mercoledì 18 aprile 2012

Underwater Sunshine (Or What We Did On Our Summer Vacation)

Anno del Signore 2008: l'Empire State Building svetta nel cielo bianco di New York, emergendo dalla pioggia sottile che cade sull'obiettivo e sui nostri occhi. È la copertina di Saturday Nights & Sunday Mornings, nonché la foto migliore che io possa riportare a casa da un meraviglioso viaggio a New York avvenuto quello stesso anno, in quegli stessi giorni della sua uscita. Ora quel piccolo disco rotondo addormentato nel suo libretto di carta riposa sulla mia mensola, e quell'album ha per me una statura mitica proprio per averlo barattato con una parte di me rimasta là, nel suo paese d'origine.
Era dal 2002 che i Counting Crows non mettevano il naso fuori dai rami del loro albero, e nell'emozione degli avvenimenti, ho seriamente creduto che quello fosse il loro lavoro migliore.
Con il tempo ho imparato che si tratta invece del più debole, perché nel tempo è certamente quello che si fa ascoltare meno e che permane meno nella memoria. Rimane comunque un disco sopra la media, con grandissimi brani (e addirittura un paio di autentici capolavori) ma soltanto perché in generale i CC sono sempre stati ben oltre la media. Insomma, avevo sentenziato che il gruppo fosse in crisi.
E a ben guardare, ne sono ancora convinto, ma (c'è un ma) si è aperta la questione di quanto questa crisi possa essere profonda. (Poco, è la soluzione).

L'anno successivo, i Counting Crows abbandonano la culla nella quale sono cresciuti, l'enorme Geffen Records della Universal, per emanciparsi in modi nuovi. Principalmente hanno suonato, partendo con l'enorme e ambiziosissimo tour Saturday Night Rebel Rockers Traveling Circus and Medicine Show in compagnia di Michael Franti e i suoi Spearhead, e degli Augustana. Come ben sanno i Crowsiani (?) di lunga data, la formazione di Duritz è certamente una Live Band, che dà il suo meglio sul palco sperimentando con le canzoni. Non sono certo dei Beatles e non lo sono mai stati, intendo scienziati da studio di registrazione, con provette a forma di mixer e sintetizzatori.
I Crows sono simili a Dylan e Springsteen forse più di quanto nessuno abbia mai notato veramente. Vivono e vegetano nel paesaggio sonoro del folk - rock americano classico e genuino, quello in cui possono convivere pianoforti, hammond, armoniche, mandolini e chitarre distorte anche nella stessa canzone. Ma sono anche cresciuti in mezzo all'uragano di Nirvana e R.E.M., che ha permeato per sempre il loro classicismo di modernità. Modernità per gli anni '90 certo, ormai già antiquariato.


La somma delle cose ha creato un gruppo che, da sempre, suona musica degli anni '60 e canta moderne poesie introspettive, storie d'amore laceranti, suggestioni psicanalitiche e frammenti di vita vissuta. La forza propulsiva dei Crows, infatti, a uno sguardo superficiale, è sempre stata la vena compositiva e poetica del leader pigliatutto Adam Duritz. August and Every After ne è la summa assoluta, e ognuna delle sue canzoni è un frammento della sua anima. Ma poi?
Poi il gruppo si è allontanato progressivamente da quella sortita, aggiungendo altri fattori alla propria somma. Il risultato è sempre stato un po' adombrato dalla figura preponderante di Duritz, e oggi, con questo nuovo disco, è diventato improvvisamente lampante.
Innanzitutto, se Duritz è Springsteen, gli altri Crows sono la E-Street Band, e nessuno si sognerebbe di sminuire il cuore pulsante del ragazzo del New Jersey. Se Duritz, in Mister Jones cantava di voler diventare Bob Dylan, gli altri Crows sono La Band che lo accompagnava nel ridente decennio zero della nascita del rock. Anzi, Dan Vickrey e gli altri sono la cosa più vicina al gruppo di Robbie Robertson attualmente in circolazione, molto più di quanto Duritz assomigli al vecchio Bob. E se ci possono essere dubbi su quanto Richard Manuel e gli altri compari canadesi siano sempre stati un faro nel percorso dei Counting Crows, facciamo partire il contributo audio.


