lunedì 27 dicembre 2010

Giant Sand - Blurry Blue Mountain (...e *proVisions*... e i Calexico)

La storia è questa: in quel di Tucson, Arizona, nella metà degli anni '80 si forma una band dal nome Giant Sandworms, in riferimento ai vermoni che popolano l'universo di Dune, prima nei libri di Frank Herbert e poi nel film di David Lynch del 1984 (e seguenti). Il leader indiscusso è il fecondo e poliedrico Howie Gelb, chitarrista, cantante e compositore, con alle spalle Joey Burns (chitarra ritmica) e John Convertino (batteria).
Lentamente, disco dopo disco, con il ritmo di uno all'anno, la band cambia formazione e nome. Nuovi membri arrivano e partono, come il tastierista Chris Cacavas emigrato nei Green on Red, e dieci anni dopo anche Burns e Convertino si staccano dall'ombra di Gelb, per formare i Calexico, la cui prima orma nel paesaggio tex-mex risale al 1997.
La musica di questo nuovo gruppo rimane fortemente legata a quello madre, un alt-country elettrico, caratterizzato dal luogo geografico (Calexico è il nome di una cittadina di confine fra California e Messico) e dai territori di frontiera. Per parecchi dischi però, senza la concretezza compositiva di Gelb, i due transfughi non riescono a realizzare album di canzoni, ma solo di musica. Brani lunghi, strumentali, testi di una manciata di versi, sussurrati senza pretese fra le sontuose parti di chitarra steel di Paul Niehaus ed i viruosismi dei polistrumentisti Jacob Velenzuela e Martin Wenk. Fra trombe, fisarmoniche, vibrafono e sintetizzatore, come una moderna orchestrina messicana di paese, la formazione giunge forte e solida fino ai giorni nostri.
I lavori migliori risultano essere delle cover (il loro pezzo più celebre è Alone Again Or dei Love, nell'EP Convict Pool del 2004 ) o delle collaborazioni (lo splendido EP del 2005 In the Reins con gli Iron and Wine); vengono molto apprezzati, e negli anni la loro fama si espande oltre limiti che Gelb non ha mai toccato. È un gruppo fortunato, che viene visto come innovatore di una certa musica tradizionale tipica dei paesaggi polverosi della sperduta America, e questa concezione li porta a suonare persino nella lontana (per loro) Torino (un concerto veramente piacevole), e a prendere parte a progetti importanti, come la supervisione della rielaborazione dei brani di Bob Dylan per la colonna sonora del film I'm not there nel 2007, e la collaborazione con Vinicio Capossela per l'album Da solo, 2008.
Da bravi musicisti, danno il loro meglio nei live, ma con il maturare di una certa esperienza discografica, Burns e Convertino migliorano anche sotto l'aspetto dell'asciuttezza e della sintesi, ed i loro ultimo album: Carried to Dust, può a tutti gli effetti definirsi una raccolta di canzoni.
Il percorso di Gelb è stato diverso, e forse più sfortunato. Invece di usare la musica tradizionale come trampolino di lancio, l'ha usata come base, sulla quale giocare, inventare, compiere variazioni sul tema. Nel 2008, mentre i Calexico si destreggiavano fra mille impegni, ha partorito un disco passato praticamente inosservato, ma che al suo interno protegge un distillato di purissima arte.
*proVisions* (va scritto così) rispecchia il suo credo di commistioni e ambiguità: "non mi piacciono le strutture fisse" fin dal titolo, che è appunto un gioco fra -provviste -visioni e -previsioni. È un mucchio di parole e musica senza struttura e definizioni, che crescono e cambiano nello spazio e nella mente. Note sussurrate o buttate grezzamente sul pentagramma, frammenti sonori che giungono da molto lontano, anche nel tempo. Musica d'atmosfera dico io, di accompagnamento, che si insinua nelle orecchie senza essere ricercata. Difficilmente ci si ritrova a canticchiare questi brani sotto la doccia, o li si inneggia ai concerti, è più facile che si chiudano gli occhi e si viaggi durante l'ascolto. È come un'ipnosi, una psichedelia diversa da quella degli anni '60, nata nel deserto degli anni duemila. Non sono canzoni da orchestrina, spesso (nei momenti migliori) in scena va solo lo struggente arpeggio di chitarra di Gelb, che è un raffinato musicista, uno di quelli che parlano anche pizzicando le corde. Ogni tanto, oltre alla sua voce spettrale, fa capolino quella dolce e vellutata di Isobel Campbell, per un contrasto che risulta assai familiare. Gelb infatti ha sempre avuto il pallino del controcanto femminile, fin da quando nel gruppo militava Paula Jean Brown, che all'epoca (1986) era sua moglie, suonava il basso e cantava con lui. Anche lei partita, anche lei scesa da una nave che non affonda, ma che forse veleggia troppo lentamente. E alla fine, spogliato da tutte queste fughe in ogni direzione, è rimasto soltanto un ombroso e solitario gigante della sabbia... e dal remoto passato arriviamo al presente.
Blurry Blue Mountain, uscito al termine di questo 2010 ormai morente, è un disco simile, ci troviamo nello stesso paesaggio sonoro, nella stessa indefinita nebbia (o meglio tempesta di sabbia), ma è forse un po' più scarico. Qui non ci sono le rare e preziose gemme che imperlavano traccia dopo traccia il precedente: Stranded Pearl, Without a word, Out There, Spiral, e la cover di Desperate Kingdom of Love di PJ Harvey, molto migliore di quella originale.
-Alt! Ascoltatele davvero... cliccate e chiudete gli occhi, e abbandonatevi senza remore a questi territori di storie selvagge e poesie polverose-


