lunedì 23 giugno 2014

Io non sono qui: una lettura - 1° parte

Il quarto film di Todd Haynes non è materia facile fin dal titolo, che infatti in Italia è stato tradotto con uno strampalato ma interessante scarto di senso. In originale è I'm not there (Io non sono lì), e riprende un traditional americano che Bob Dylan e The Band incisero durante le famose session per The Basement Tapes nel 1967, e che, insieme a molte altre grandi canzoni, non venne poi inserita nell'album definitivo, rimanendo sepolta per anni fino alla pubblicazione del prezioso bootleg The Genuine Basement Tapes. In italiano è diventato Io non sono qui, ed è strano, sì, ma non più di tanto fastidioso, perché in qualche modo il senso, nei riguardi del film, si conserva.
Dylan non è presente come persona, ma in quanto mito. È come se lo stesso Haynes ammettesse che il fenomeno Dylan, di cui il film vorrebbe essere una sorta di poetica biografia, è impossibile da imbrigliare anche in un'opera come la sua. È impossibile analizzarlo o decostruirlo o anche solo comprenderlo fino in fondo. Dylan non è qui/lì. Haynes non sfiora quindi nemmeno il tentativo di spiegarlo, evitando di mettere in campo un personaggio con il suo nome, ma si adopera per raccontarlo nel modo più esaustivo possibile, stendendo una schiera di alter ego dai nomi-significati che, insieme a tutto il resto delle finissime citazioni sparse nei dialoghi o anche solo negli elementi di scenografia, contribuiscono ad alzare l'asticella della difficoltà di comprensione profonda della pellicola, che può anche diventare una divertente caccia al riferimento per i dylaniani più incalliti.



In effetti, per godere al meglio della visione senza rimanerne del tutto sballottati, bisognerebbe aver fatto qualche compito a casa. Aver collezionato la gran parte dei dischi del musicista sarebbe l'ideale (già solo per farsi del bene), ma anche averne ascoltato uno per decennio della sua lunga carriera aiuterebbe a comprendere come ad Haynes sia venuta in mente una storia del genere. Dylan si è costantemente evoluto o involuto, cambiando radicalmente faccia anche da un disco all'altro. Ha veramente vissuto numerose vite (artistiche), ed il film è particolarmente abile nel renderne l'intensità e la diversità. Nonostante però abbia il merito di dipanarsi anche nella gioventù e nella vecchiaia dell'artista, pure il suo centro d'interesse continua ad essere lo stesso dell'imprenscindibile documentario del 2005 No Direction Home: Bob Dylan. Il film di Scorsese si concentrava sul periodo che va dal 1959 al 1966 della vita dell'artista, tracciando uno splendido ritratto di quei frenetici e mutevoli anni. Tutto ciò che è venuto prima o dopo la sua rivoluzione musicale ne è sempre in qualche modo legato, anche secondo Haynes.
Il film si apre sul backstage di un palco, una camminata che porta al sipario, come a rappresentare una sorta di nascita del performer, sul palco da più di 50 anni. Subito dopo avviene un primo richiamo alla successiva scena dell'incidente motociclistico, evento che rappresenta invece quasi una morte artistica del personaggio. Il primo vero e marcato stop della sua carriera.
Abbiamo poi l'iniziale incontro con il primo alter ego di Dylan, rappresentato dal giovane Woody. Il ragazzino fuoriesce da un tipico paesaggio americano, un grande prato adagiato lungo una ferrovia, come se fosse un'emanazione di quella terra. Ed in effetti è proprio ciò che è: dice di chiamarsi Woody in onore di Woody Guthrie, il mito dell'infanzia di Dylan, il cantante folk della protesta sociale per eccellenza, però è di colore, perché in quel periodo della sua vita Dylan era culturalmente più nero che bianco. Ascoltava continuamente il blues e il rock alla radio, assecondando il suo amore per la musica americana e alimentando il suo desiderio di entrare a farne parte. I suoi miti sono, appunto, Guthrie, ma anche Elvis (idolo assoluto del vero Dylan), il musicista che ce l'ha fatta, che si è emancipato dalle strade e ha raggiunto i pachi.
Il piccolo Woody è un viaggiatore avventuroso, un sognatore, un bugiardo giramondo che comincia già a cambiarsi di nome e ad alimentare leggende sul suo conto e le sue origini (dice di venire dall'impossibile città di Enigma), sembra abbia vissuto molto più di quanto i suoi anni dimostrino, tanto che in un circo viene scambiato per un nano piuttosto che per un bambino. Suona alla pari con i neri (nel film l'attore Marcus Carl Franklin duetta con il grande Richie Havens sulle note di una Tombstone Blues spogliata di elettricità e suonata anacronisticamente come un vecchio blues) ma viene ridotto a fenomeno da baraccone dai bianchi, che lo esibiscono incravattato in salotto per l'apprezzamento borghese degli amici in visita. Il fatto che risuonino le parole di When the ship comes in, brano fra i più duri e apocalittici del repertorio dylaniano, non sembra scuotere più di tanto i distratti osservatori. Ma il suo modesto e reale passato viene a cercarlo nel regno di fantasia che si è creato, Woody fugge, e come sottofondo al suo peregrinare Haynes sceglie di farci ascoltare Blind Willie McTell, uno dei capolavori assoluti di Dylan, destinato a finire su Infidels (1983) e poi inspiegabilmente scartato, in cui è tra l'altro presente la chitarra di Mark Knofpler, attivo in tutte le canzoni dell'album. Blind Willie McTell, l'uomo, il bluesman, è un'altro degli idoli dichiarati del giovane Woody, che va finalmente a trovare il vecchio Guthrie sul capezzale di morte, un'azione realmente compiuta dal vero Dylan (che scrisse anche una Song to Woody). Mentre Guthrie muore, il suo piccolo omonimo piange amaramente, come se si trattasse di suo padre.