Ciò detto, arriviamo a bomba (ed era anche l'ora magari) al nuovo disco. Un disco di cover. A chi critica a prescindere queste operazioni dico STOP, ALT, aspetta. I Beatles hanno fatto cover per anni, De André, per dire, era un sostenitore delle cover e ne ha fatte un numero esagerato. Coverizzare è un atto d'amore particolare, e non c'è niente di male nell'omaggiare qualcosa che si ammira. In caso di musica di questo tipo, poi, è il ripescaggio e il tramandamento ad una nuova generazione di una musica tipicamente popolare. Un po' come se un gruppo italiano di oggi si mettesse a suonare canzoni dimenticate di Paolo Conte, Lauzi, Ciampi. Io la auspicherei una cosa del genere. Comunque sia, qui l'equazione salta, crolla, sbarella e piroetta impazzita. Hanno senso questi Crows senza i testi di Duritz? Ecco, è proprio questo che si diceva prima, questi Crows sono sempre esistiti ma non ce ne siamo mai accorti.
Occhio alla tracklist:
  1. "Untitled (Love Song)" by The Romany Rye
  2. "Start Again" by Teenage Fanclub
  3. "Hospital" by Coby Brown
  4. "Mercy" by Tender Mercies
  5. "Meet on the Ledge" by Fairport Convention
  6. "Like Teenage Gravity" by Kasey Anderson & The Honkies
  7. "Amie" by Pure Prairie League
  8. "Coming Around" by Travis
  9. "Ooh La La" by The Faces
  10. "All My Failures"
  11. "Return of the Grevious Angel" by Gram Parsons
  12. "Four White Stallions" by Tender Mercies
  13. "Jumping Jesus" by Sordid Humor
  14. "You Ain't Going Nowhere"
  15. "The Ballad of El Goodo" by Big Star
Notiamo subito dei fatti strani. Tipo: Four White Stallions è una delle canzoni più belle del loro repertorio, una canzone in giro dal 2002, una delle loro canzoni che abbiamo amato e cantato di più. È comparsa in versione studio in alcune release particolari di Hard Candy, e soprattutto in una maestosa versione live registrata fra il 4 e 6 febbraio 2003 all'Heineken Music Hall, inserita sia nel best of di quello stesso anno Films About Ghosts che nel disco live contenente quell'intero concerto New Amsterdam: Live At The Heineken Music Hall del 2006. Ora il brano ritorna ufficialmente, in versione studio, con un arrangiamento impercettibilmente diverso arricchito da fronzoli e chitarre vagamente distorte. È più brutto di entrambe le versioni precedentemente ascoltate, e poi la pretesa di renderlo finalmente ufficiale è inutile. L'intensità di quel Live è racchiusa in quei preziosi momenti del 2003, la amiamo così com'è, con le urla del pubblico, e non vogliamo ascoltarla diversamente.
Comunque sia, si diceva, questa è una cover. Di un tipo del tutto particolare però, seguitemi perché questa è complicata. La canzone è stata scritta dal bassista Kurt Stevenson e dal chitarrista Patrick Winningham in gioventù, come anche la numero quattro Mercy. Queste due canzoni, fino al 2011, non potevano avvalersi dello status di cover, semplicemente perché non erano mai state incise. Dal 2011 invece, i due amiconi dei CC hanno finalmente formato una band: i Tender Mercies, composta tra l'altro da due dei membri attivi dei CC: il chitarrista Dan Vickrey ed il batterista Jim Bogios, ed hanno anche rilasciato il loro primo album, con le loro versioni di questi brani. Ecco qui qualche altra info ed un gustoso video.
Per Jumping Jesus il discorso è molto simile. I Sordid Humor erano un gruppo nato (e morto molto presto) alla fine degli anni '80, in cui bazzicarono per un breve lasso di tempo Adam Duritz, David Immergluck e David Bryson, tre dei futuri membri dei Counting Crows. Spesso, nei concerti, il cantante con i dreadlocks più amato del mondo si diletta ora nel ripescare alcuni dei pochi brani composti in quel periodo, fra cui appunto la Jumping Jesus che tutti noi avevamo già sentito live, e che in questo arrangiamento raggiunge finalmente lo status di definitiva. Dev'essere una canzone cara al gruppo, come memoria di quei tempi. Basti pensare che il bassista dei Sordid Humor, Marty Jones, è il famoso Mr. Jones della loro più celebre canzone.
Poi, cosa vedo. Start Again è una cover degli scozzesi Teenage Fanclub, pubblicata sull'album Songs From Northern Britain del 1997 e scritta da Norman Blake. La cover dei CC è meno ferrosa, più soft e ingentilita, ma tutto sommato si discosta di poco dall'originale. Piuttosto, la cosa interessante,  è che  salta fuori dalle versioni giapponesi del già citato Hard Candy, così come un'altra di queste cover, la mitica You Ain't Going Nowhere.
