domenica 27 febbraio 2011

127 ore

Aron Rolston è questo alpinista che durante una passeggiata solitaria nella zona dei Canyon, per un fortuito incidente, rimase intrappolato sotto una roccia per cinque giorni. La vicenda è abbastanza famosa, ma se a qualcuno non fosse noto il modo in cui si è liberato, non sarò certo io a svelarlo.
127 ore è intensissimo, ansioso, un thriller teso, cruento, nervoso. Una pellicola visionaria, un esperimento di cinema dinamico e frenetico realizzato su un soggetto immobile. Un film senza trama, tutto di regia, tutt'altro che invisibile, che diventa anzi principale protagonista. Le scelte visive e narrative sono spesso stranianti (nonché sadiche), ma vengono sostenute da un montaggio di uno straordinario impatto. Jon Harris ha fatto un lavoro veramente impressionante nel costruire queste sequenze agghiaccianti. Così come A. R. Rahman ha fatto con le sue musiche, che caricano o scaricano di forza le immagini, e che riescono ad entrare in contatto e fondersi con le altre canzoni pop selezionate.
Ma... un momento... in definitiva, questo film, di che cosa parla? È una storia di sopravvivenza?
No. Non avrebbe avuto senso.
Il fatto che il vero Aron Rolston oggi sia vivo e vegeto, e più attivo che mai, dovrebbe farci comprendere che non dobbiamo aspettarci nessun colpo di scena dalla visione. E allora come fa un thriller ad appassionarci se sappiamo esattamente come va a finire, o peggio, come fa quantomeno ad interessarci? Perché un regista dovrebbe fare un'operazione del genere?
È la domanda che mi sono posto anch'io, prima di vederlo, perché poi è stato tutto chiaro. La prendo un po' alla larga però.
Danny Boyle tempo fa aveva detto qualcosa del tipo che lui ci teneva a cambiare radicalmente film ogni volta, perché amava la sensazione di sentirsi sempre alla sua opera prima, di non essere mai esperto in ciò che fa, di sperimentare. Perciò è comprensibile il fatto che abbia sempre variato genere, non si sia mai messo a fare dei sequel, cambi spesso paese di produzione (Inghilterra-America-India) e non si sia mai portato dietro un suo attore feticcio (tranne che Ewan McGregor per i suoi primi tre film). In realtà, checché ne dica, all'interno del suo cinema sono ben presenti delle linee guida. Questo, com'è inevitabile, deriva in primo luogo dalla sua sensibilità di autore, e in secondo dal fatto che sia legato da particolari sodalizi artistici con gli sceneggiatori John Hodge, Alex Garland, e Simon Beaufoy. Quest'ultimo è quello che dopo aver costruito il successo di Peter Cattaneo (Full Monty) ha costruito anche il suo nel 2009, con The Millionaire. Film dal quale si è portato dietro anche il musicista indiano A. R. Rahman e uno dei due (!) direttori della fotografia: Anthony Dod Mantle, con il quale per la verità aveva già lavorato in passato. Ma non tergiversiamo, quali sono queste sue linee guida?
Innanzitutto il carattere maschile (ma non virile) delle vicende che sceglie di proporre. Danny Boyle racconta storie di ragazzi (talvolta di bambini) che vivono strane avventure. Sebbene i suoi film non siano certo etichettabili come action, lui è decisamente un regista d'azione. Ed è troppo grossolano per soffermarsi a lungo sulla componente emozionale, per trattare anche una cosa come il lutto con delicatezza. Ai sentimenti devono pensarci i suoi attori, lui preferisce piuttosto dedicarsi alla dimensione psichica. Che cosa accade nella mente di un ragazzo in quella particolare situazione, con quel determinato problema, nell'arco di qualcosa come un gioco a premi? E le donne? Le donne sono sogni, angeli, fantasmi che si materializzano nei momenti di difficoltà. Sono ciò per cui l'uomo vive.
Ciò per cui vivere. È di questo che parla 127 ore, e non è assolutamente una cosa scontata. Quella di Aron è stata una convivenza forzata con sé stesso per più tempo di quanto a nessuno piaccia sopportare. Immobilizzato fra la vita e la morte, con un masso a fare da bilancia degli eventi, ha scavato con quel suo consumato coltellino nel suo cuore, fra le sue lacrime e i suoi sorrisi. Ha pesato il dolore, ha ricordato la gioia passata, si è preso la responsabilità dei suoi errori. E Danny Boyle ha invece sondato la sua mente, proiettato i suoi pensieri nella caverna che è stata la sua prigione, le sue paranoie nell'oscurità della fredda notte, i suoi sogni di liberazione, selvaggi e primordiali, nella natura impassibile tutt'intorno a lui. Una riflessione, ecco che cos'è avvenuta in quelle 127 ore. Una lotta contro il proprio corpo, il destino, l'universo. Per scendere a compromessi oppure arrendersi, soffrire oppure morire. Ostinarsi a non voler dire addio.
Aprendo e chiudendo con immagini di folla e aggregazione, e trasmettendo nella parte centrale un lungo e straziante racconto di solitudine, Danny Boyle ha fatto passare il suo messaggio di forza vitale (ovvio e preciso, è un suo limite, pazienza) in quello che è il suo miglior film. Il più concreto e profondo, il più sincero. L'anima di (un immenso) James Franco si strappa sotto i nostri occhi, sotto un masso che pesa come il mondo. Nelle immagini scorre quanto di più vicino possibile ad una vita, e l'evoluzione ed il passaggio riescono ad essere naturali, vere. La sentiamo tutti la scossa, il fremito, la voglia di ribellarsi e vivere ancora. Stringere i denti e aprire gli occhi alla luce, alla musica, a un sorriso.
Questo non è un film che parla di sopravvivenza, Aron era già morto prima del titolo. Questa è una storia che parla di resurrezione.

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