lunedì 14 febbraio 2011

Universi paralleli

Non importa il paragone con Pranzo di Ferragosto, almeno nel senso del "più bello" "meno bello" (ma in fondo quando mai questo è un discorso utile). Gianni Di Gregorio ha delle cose da raccontare, e poco gli cale di raffinatezza o ricercatezza formale. Realizza un cinema popolare che (oh sì) ricorda quello dell'antica commedia del nostro paese, che erano soprattutto personaggi, poi storie, e infine regia. Con Alberto Sordi questo film sarebbe diventato un cult, invece c'è lui, molto meno sfacciato e vulcanico, molto più garbato. Gianni non riesce a farsi l'amante proprio per questa sua malattia, il garbo, che in questi tumultuosi anni è diventato tutt'altro che una buona prerogativa. Da brava persona, servizievole, disponibile, onesta, non può far altro che rimanere vittima di tutte le donne che cerca di avvicinare, persino di sua madre, tanto fragile quanto furba. Madri, mogli, figlie, amiche, vecchie fiamme, clienti, vicine di casa e badanti, sono tutte lì che girano e passano senza fermarsi, senza vederlo. Con un corpo invecchiato, imperfetto, da rimettere in sesto come un sorpassato motore, non c'è speranza. Nessuna, nemmeno nel dilapidare la pensione per ricavarne solo un mal di testa. La gioventù così vicina e così lontana fa parte di un altro mondo. Il tempo, la vecchiaia che avanza, e le giornate vuote di senso, sono gli unici elementi di questo. Si può sfuggire a tutto ciò? Se ne esce? No, ma ci si prova. Forse non è un caso il barricarsi in casa, o che Gianni finisca sempre con un bicchiere in mano.
C'è un momento in cui viene celebrata la bellezza, l'essenza meravigliosa propria delle donne. Il guardarle, il godere della loro presenza, è un piacere che nemmeno da decrepiti e morenti smette di emozionare. Sentirne il profumo del resto, era il tema di un vecchio film meravigliosamente sdoppiato. Gianni cerca la passione fisica e sessuale, l'amore, un rapporto umano, o forse soltanto la loro attenzione, un sorriso. Magari tutto o niente. In fondo non ne fa una tragedia, da vero mostro si lascia vivere dalla vita e dalla società, perpetrando una quotidianità fatta delle solite cose. Ma questo vittimismo e questa condizione vengono portati con disinvoltura, con ironia, cosicché un pubblico (o un autore) non si spaventi per il peso delle cose mostrate. Ma non c'è niente da ridere, in quella malinconia. Detto in altro modo: commedia all'italiana.
Il finale verrà criticato, non capito, ma è stupendo. Dopo essere volato altrove da tutto questo, dopo la liberazione dalla sua condizione, dopo la felicità... Gianni ritorna negli schemi. E tutto ciò che gli rimane in testa, come ci rivela apertamente, sono dei prosaici e bellissimi sogni.



Rabbit Hole è l'elaborazione del lutto. Stop. Pura e semplice. È un film che non dissimula la sua origine teatrale, girando attorno a due attori, ai loro dialoghi, ai loro corpi. Ricorda un altro grande dramma familiare: Revolutionary Road, ma qui non c'è una crisi amorosa, c'è un dolore intimo, incancellabile, che piega intorno a sé le vite di chi lo porta dentro.
Come si reagisce a certe cose? Come si superano certi punti nelle nostre esistenze, che sembrano insormontabili?
Nessun film o nessuna opera potrà mai dircelo, ma John Cameron Mitchell prova a mostrarci una via di uscita, prova a dirci che c'è una strada. Si tratta di un percorso lungo e doloroso, un inferno che ci mette alla prova, e anche dopo tutta quella fatica, il risultato è che quel dolore è ancora lì. Però diverso, sopportabile, quasi confortante. Non è un percorso facile per una persona, tantomeno il narrarlo per un film. Ma una musica buona, una fotografia rigorosa, e una regia semplice si mettono pazientemente ad osservare quello che succede. L'acqua è piuttosto alta nel punto in cui siamo, e bisogna lottare, e lottare ancora per non affogare. E poi solo insieme ce la si può fare, solamente con l'amore. Sembra una banalità, ma tutte le banalità sono vere. Qualsiasi cosa va bene per aiutarsi, per uscirne, nessuna è sbagliata, nessuna è giusta. Lentamente si torna a vedere qualcosa che non sia tenebra, si muovono incerti passi in una zona battuta da raggi di sole, si supera l'ostacolo della propria paura. Ci si guarda attorno e si scopre di essere ancora vivi. Tutto il resto viene dopo, per il momento si respira, ci si ferma un attimo a non pensare, a non morire. Questo film è molto, molto rischioso, perché si propone di provare a raccontare la vita.


Guardandoli da vicino, Gianni e le donne e Rabbit Hole sono due pianeti diversi, per tematica, nazionalità, genere, stile e tutto il resto. Eppure visti da quaggiù, la sostanza di entrambi è la stessa struggente e malinconica riflessione sulla natura umana. Forse è che tutto gira sempre inevitabilmente attorno a quello, forse sono solo io che mi ripeto, o forse è proprio che esistono innumerevoli universi paralleli (cit).

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