domenica 3 febbraio 2013

Lincoln


Partiamo dal presupposto che, se per un qualsiasi altro film, la mia valutazione partirebbe diciamo da 0, per un'opera di Steven Spielberg la valutazione parte sempre e comunque da 10. All'uomo che al piccolo costo di un biglietto ci ha ripagati con roba del tipo: (i primi tre e pure il quarto, dai) Indiana Jones, ET, Munich, Minority Report, Prova a Prendermi, Duel, Salvate il soldato Ryan, Shindler's List, Lo Squalo, Jurassic Park 1 e 2 (poi non ricordo più cos'altro, sono davvero troppi) e l'ultimo immenso Tintin, è una fiducia che va accordata a prescindere. Il mio rapporto con Spielberg si è negli anni tramutato in interesse, rispetto, apprezzamento, amore e venerazione. Ed è probabilmente solo per questo troppo affetto che, questa volta, il miracolo che è lo stato di ebrezza in cui mi lascia la visione di un suo film, non si è ripetuto.
Ebbene sì, su Lincoln ho qualcosa da ridire, mio caro Steven. (Va anche detto che la visione in italiano, con l'orribile e fastidioso doppiaggio di Pierfrancesco Favino e pure di Sergio Rubini (?!) deve aver certamente mutilato il risultato finale dell'opera).

Mi pare di poter ascrivere Lincoln a quella categoria che io definisco "film a tesi". Un esempio perfetto di tale tipologia è Goodnight and Good Luck del nostro amico George Clooney (con il quale ha in comune il bravissimo attore David Strathairn). Uno di quei film in cui personaggi, trama, introspezione ed apporto emozionale vengono sovrastati dall'intento e dalla necessità di traghettare lo spettatore da un punto A ad un punto B. In questo caso abbiamo: il tormentato passaggio del 13° emendamento sull'abolizione della schiavitù. Con tutto quello che ci sta in mezzo.
Ora, io trovo profondamente sbagliata questa tipologia di film, principalmente per l'elevato numero di limiti che si autoimpongono, fin da subito, sulla carta. Una storia che si incarica di una così piccola missione non potrà in alcun modo evolvere oltre un certo punto, tarpandosi da sola le ali. Questo tipo di progetto, in effetti, sembra nascere e venire accomunato da una certa propensione didattica. In sostanza sembra uno di quei film da fare vedere nell'ora di storia ad una classe che affronta l'argomento. Sembra un documentario, un fumetto de "Il Giornalino" o, cosa più grave di tutte, una fiction televisiva italiana.
La sceneggiatura del drammaturgo Tony Kushner (autore del già bellissimo Munich) non riesce stavolta a sfuggire all'attitudine teatrale del suo autore. Ma ci può stare, anzi, va benissimo. Facciamo un film teatrale, mi sta bene. Scritto con eleganza, equilibrio, e con dialoghi perfetti, lo script di Kushner assolve ottimamente al suo ruolo di motore silenzioso e collaudato dell'opera, traghettandoci dal punto A al punto B. Come previsto. Il problema è che doveva poi intervenire pesantemente, e come ha sempre fatto, l'estro del nostro signor regista. Che invece purtroppo, in un ipotetico appello, sarebbe da segnalare come Non Pervenuto.
Quel che intendo dire è che la regia di Spielberg, la musica di John Williams, il montaggio di Michael Kahn e perfino la fotografia di Janusz Kaminski, svolgono, a mio parere, un lavoro scolastico. Spielberg e la sua solita cricca di meravigliosi artisti non fanno niente per dinamizzare, scuotere, diversificare l'offerta visiva, inventare qualcosa di diverso in una grammatica narrativa elementare. In pratica, Spielberg non ha fatto lo Spielberg, e il film non si è elevato dal suo destino progettuale. 
Come se avesse esaurito tutta la sua debordante carica di originalità visiva in Tintin, e sollevato dall'estrema bravura di tutto il cast, il regista lavora di eccessiva sottrazione, sembrando quasi addormentarsi dietro la macchina da presa, limitandosi a seguire semplicemente il gigantesco agire di Daniel Day Lewis. Un po' poco per uno come lui, che ha fatto della creatività registica il suo marchio di fabbrica. Siamo d'accordo sulla solennità degli argomenti trattati, che non permettevano evoluzioni circensi, ma più che solido il suo stile appare qui pietrificato, e l'estetica appare, di fatto, (argh! perdonami!) assolutamente televisiva. Di conseguenza, prima e più grande vittima, è stato l'apporto emotivo di un film che rischia molto spesso di rimanere arido.

Non vorrei sembrasse però che questo sia un giudizio del tutto negativo, ci mancherebbe. Girato quasi completamente in interni, Lincoln si muove in un'atmosfera claustrofobica, oscura e minacciosa. Come il suo protagonista, è un film grigio e dolente, in cui gli unici sprazzi di evasione sono i brevi momenti in esterni, vivacizzati dalla combriccola capitanata dal redivivo attore James Spader (bentornato!). Assoluto teatro dell'azione sono le tristi e oscure stanze della Casa Bianca, che in esterni appare invece, metaforicamente, brillante e lucente. Il film ruota costantemente intorno al suo protagonista.
Inizia presentandocelo esattamente come ne Il Padrino, in quella che è la scena chiave, l'unica (e questo è una pecca) in cui i neri si vedono e manifestano la loro presenza. Continua scolpendo la sua figura nella roccia, come nella famosa statua a Washington DC, e preoccupandosi di consegnarlo degnamente alla Storia, più come una figura mitica che come un uomo. Lincoln viene qui investito di una carica religiosa, sacrificandosi per l'unità del suo popolo, in funzione di una visione futura di uguaglianza e condivisione. Nella sua visita ai campi di battaglia della guerra di secessione, soffre come un padre dilaniato, e ci comunica senza parole quanta dolorosa uguaglianza si trovi nella morte. La sua ultima immagine, con le braccia aperte, è quasi quella di un Cristo che tramanda il suo insegnamento. La novità, in questo messaggio, è molto meno indulgente del solito. Perché in definitiva è solo e soltanto: il fine giustifica i mezzi. La politica, la democrazia e la vita intera, e forse anche il Cinema, non sono nient'altro che un sistema di compromessi.
Amen.

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