domenica 22 maggio 2011

Helplessness Blues

Adesso sono più vecchio
di mia madre e mio padre
quando ebbero loro figlia,
che cosa dice questo di me.

Così cantano i Fleet Foxes in Montezuma, prima canzone del loro nuovo Helplessness Blues, il blues dell'impotenza. Una partenza quieta, tutto sommato dolce, che dentro di sé porta le sonorità del precedente album del 2008, debutto formidabile salutato da tutti come un capolavoro. Canzone che continuando su quella linea contiene nel DNA la caratteristica più interessante e singolare del gruppo, i cambi di ritmo. Le volpi agili amano mettere al mondo creature magmatiche, in evoluzione, crescita, sviluppo, o destinate ad implodere. E così Montezuma si concede una fine spirituale, abbandonando gli arrangiamenti folk per inseguire il flusso delle parole, per trovare la giusta dimensione di sé stessa. Sono tutte così le canzoni di questo disco, irrequiete, in viaggio fra le note, alla ricerca del giusto senso, perché non è detto che quello corretto sia l'iniziale, oppure il finale.
Diventa evidente questa ricerca nelle due tracce che ospitano quattro brani: The Plains/Bitter Dancer e The Shrine/An Argument, capolavori di sapiente combinazione cromatica e ritmica. I colori ecco, sembra di vederli, caldi, autunnali fuori stagione, la stessa gamma che domina la copertina illustrata da Toby Liebowitz e Christopher Anderson, artisti della Seattle natia del leader Robin Pecknold. Una sofisticatezza compositiva che risplende in Bedouin Dress, Sim Sala Bim, e nel bellissimo singolo Grown Ocean.


Ci sono anche altre tonalità, dalle più movimentate Battery Kinzie e Lorelai, alle più sottili Someone You'd Admire e Blue Spotted Tail, sussurrate dalla magnifica voce di Pecknold, con arrangiamenti ridotti all'arpeggio chitarristico. Musica per nostalgici degli anni '70, dove gli sconfinati panorami di folk, pop, rock e psichedelia si confondevano. Del resto l'ispirazione di Bob Dylan aleggia come un fantasma in chiunque si approcci alla forma canzone, avendola lui, di fatto, esplorata in lungo e in largo. Ma c'è una differenza fra l'antico Bob e tutti quelli della sua era, e questi giovani. L'ha scovata e descritta perfettamente Riccardo Bertoncelli nel suo articolo di Linus di questo mese, di cui qui trovate un estratto. Nel suo discorso il grande critico si chiede a chi appartenga questa musica, dove si collochi, e quando. Non è vissuta, è studiata, imitata, ricreata artificialmente in provetta. È musica sintetica che rifà musica analogica. Frutto di una generazione che ama troppo quei vecchi tempi, che cerca di riportarli in vita dopo accanito studio,e così facendo perde quell'elemento di immediatezza tipico del rock. Una bellissima riflessione, ancora una volta.
Ma per chi un disco gradisce viverlo con semplicità, prendendo ciò che ha da offrire senza scavare in profondità, questo disco è più che consigliato. C'è un pubblico per questa musica colta e sofisticata che non riesce a fingersi altro, c'è un pubblico alla ricerca di suoni efficaci e preziosi, e testi su cui soffermarsi. Oggi che l'originalità è merce rara, ci si può accontentare di questa elevata qualità che sgorga da ogni traccia. Quando un gruppo trova ancora il coraggio di inserire un brano strumentale come The Cascades merita tutto il rispetto e tutta l'attenzione che gli si può dare. Peccato solo che una meraviglia come Hellplessness Blues sia stato rilasciato in anticipo come singolo. Brani come questo dovrebbero essere nascosti fra le altre tracce, dovrebbe essere lasciato all'ascoltatore il piacere di trovarli, spolverarli e innamorarsi.
Qui un bellissimo fan video del regista Fred Paull.



Sono cresciuto credendo di essere in qualche modo unico
come un fiocco di neve distinto fra fiocchi di neve unici in qualsiasi modo li si possa vedere
e ora dopo aver riflettuto direi che preferirei essere
un ingranaggio in funzione in qualche grande macchina che serva qualcosa al di là di me

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