sabato 21 maggio 2011

The Tree of Life

Lunghe attese, anni silenziosi. Terrence Malick si eclissa dal mondo e vive nell'ombra gettata dal suo nome in controluce. Emerge a distanza di anni per depositare un'opera, in punta di piedi, poi torna indietro. Passa la vita osservando la vita, scrutando gli elementi della natura, i colori, i movimenti, ascoltandone il suono e saggiandone gusti e profumi. Investe ogni cosa di un'anima, un senso, una particolare luce. Riprende le carezze del vento, i pellegrinaggi delle nuvole maestose, la pazienza infinita dell'erba. Abita l'infinito facendosi piccolo e umile, meravigliandosi ad ogni fenomeno. Rappresenta le passioni degli uomini, trascinanti, selvagge, primordiali, stupide ma mai inutili, sempre, sempre importanti.
Tree of life si costruisce ancora di scenari e voci fuori campo, si permea di filosofia, assolutismo, e in fin dei conti, elementare didascalismo. È Malick, è proprio lui, non ha perso il tocco negli anni. Ma è pure nuovo, riesce ad essere anche oltre.
Lancia Emmanuel Lubezki nella creazione della più splendida fotografia degli ultimi anni, alla ricerca di immagini potentissime, indimenticabili. Si potrebbe dire perfetta, se non fosse che Malick rifugge la perfezione quasi quanto la semplicità. Ed è così che nelle scene del passato abbiamo un'atmosfera moderna, una grana da Hollywood anni duemila, mentre nelle sequenze ambientate oggi, c'è un'invenzione, una fotografia futuristica. Proprio nei momenti in cui uno smarrito Sean Penn si muove davanti la cinepresa è presente l'innovazione nello stile di Malick, freddo, asettico, disturbante come non è mai stato. In trasferta dalla sua amata natura, il regista texano riprende i palazzi, le vie, le case geometriche e i grattacieli, tentando di specchiare almeno nelle immense distese di vetrate, un brandello di cielo. Scompaiono anche piani sequenza, campi sospirosi, quadri affrescati. Tree of Life è in perenne movimento, in ansia, in agitazione compulsiva. Steadycam in corsa, ascese o discese verticali, un montaggio serratissimo, febbrile, caotico. Un montaggio delle attrazioni, frutto di cinque diversi professionisti. 138 minuti in ipnotico movimento, tanto che il film lentamente scompare e si apre dinanzi a noi un'esperienza sensoriale.
Una storia in cui passato e futuro si (con)fondono, in cui viene passata in rassegna tutta la gamma di emozioni che un essere vivente può provare, dalla compassione in una specie primitiva, alla paura, al disagio, all'amore incerto e innocente. Il senso di colpa, la difficile ragnatela dei rapporti familiari, fino all'odio, l'incomprensione, che domina gran parte (troppa) della pellicola. Elementi forse biografici che emergono dalla misteriosa vita di Malick, che ha girato a Waco, città dov'è nato, forse non a caso.

Sean Penn e Brad Pitt come tutti gli attori nelle sue mani diventano fantocci e maschere, veicoli d'informazioni, fra un deserto, una cascata, un campo di girasoli. Splendida Jessica Chastain, che incarna la donna-angelo contesa di ogni film malickiano. A tenere lo schermo sono però i più giovani membri del cast, con i loro occhi e i loro corpi agili. La forza selvaggia della giovane età emerge in una straordinaria sequenza su cui scorrono le note della Moldava di Smetana. Ma è indimenticabile soprattutto un altro frammento del film, quello in cui Malick si stacca dal microscopio e comincia a narrare la storia del nostro pianeta. Puro cinema che prende a espandersi, modellarsi, come la nebbia di molecole che ha dato vita a tutto. Una scena in cui scatta quasi automatico il rimando a 2011 Odissea Nello Spazio (senza dimenticare che ci ha lavorato Douglas Trumbull), anche se si tratta di un capolavoro ancora oggi, nonostante tutto, insuperato. Al contrario della perfezione Kubrickiana, del suo sguardo analitico e scientifico, Malick si interessa all'aspetto prettamente estetico e comunicativo delle inquadrature, facendo, come da sempre prova, della poesia. Poesia per immagini, in un film disordinato, come tutti i suoi, costruito come un sogno. In cui però per la prima volta emerge qualcosa di nuovo e indefinito, che forse verrà compreso del tutto soltanto fra parecchi anni.
Per ora ciò che si ha l'impressione di osservare è un film enorme, inestimabile, su cui si potrebbe dire tantissimo, ma che rende invece ogni parola vana. Un capolavoro del bene. Una delle rare volte in cui non si sente la mancanza di Kubrick.

Nessun commento:

Posta un commento