sabato 17 settembre 2011

The Whole Love

Con TUTTO L'AMORE che sempre proverò per i Counting Crows, se fosse dipeso da loro e dalla loro lentezza compositiva, la mia fame di quella sorta di territorio di confine scoperto da Bob Dylan e addomesticato da Bruce Springsteen, non troverebbe sazietà dal lontano 2008, anno del loro ultimo Saturday Night e Sunday Morning. Perciò, se ho voluto ascoltare della musica originale, ho dovuto elargire un po' di tutta quella passione ai Wilco.
Loro, la band di Chicago, TUTTO IL LORO AMORE in questo momento lo stanno provando per la loro nuova etichetta (dBpm), nata dalla scelta di mettersi in proprio. C'era da aspettarselo, negli anni hanno salutato i sicuri confini dell'alt country ereditati dagli Uncle Tupelo, per lanciarsi nelle pieghe della musica moderna, talvolta navigando a vista, ma sempre con una grande immaginazione ed un genuino desiderio di scoperta. Troppo vulcanico Jeff Tweedy, troppo alieni loro a qualsiasi Major, troppo condizionati da TUTTO L'AMORE che provano per la musica.
E così in questo loro ottavo (ma primo) THE WHOLE LOVE, registrato fra le accoglienti mura del loro studio "The Loft" a Chicago, hanno prodotto un carico di 12 canzoni (risultato della scrematura di più di sessanta) che non si accontentato di scivolare sulle orecchie.
L'album è incorniciato da due brani lunghi che più diversi non si può, e come non se ne sentivano da tempo, nell'epoca dei tre minuti e via. The Art of Almost sembra il commento sonoro della splendida cover, ed è messo lì apposta per far infuriare i fan più intransigenti. Parte martellando fra strani rumori e disturbi di frequenza, sembra un pezzo dei Radiohead impreziosito però dalla drammatica voce di Tweedy, capace di trasformarlo in un pezzo struggente, prima che la coda strumentale sopraggiunga a spazzare via ogni cosa.


Divertente poi spostarsi al singolo I Might, in fibrillazione su di un'organetto sixties e un ritmo insistente, prima avvisaglia della sostanziale allegria che permea tutto l'album. Anche se, come piace a me, siamo nella politica del fare del brano più debole il singolo. Sulle stesse coordinate anche Dawned On Me, brano danzereccio dal ritmo trascinante, che di sicuro non proviene da questo secolo, portatore di un'energia rara. Sunloath è l'intermezzo di quiete che li separa e introduce alla seconda dimensione dei Wilco, quella delle meditazioni per voce più band del Tweedy ispirato. Ma al contrario di questo singolare esemplare, rientrano perfettamente nella categoria Black Moon e Rising Red Lung, giocate sul filo degli accordi, appena accennati, carezzati da una morbida e sinuosa chitarra steel.
Con Born Alone facciamo un salto negli anni '90, a degli ipotetici Wilco boy band, brufolosi geni incompresi rinchiusi a suonare nel garage di casa. Sventagliate di chitarra vanno a delineare forme e voci che danzano con le parole di Tweedy, attorno ai suoi testi, da sempre la vera struttura di ogni brano della band. Standing O è certamente il pezzo più scatenato del disco, lontanissimo anni luce da qualsiasi cosa di Woody Guthrie i ragazzi di Chicago abbiano mai suonato. Voce effettata, elettronica, campionamenti: gli attrezzi per tornare ancora una volta indietro di qualche decennio, in cerca di luoghi mai praticati. Open Mind invece ha l'onere più delicato agli occhi dei fan, abituati a godere di almeno una grande ballata rock in ogni lavoro dei Wilco. Il pezzo fa molto bene il suo dovere, con delicata profondità, assumendo la statura di memorabile nel non facile campionario di tristi storie narrate da Tweedy. È come se per tutto il resto del tempo avesse giocato, e qui avesse deciso di fare le cose seriamente. Una canzone dai toni crepuscolari, da chi sa farne, a chi vuole ancora ascoltarne.



Whole Love non ha la pretesa di durare come le due cornici del lavoro a cui dà il nome, ma è probabilmente il pezzo più elaborato e armonicamente complicato. Le note dialogano, saltano insieme, superano indenni cambi di ritmo e si stendono al di sotto dell'insolito falsetto di Tweedy. In soli 3 minuti e 49 secondi un piccolo e ispirato ritratto della delicatezza.
Poi si arriva alla fine, senza aver ancora capito se si preferisca il disco precedente del 2009, e ci si trova al cospetto di One Sunday Morning (Song For Jane Smiley's Boyfriend), titolo chilometrico per questi infiniti 12 minuti. Il labirinto nel quale siamo stati nelle precedenti undici tracce ci porta all'uscita, non era un sogno, non era qualcun altro. Erano proprio loro. Questa è una canzone che ha il marchio Wilco stampato a fuoco nella sua anima delicata di note e parole sussurrate. Quando una band trova un suo, proprio suono, eccolo emergere già dal primo accenno. Canzone di Dylaniana maniera, dove frasi e pensieri sciolti scivolano su un tappeto sonoro sempre uguale e sempre vario. Quei lunghi sogni che accompagnavano anche i Counting Crows nei verdi pascoli della musica senza schemi e doveri, fondata soltanto su trasparenti nuvole di pianoforti e chitarre.
Eccolo qui, TUTTO L'AMORE dei Wilco, che più palese non si può: l'amore per la libertà, di cui la musica  è strumento e interprete.

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