sabato 11 febbraio 2012

Old Ideas

Vecchie idee, sempre le solite, poiché effettivamente sono le più care e più importanti, quelle che Leonard Cohen esprime nel suo dodicesimo album in studio, con un piccolo aiuto dai suoi amici, per parafrasare i Beatles. L'aiuto di Patrick Leonard, storico produttore di Madonna (e altri) e della vecchia socia Anjani Thomas. La prima di innumerevoli altre donne che circondano il buon Leo in questa fase della sua vita artistica: l'imprenscindibile Sharon Robinson, Dana Glover, Jennifer Warnes e la meravigliosa new entry delle (sublimi) Webb Sisters. Nomi che non dovrebbero suonare nuovi, se si ha avuto il piacere di ascoltare uno dei più bei live degli ultimi anni, il suo Live in London del 2009.
Testimonianza di un tour che fu vera e propria rinascita per Mr. Cohen, dopo gli spiacevoli fatti che erano venuti a funestare la sua vita di tranquillo pensionato. Risaputo è infatti, che il cantautore ebreo per eccellenza, abbandonando la sua religione, si diede selvaggiamente al buddhismo rinchiudendosi per gran parte degli anni '90 in un monastero dalle parti di Los Angeles. Un silenzio (vero e proprio, in quanto prese il nome Jikan, Silenzioso, e non fece altro che meditare) interrotto dall'improbabile (ma provvidenziale) ladrocinio della sua manager, fuggita con la cassa, lasciandolo con il rinnovato patema del dover badare alla sua vecchiaia, costringendolo in qualche modo a dover ricominciare da capo.



Una cosa, la vecchiaia, che Leonard ha preso piuttosto seriamente. Lui che è sempre stato un uomo spirituale, giunto all'età per eccellenza dello spirito, e dell'astrazione di una vita in un mare di ricordi, estrae dalla valigia le vecchie idee sull'amore, su Dio, sulla vita terrena e ultraterrena, sul rapporto fra uomo e divinità. Un ritorno a qualcosa di "vecchio" che gli riesce decisamente meglio del "nuovo" delle Ten New Songs del 2001, e anche del Dear Heather del 2004, gli altri due album post ritiro spirituale. Quelli erano "appunti di un notes, ricette appese sulla porta del frigorifero", queste sono canzoni, riflessioni maturate nel corso degli anni, affinate dal vivo, sia nei testi quanto nella musica.
Sebbene ricompaiano tracce del suo amore per i suoni sintetici con cui ha flirtato nei (per lui) cari anni '80, la vicinanza dei grandi musicisti con cui è stato a contatto durante l'ultimo tour, e i loro nuovi arrangiamenti delle sue vecchie canzoni, gli hanno insegnato paesaggi sonori più variegati e avventurosi entro i quali stendere le sue poesie. Perciò ecco rispuntare chitarre acustiche, pianoforti, banjo, bassi e andamenti jazz, in una sorta di continuazione della magica atmosfera di quel live.
Ricevendo in Spagna il Premio Principe de Asturias per le lettere, ha dichiarato: “Maturando, ho capito le istruzioni per l’uso che accompagnavano la mia voce; e queste istruzioni prevedono di non lamentarsi mai in modo casuale. Se proprio bisogna esprimere la grande, inevitabile sconfitta che attende ognuno di noi, bisogna almeno farlo rimanendo entro gli stretti confini di dignità e bellezza.”
Del resto Leonard non è mai stato un allegrone, ha sempre cantato la sconfitta, lo struggimento, le difficoltà di una relazione, la nostalgia. È uno schietto realista insomma, un pittore di grigi che deprimendoci, ci fa innamorare di lui con la poesia. Poesia degli ultimi giorni è, appunto. Old Ideas.
Il testamento di un uomo di ottant'anni, che in più di 40 di carriera ha sfornato una dozzina di dischi. Il che ci dice quale cura e quale rispetto abbia della musica, limitandosi a parlare solo se effettivamente in grado di dire qualcosa. Colpa anche della sua timidezza, forse, che sul palco lo fa comportare come un ospite intruso, e come cantante lo costringe a dichiararsi sottovoce. Sì perché da anni Leonard Cohen non canta, ma declama, interpreta, in forma di crooner o chanconnier, i suoi sogni e i suoi incubi. Un borbottio profondo su cui scroscia la limpida cascata di voci femminili che lo accompagnano, in un inedito e gentile intarsio di musiche d'altri tempi. Valzer, serenate, una ninna nanna, un racconto di sé in terza persona, evaporazioni blues che sembrano uscite dal Time Out Of Mind di un altro ebreo che guardava in faccia la morte: Bob Dylan.
Obbligatoria, per un'analisi più approfondita, è la lettura di questo stupendo articolo di Paolo Vites. E mentre vi cita le canzoni, mi raccomando, fermatevi a sentirle davvero. L'ultimo profeta dei nostri tempi ci sta parlando. Prendiamoci il tempo di ascoltarlo.

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