Venne scritta nel 1967 da Dylan, nel suo periodo di riposo dopo la rivoluzione del rock. Bob si trovava nella sua casa di Woodstock e passava il tempo a suonare nella cantina dei suoi amici della Band (rieccoli). Molte delle stupende canzoni scritte in quel periodo vennero regalati ad amici che passavano da quelle parti, e questa finì fra le mani dei fedelissimi Byrds, che ne incisero una versione country ed educata piuttosto lontana dalle sue potenzialità. Già perché questa è la canzone cazzara per eccellenza. Un nonsense irresistibilmente orecchiabile, che nessuno, già al primo ascolto, può esimersi di canticchiare pacioso. Ci pensarono Dylan e i canadesi a renderle giustizia, pubblicando le registrazioni della cantina nel leggendario The Basement Tapes, dove il brano viene cantato giustamente in modo grezzo e scombinato. I Counting Crows interpretano bene questo spirito, firmando una delle canzoni migliori del disco e una delle versioni Dylaniane migliori in assoluto: casinista, rumorosa e fragorosa. Una meravigliosa canzone da concerto, che si canta tutti in coro, intervallando virtuosismi strumentali al canto delle folli strofe. Una delle canzoni che tutte le band vorrebbero suonare per la sua freschezza, e che certamente esplode nei concerti dei Crows, tanto che io avrei preferito l'inserimento di un bel live in questo caso.
Parlando di Byrds, ci colleghiamo subito alla Return Of The Grevious Angel di Gram Parsons, che militò anche nel gruppo di Roger McGuinn, ma che viene celebrato qui con la canzone che dà il titolo al suo secondo album da solista. La rivisitazione operata in questo caso si sente parecchio, in meglio. Molto meglio.
Sul fronte grandi classici abbiamo poi un'entusiasmante rilettura della Meet On The Ledge dei Fairport Convention, tratta dall'album del '68 What We Did On Our Holydays, dal quale deriva pure il sottotitolo dell'album dei CC. E poi, momento dolcissimo (forse il migliore), la leggendaria Ohh La La dei Faces, il gruppo dove militarono Rod Stewart e Ronnie Wood prima dello scoppio delle rispettive carriere, l'una solista, l'altra nei Rolling Stones. Si fa fatica a dire che i Counting Crows facciano una versione migliore dell'originale, sicuramente la loro è più consapevole, meno legata alle parole e più al divertimento musicale. Si tratta anche in questo caso di un'altra delle cover entrate nel repertorio dei concerti ormai da tempo.
Meno mitici sono i Pure Prairie League, dai quali i CC fotocopiano però una delle canzoni migliori del disco, una Amie deliziosa e disimpegnata, già incisa tempo fa come b-side.
Venendo ad anni recenti, Duritz e soci decidono di mettersi a fare da megafono a gruppi del sottobosco come i Dawes (fantastica la loro All My Failures, con il testo più duritziano della partita), i The Romany Rye (niente da dire, con l'esperienza dei Crows Untitled (Love Song) ci guadagna tantissimo e diventa memorabile), Kasey Anderson & The Honkies (secondo me qui l'indie spicciolo dell'originale Like Teenage Gravity dimostra di brutto quanto la solidità strumentale dei CC sia smaccatamente superiore. Insomma, usciamo dal gorgo minimale dell'indie tutto uguale).
I Travis invece li conosciamo e li amiamo per canzoni molto più belle di Coming Around, che con il falsetto di Duritz non convince affatto, specialmente in confronto all'originale, molto più malinconica e lieve (materie in cui i Travis primeggiano e non c'è niente da fare).
Il rock tagliente e malvagio di Hospital di Coby Brown è un intruso amaro piuttosto piacevole in un disco prevalentemente dai colori caldi. Si torna a sentire il tormentato lato A di Saturday Night & Sunday Morning, e lo spettro di quei R.E.M. di cui parlavamo in apertura.
Infine, in chiusura del disco e di questa carrellata, un capolavoro: The Ballad Of El Goodo. I Big Star sono un gruppo rispettato dagli intenditori, e questa canzone dimostra tutto il loro valore. È già un gioiello in forma originale, ma la cura Crows la svecchia pesantemente e la fa brillare in un nuovo sole luminoso.
E il disco, un'ora dopo, finisce.


