martedì 2 novembre 2010

Giungla Australiana

Oggi a mezzogiorno mi finiva una cosa, e alle sei a mezza (del pomeriggio) me ne iniziava un'altra. Così avevo (ehm... fate voi il conto) ore libere da occupare. Allora sono andato a leggere questo libro alla stazione (poiché luogo coperto), dove ho sentito fino allo sfinimento questa canzone, che partiva dopo ogni annuncio dei treni. Ad un certo punto mi sono stufato e sono andato al cinema, dove ho visto questo film. Due file più indietro, un paio di signori cinefili discutevano a proposito di Lattuada e del suo declino. Già temevo non avrebbero mai più smesso, quando invece si sono dimostrati esemplari, tacciandosi allo spegnimento delle luci.
Animal Kingdom parla di un ragazzo a cui muore la madre, in una sequenza francamente divertente, e che così riallaccia i rapporti con la nonna. Costei è una donna ambigua e misteriosa, che ha tirato su una famiglia di criminali. J, il ragazzo, si ritrova così a convivere con le abitudini malavitose dei suoi tre zii più uno, Pope, il più pericoloso e psicotico. Lentamente scivolerà all'interno della loro faida con la polizia, e nel gorgo infernale finirà anche la sua innocente fidanzata Nicole, e la sua famiglia "normale".
Da quando persino Scorsese si è stufato di parlare di italoamericani, il cinema si è diretto su altri tipi di malviventi: i russi a Londra di Cronenberg, gli irlandesi a Boston dello stesso Scorsese (e del recente Ben Affleck), ed ora gli australiani a Melbourne. La sostanza però non cambia, droga, infiltrati, avvocati del diavolo (palestrati!) e poliziotti, corrotti e non. Qui a fare lo sbirro c'è Guy Pearce (con tanto di baffi) che fa un monologo abbastanza becero, e che in più scene vediamo in veste di amorevole padre e marito, come a rassicurarci che sta dalla parte del bene, non ha ombre, ci possiamo fidare. Tutti gli altri personaggi, compreso il protagonista, si portano invece dietro una patina di ambiguità morale, un lato nascosto che non affiora, ma si intravede.
Il film forse ha la pretesa di far riflettere sulla violenza nel mondo di oggi, come sottolinea l'ultima frase del film, prima del colpo di scena finale, ma è difficile potersi immedesimare in una storia del genere, proprio per la sua particolarità. David Michôd è un esordiente, scrive e dirige, e fa bene entrambe le cose. Realizza una crime story robusta e compatta, e ha dei tocchi di regia che riescono ad avvolgere lo spettatore in attimi lunghissimi e inquietanti. Ma tutto sommato, soffiato via il fumo, non è niente di più di un buon film di genere degli anni duemila, con tutti gli elementi del caso. Nemmeno troppo distante da un film americano. Sentiremo ancora parlare di questo regista e di questi attori, perché c'è un ampio margine di crescita. Buono, bello, corretto, pollice su. Mi ha egregiamente riempito un paio di ore, e questo è buono e giusto.





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