Fatto? Ok... andiamo avanti.
Come dicevo questo è un disco meno ispirato del precedente, con un livello medio leggermente più basso, ma non mancano certo le scintille. A dare il benvenuto ci sono i sogni infranti di Fields of Green ("They've been killing off all my heroes since I was 17"), forse il pezzo migliore, posto all'inizio come la Stranded Pearl di cui sopra... Al secondo posto Chunk of Coal, in cui Gelb posa la chitarra per suonare il pianoforte, come parecchie altre volte farà in queste 14 (generose) canzoni, per un insieme che risulta infatti ancora più variegato del solito, spaziando fra ballate sconsolate alla Tom Waits (Love a LoserNo Tellin', Erosion), rockabilly malvagi e/o scatenati alla Nick Cave (Better Man Than Me, Brand New Swamp Thing, Thin Line Man), lunghe cavalcate (Monk's Mountain) e inni western (Ride The Railche sembrano usciti da un film del fratello cattivo di John Ford, addirittura una triste falsa partenza con violino che si evolve in un pezzo allegro e leggero (The Last One), e brani da saloon fumoso dove i falliti vanno a bere e giocare a carte (Lucky Star Love). Anche qui compare una dolce voce femminile a fare da contrasto a quella graffiante come carta vetro di Gelb, Lonna Kelley, giovane country-girl al cospetto del coyote dei deserti.
Come ha detto il solito Riccardo Bertoncelli, che sa sempre esprimere il senso di una musica con rare parole: "Così incerta, vaga, lunatica, la musica dei Giant Sand fatica a definirsi come ‘rock'. Il rock è omeopatico, prende il ritmo vitale della nostra epoca e lo sottolinea, lo esalta, lo asseconda per la sua violenta terapia. I suoni in erosione di Howie Gelb sono allopatici, lavorano per contrasto. La pulsazione è rallentata, la vita corre come dietro a uno schermo, più lenta, incerta.
Howie Gelb ha un fuoco che lo inquieta dentro, sempre smanioso per cose da fare, da dire, da progettare, anche se poi i dischi ogni tanto gli vengono così, incerti e sul punto di disfarsi, come inventati sul momento. Le due cose sono paradossalmente collegate; sono così intensi i carichi di lavoro che lui e i musicisti crollano letteralmente dal sonno alla fine della giornata e, quando si svegliano, faticano a uscire da quello stato di stordita incoscienza che tutti conosciamo. Quest'album sfrutta quel magico stato, lo esalta, cerca di trasformarlo in musica. Quel luogo tra il sonno e la veglia, quello stretto scorcio di esistenza dove c'è tutto un mondo che la maggior parte di noi supera in fretta. Questo disco ha le sue ferme radici lì."
E come ha detto lo stesso Gelb: "Giant Sand è uno stato d'animo"
Se si sta in silenzio e si fa veramente attenzione, si riesce anche a sentirlo, ed entrarci è un'esperienza.


Per ultimo vi lascio questa canzone, questo tappeto di note sgraziate, steccate, con il respiro presente del musicista, in un'armonia zoppicante ma struggente come il tema che tratta. Come il tempo che vola, senza dolore però, accettandolo con un triste sorriso, ascoltandola camminando con la sola compagnia di un ombrello, in una piovosa serata di fine dicembre.





Buon Anno

2 commenti:

  1. Sembra arrivato il tempo di fare una tappa in qualche discoteca, non perchè Natale eh? Cioè volendo si, ma non necessariamente per quello, poi se uno vule far combaciare le cose è affar suo, anche chi fa diversamente comunque...huff, per discoteca intendo comunque negozi dove si vendono dischi, non culi, poi dipende dalle sistuazioni, non per dire che si debba necessariamente... quel che voglio dire è.... insomma....... bel disco.

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  2. Prima un salto in disco, e poi in culoteca, così siam tutti contenti, via

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