Tutto, qui, sta a sottolineare come il Dylan delle origini fosse completamente rapito dalla musica e dalle persone che aveva intorno, non solo nel periodo dell'infanzia, ma anche negli anni di gioventù al Greenwich Village, dove conobbe figure carismatiche come Dave Van Ronk. Woody vive un'epoca mentale che non gli appartiene, ma a spazzare le nubi dalla sua via, nel film, è un illuminante dialogo con una massaia di colore, che lo invita a smettere di cantare le vecchie canzoni e interessandosi ai problemi del secolo precedente. "Vivi il tuo tempo, canta il tuo tempo" gli dice. Se fosse un album, questo personaggio sarebbe il primo, incerto e poco originale: Bob Dylan del marzo 1962.

Cantare il proprio tempo è quello che fa il Jack Rollins interpretato da Christian Bale. Questo personaggio è in realtà il Dylan a cui la maggior parte delle persone è rimasta ferma: il menestrello delle canzoni politicamente impegnate, quello di The Freewhelin' Bob Dylan, The times they are a-changin' e Another side of Bob Dylan del biennio magico 1963-1964. È l'evoluzione del tipico folksinger del Greenwich Village: non canta più traditionals, ma applica una forma classica a canzoni moderne, graffianti sul mondo, con testi ermetici e simbolisti. Canzoni d'impegno anche nella semplice fruizione. Nel film lo vediamo suonare in una campagna, in mezzo a contadini di colore, la triste The lonesome death of Hattie Carrol, un'invettiva contro il razzismo nata da un articolo di cronaca.


                      Bob Dylan - The Lonesome Death Of Hattie Carroll di vicky7xthomas

Per il suo film, Haynes sceglie di cambiare stile visivo e narrativo ogni volta che muta il suo protagonista, anche in funzione del periodo storico-culturale e dell'umore complessivo della materia narrata, chiedendo un concreto sforzo all'abile direttore della fotografia Edward Lachman. Per il piccolo Woody lo stile cinematografico era sostanzialmente moderno e istituzionale, mentre trasforma la parte di Jack Rollins in un mockumentary, limitando le sue apparizioni a finti filmati di repertorio per lasciare che a parlare siano tutta una serie di comprimari intervistati, conferendo a quella simbolica figura di profeta ancora più risalto.
Fra questi spiccano un fantomatico T-Bone, probabile riferimento a T-Bone Burnett (che suonò con Dylan durante la Rolling Thunder Revue, nonché appartenente ai "born again christian"), e l'Alice Fabian interpretata da Julianne Moore, che non si fa molta fatica ad associare a Joan Baez, la grande cantante folk che fu collaboratrice e amica (e qualcosa di più) del Dylan menestrello di New York, e che a differenza sua non smise mai di fare musica politicamente impegnata.
Jack Rollins vive la fase di successo di pubblico e critica che investì Dylan in modo massiccio, e a cui lui era impreparato. Soprattutto, lo destabilizzò e spaventò il venire frainteso, l'essere considerato una guida spirituale/sociale invece di un semplice musicista. La reazione a tutto questo da parte del personaggio di Bale differisce dal mondo reale a quello della pellicola. Nella sofisticata sceneggiatura dello stesso Haynes e dello sceneggiatore israeliano Oren Moverman [recentemente passato alla regia con due film piuttosto apprezzati: The Messenger (2009) e Rampart (2011)], il mockumentary sulla vita di Jack Rollins prosegue mostrandolo diventare il Pastore John. Il riferimento è al periodo che va dal 1979 al 1981, quando Dylan si convertì al credo dei born again christian, sfornando una trilogia di dischi impregnati di fervore religioso: Slow train coming, Saved e Shot of love. Nonostante la singolarità di una scelta di vita così repentina (ma dal fiato corto: nel 1983 esce Infidels, il cui titolo è abbastanza eloquente), la musica contenuta in quegli album, caratterizzata da cori e accenti da black music, si situa nella fascia alta della produzione dylaniana. La trascinante versione di Pressing On (eseguita in realtà da John Doe) che il pastore John canta in chiesa, arriva dopo un convinto monologo da predicatore in cui vengono pronunciate parole importanti che sono soprattuto il titolo di un'altra famosa canzone: We Shall Overcome.


Saltuariamente, nel corso del film fa capolino la figura di Arthur Rimbaud, interpretato da un fosco e misterioso Ben Whishaw, che interrogato da una commissione d'inchiesta risponde a ogni accusa citando scritti e interviste di Dylan. Questo segmento è il meno narrativo, appare e scompare all'interno punteggiando alcuni momenti tramite "dichiarazioni" in macchina di Rimbaud, che chiunque abbia letto Chronicles vol. 1 sa bene essere una forte influenza per Dylan.


[...] someplace along the line Suze had also introduced me to the poetry of French Symbolist poet Arthur Rimbaud. That was a big deal, too. I came across one of his letters called “Je est un autre”, which translates into “I is someone else”. When I read those words the bells went off. It made perfect sense. I wished someone would have mentioned that to me earlier.


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