sabato 29 settembre 2012

È stato il figlio

Viene da porsi tante domande al termine della visione dell'opera prima di Daniele Ciprì in solitaria. In testa, e ancora precedente alla visione della pellicola, c'è certamente il "perché?". Perché non è stato firmato in coppia con Franco Maresco, per esempio. Pare che i due abbiano litigato, ma non è questo il punto. La vera domanda è perché Ciprì si sia staccato (momentaneamente?) da quello che ha sempre fatto, per dedicarsi ad una cosa come il cinema di finzione commerciale. Al di là di motivazioni che possono essere "universali" per ogni artista, come la pura e semplice necessità di fare; la cosa curiosa è il suo apparente cambio di rotta. Del resto non è comune che un autore salti improvvisamente da un'area all'altra, scavalcandone i netti confini. Ci sono poi le spinose questioni di stile e poetica da considerare, ma si può tranquillamente affermare che dopo la visione del film tutto si renda chiaramente spiegabile.
Diverso e più annoso da dissipare è il grosso punto di domanda che aleggia sulla trama stessa dell'opera,  derivata dal romanzo omonimo dello scrittore palermitano Roberto Alajmo edito nel 2005. La materia narrata è infatti la componente più oscura e difficilmente accessibile di tutta la questione. In sintesi: nella Palermo degli anni '60 (ricreata a Brindisi) una famiglia subisce il grave lutto dell'uccisione della figlia piccola, Serenella, in un regolamento di conti criminale finito male. Superata, se non agilmente, con celerità, la momentanea disperazione, la famiglia, guidata dal padre Nicola, si avventura nel regno burocratico dell'ottenimento di un risarcimento da parte dello Stato. Quando finalmente i soldi arriveranno, Nicola spingerà affinché vengano spesi per il suo segreto desiderio di benessere e affermazione sociale.
Ora, circondato da tutte quelle domande di cui dicevamo, e dalla pioggia di stimoli di riflessione che il film propone, io voglio dare la mia seguente interpretazione del tutto.
L'epifania inizia con un'immagine di Daniele Ciprì che entra in contatto con il romanzo originario, lo legge, lo chiude, e sente improvvisamente come di aver trovato una chiave segreta e preziosa. Come quando si sta cercando di dire qualcosa, e qualcuno con cui parliamo riesce a farlo nel modo perfetto ed esatto che stavamo pensando. In altre parole, Ciprì deve aver visto nel libro di Alajmo la via al Cinema di finzione di tutti quei territori che con il compare Maresco aveva esplorato in passato, con cose come Grazie Lia - Breve inchiesta su Santa Rosalia.
Difatti, in È stato il figlio, ad essere irresistibile è proprio la messa in scena di uno spaccato di vita popolare genuino e autentico, e c'è da immaginare che il regista siciliano non aspettasse altro che una storia in grado di raccontarle nella stessa efficace maniera dei suoi prodotti di non fiction. Per gran parte del film, la mano sapiente di Ciprì inscena una sorta di Cinico TV cinematografico: un territorio desolato e desolante di miseria anche (e inconsapevolmente) umana. Toni Servillo e gli altri splendidi membri del cast impersonano le maschere grottesche che da sempre Ciprì e Maresco amano osservare, scrutare, nei loro pigri e scombinati movimenti.
A ben guardare, la molla della storia non è l'uccisione della piccola Serenella, né tantomeno l'acquisto dell'oggetto dei sogni. La spassosa frequentazione fra personaggi e spettatori nasce ben prima. Le infauste conseguenze non nascono dalle azioni, ma dal carattere e dalla natura dei personaggi stessi, quasi fossero predestinati ad un finale amaro dalla nascita. Per questo, più della coesione della trama e del ritmo della narrazione, ad essere importante è la messa in scena di comportamenti, attitudini e situazioni (gli usurai, il prete avido, la commessa del cinema, gli stessi membri della famiglia). Il mondo è (ancora) un  grottesco freak show da (continuare a) guardare con cinismo estremo, almeno fino a tre quarti di film.
Poi Ciprì prende una pausa colma di umanità e sofferenza, per lasciare più distanza da quella zona in cui si può ridere. Quando ritorna ai suoi personaggi lo fa con tutt'altro tono e solennità: la scena finale è carica di una tensione emotiva sbalorditiva. La magnifica prova degli attori si colora di una radicale tonalità drammatica, così come la musica. Ciprì sembra non poter e non voler più scherzare, mettendo in scena non più un generico e grottesco affresco sociale, ma la vera e propria decadenza morale dell'uomo. L'ultima immagine è una poesia dedicata a chi tutto questo non riesce a capire o dimenticare, perché in fondo troppo ingenuo o troppo buono, o spinto da più alti sentimenti. E a quel punto, giustamente, non c'è più niente da ridere.