema di comportamento, o una lista cose che deve rispettare. Cinema significa: immagini in movimento e, dal 1927, suoni.
Quali immagini: persone? E quali suoni: parole e dialoghi? No, non necessariamente. Il cinema non ha confini, non ha obblighi nei nostri confronti, non deve per forza raccontarci delle storie, allettarci o divertirci. Esiste come linguaggio indipendente, e può mostrare qualsiasi cosa. Una storia, un intreccio, una trama non sono indispensabili, anche se queste cose rientrano nei nostri gusti. Chissenefrega. Questo film però ci viene anche incontro, ha una sua intangibile storia, non indugia, è chiaro, veloce, divertente e semplice come una vecchia fiaba. Ed è proprio per queste sue caratteristiche che dev'essere stato di una difficoltà unica da girare. Ci sono dei piani sequenza incredibili, animali che recitano, e delle scene che non hanno bisogno di parole o spiegazioni per comunicare.
Nel silenzio, e con il suo passo, Frammartino ci porta in un mondo nel quale possiamo solo sbirciare. Chiudiamo la bocca e apriamo gli occhi, possiamo farcela per una volta, per poco meno di un'ora e mezza.
Cose come Avatar sono dei giocattoli, dei feticci moderni, vuoti come le idee che li hanno prodotti. Questo è un film, vero e autentico. È la forma più alta e pura di cinema che ci sia in circolazione, perché torna alle origini, e fa della poesia usando soltanto immagini e suoni. Chi l'avrebbe mai detto...
In un mondo perfetto le sale sarebbero affollate per vederlo, la gente lo ammirerebbe rapita e non si lamenterebbe che manca George Clooney. Vincerebbe l'oscar e tutto il resto dei premi, e tutti riconoscerebbero subito che è il film dell'anno.


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