
127 ore è intensissimo, ansioso, un thriller teso, cruento, nervoso. Una pellicola visionaria, un esperimento di cinema dinamico e frenetico realizzato su un soggetto immobile. Un film senza trama, tutto di regia, tutt'altro che invisibile, che diventa anzi principale protagonista. Le scelte visive e narrative sono spesso stranianti (nonché sadiche), ma vengono sostenute da un montaggio di uno straordinario impatto. Jon Harris ha fatto un lavoro veramente impressionante nel costruire queste sequenze agghiaccianti. Così come A. R. Rahman ha fatto con le sue musiche, che caricano o scaricano di forza le immagini, e che riescono ad entrare in contatto e fondersi con le altre canzoni pop selezionate.
Ma... un momento... in definitiva, questo film, di che cosa parla? È una storia di sopravvivenza?
No. Non avrebbe avuto senso.
Il fatto che il vero Aron Rolston oggi sia vivo e vegeto, e più attivo che mai, dovrebbe farci comprendere che non dobbiamo aspettarci nessun colpo di scena dalla visione. E allora come fa un thriller ad appassionarci se sappiamo esattamente come va a finire, o peggio, come fa quantomeno ad interessarci? Perché un regista dovrebbe fare un'operazione del genere?
È la domanda che mi sono posto anch'io, prima di vederlo, perché poi è stato tutto chiaro. La prendo un po' alla larga però.


Ciò per cui vivere. È di questo che parla 127 ore, e non è assolutamente una cosa scontata. Quella di Aron è stata una convivenza forzata con sé stesso per più tempo di quanto a nessuno piaccia sopportare. Immobilizzato fra la vita e la morte, con un masso a fare da bilancia degli eventi, ha scavato con quel suo consumato coltellino nel suo cuore, fra le sue lacrime e i suoi sorrisi. Ha pesato il dolore, ha ricordato la gioia passata, si è preso la responsabilità dei suoi errori. E Danny Boyle ha invece sondato la sua mente, proiettato i suoi pensieri nella caverna che è stata la sua prigione, le sue paranoie nell'oscurità della fredda notte, i suoi sogni di liberazione, selvaggi e primordiali, nella natura impassibile tutt'intorno a lui. Una riflessione, ecco che cos'è avvenuta in quelle 127 ore. Una lotta contro il proprio corpo, il destino, l'universo. Per scendere a compromessi oppure arrendersi, soffrire oppure morire. Ostinarsi a non voler dire addio.
Aprendo e chiudendo con immagini di folla e aggregazione, e trasmettendo nella parte centrale un lungo e straziante racconto di solitudine, Danny Boyle ha fatto passare il suo messaggio di forza vitale (ovvio e preciso, è un suo limite, pazienza) in quello che è il suo miglior film. Il più concreto e profondo, il più sincero. L'anima di (un immenso) James Franco si strappa sotto i nostri occhi, sotto un masso che pesa come il mondo. Nelle immagini scorre quanto di più vicino possibile ad una vita, e l'evoluzione ed il passaggio riescono ad essere naturali, vere. La sentiamo tutti la scossa, il fremito, la voglia di ribellarsi e vivere ancora. Stringere i denti e aprire gli occhi alla luce, alla musica, a un sorriso.
Questo non è un film che parla di sopravvivenza, Aron era già morto prima del titolo. Questa è una storia che parla di resurrezione.
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