Quindi? Dietro al progetto non c'è un vero e proprio obiettivo, molte delle canzoni le abbiamo già sentite, le nuove versioni spesso non aggiungono niente di nuovo. Sulla carta, il risultato dovrebbe essere abbastanza deprecabile.
Invece.
Invece il disco è quasi miracoloso. E tutto quello che ho detto prima, serve soltanto a farci capire che questa era una delle mosse più ovvie da parte di Duritz. Le stesse Round Here e Omaha sono cover delle versioni incise nell'unico album della sua band precedente: gli Hymalaians. In tutti i live dei CC (come soltanto Dylan prima di loro) riprendono e rimaneggiano le loro canzoni, riscrivendole sul momento, aggiungendo nuovi testi, fondendoli con altri, inventandoli improvvisando. La musica scorre e si plasma secondo l'energia che sentono, ed un brano come Rain King ha ormai tante facce quante sono i concerti in cui viene suonata. Nell'ultimo Live At The Town Hall in cui hanno ricantato interamente August and Everything After, Round Here si fonde con parole provenienti da Raining in Baltimore e Private Archipelago dei Sordid Humor; Perfect Blue Building con Miller's Angels e la canzone di Prince Sometimes it Snows in April; Rain King con la Thunder Road di Springsteen; e in A Murder Of One rivivono sia la canzone degli U2 Red Hill Mining Town che la Dorris Day dei Sordid Humor. Nel loro repertorio una delle canoni più amate è la famosa Big Yellow Taxi presa dal repertorio di Joni Mitchell, così come un paio di assoluti capolavori come Friend Of The Devil dei Grateful Dead e Blues Run The Game di Jackson C. Frank.
Insomma, i Counting Crows fanno cover dagli albori, è una delle cose in cui riescono meglio ed era naturale che ne uscisse un intero disco prima o poi. Hanno un talento del tutto innato nel rubarle alla storia e renderle loro, rileggendole, interpretandole in profondità. E comunque, accade quasi sempre che dopo che si è sentita la loro versione, è impossibile tornare all'originale.
Merito di splendidi arrangiamenti e di musicisti straordinari, una vera e propria orchestrina capace di suonare qualsiasi cosa, capitanata dallo straordinario David Immergluck (membro anche dei Camper Van Beethoven e compagno di tour del chitarrista James Maddock, qui un bel video), che con il suo caratteristico mandolino impreziosisce numerosi brani. Musica barocca, densa di suoni, curata nel dettaglio ma in cui non vengono mai snaturate genuinità e immediatezza. Duritz, come conferma in questa intervista, ama l'esercizio della cover, ama non esporsi in prima persona una volta tanto. E se non ci mette i testi, ci mette sicuramente la forza della sua voce, unica ed espressiva come poche altre in circolazione. Recentemente ha regalato ai fan (in quanto scaricabile da Soundcloud) un suo piccolo album, All My Bloody Valentines, in cui ricanta voce e pianoforte un piccolo gruppo di canzoni d'amore.
È un momento di passaggio per i Crows, che da qualche anno a questa parte preferiscono più ascoltare e suonare musica insieme, piuttosto che comporla. È una crisi, certo, ma ce ne fossero di crisi che portano ad album così piacevoli, divertenti e divertiti. Perché loro non saranno l'avanguardia geniale tipo My Morning Jacket, Vampire Weekend o Jack White, ma sono speciali. E questo è un grandissimo disco di rock che si farà ascoltare a lungo.

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